Lineapelle, una delle principali fiere internazionali della pelle, inizia oggi, 9 ottobre, a Bologna. Oltre un migliaio di espositori da più di quaranta paesi metterà in mostra i suoi nuovi prodotti, che daranno un'idea di quelle che saranno le mode dell'anno prossimo per quanto riguarda calzature, abbigliamento, arredamento e accessori. Ma dietro a questi oggetti di lusso c'è un affare potenzialmente sporco e pericoloso.
La produzione della pelle - e in particolar modo, la concia - impiega una vasta gamma di sostanze chimiche pericolose che possono danneggiare la salute dei lavoratori e di quelli che ci vivono vicino, per non parlare dell'ambiente. Ecco perché le concerie europee sono tenute a seguire regole stringenti riguardo al trattamento dei rifiuti, e all'adozione di equipaggiamenti di sicurezza da parte dei lavoratori. È il motivo per cui l'uso di sostanze chimiche potenzialmente dannose ai consumatori viene rigidamente regolato e, in alcuni casi, bandito del tutto.
Hazaribagh, un quartiere densamente popolato della capitale del Bangladesh, Dacca, fornisce il giusto esempio di quanto sporca e pericolosa sia la concia della pelle. Ogni giorno, circa centocinquanta concerie scaricano ventuno mila metri cubi di rifiuti nelle fogne, che fluiscono direttamente nel fiume principale della città. Questa mistura tossica contiene cromo, piombo e altre sostanze, oltre a peli e carne di animali.
Negli slum lì intorno sono in tanti a fare il bagno in stagni inquinati, inalandone i gas, e nella stagione dei monsoni le loro case ne vengono inondate. I bambini giocano su quei terreni inquinati. Quando abbiamo visitato Hazaribagh, agli inizi di quest'anno, gli abitanti del posto ci hanno detto che i rifiuti delle concerie li stavano facendo ammalare: febbri, malattie della pelle, problemi respiratori e diarrea.
Le condizioni di salute e sicurezza in alcune concerie di Hazaribagh sono deplorabili. Abbiamo parlato con lavoratori che si erano rotti braccia, perso dita o mani, in seguito a gravi incidenti coi macchinari. Una buona parte del lavoro nelle concerie include la misurazione e la miscela di agenti chimici, il riversarli sulle pelli nei bidoni, o il trasporto delle pelli fuori dai pozzi, una volta sature. Infezioni fungine, scabbia, orticaria e dermatite da contatto (una reazione della pelle a irritanti o allergeni) sono comuni fra gli operai. Altri soffrono di malattie respiratorie e dolori al petto.
Alcune delle sostanze chimiche adoperate nella manifattura della pelle sono cancerogene per l'uomo, o comunque tossiche. Ma tanti lavoratori sostengono che le loro concerie non forniscono l'equipaggiamento protettivo necessario. A volte vengono loro negate le assenze per malattia, o i risarcimenti per malattie o infermità.
Ragazze e ragazzi, alcuni solo di undici anni, lavorano nelle concerie. Per dodici o persino quattordici ore al giorno, considerevolmente oltre il limite delle cinque ore fissato dalla legge per gli adolescenti. Nonostante l'esistenza di una legge che vieta ai bambini i lavori pericolosi, ci hanno detto che fanno loro maneggiare le pelli nei pozzi pieni di acqua e sostanze chimiche, tagliare la pelle coi rasoi, e utilizzare macchinari pericolosi senza formazione o supervisione.
Jahaj ha diciassette anni, e lavora nella conceria di Hazaribagh da quando ne aveva dodici. Ci dice che processa pelli non lavorate nel primo stadio, chiamato "blu bagnato". Gli danno guanti e stivali, ma non un grembiule. Soffre di asma, irritazione cronica della pelle e pruriti, e ci mostra ustioni da acido che gli è finito sulla pelle. Quando gli si chiede perché si sia trovato a svolgere lavori così pericolosi, spiega: «Quando ho fame, non m'importa degli acidi... devo mangiare».
Il governo bengalese è da tempo a conoscenza dei danni all'ambiente causati dalle concerie. Ci sono leggi per proteggere l'ambiente dalla contaminazione, e leggi per garantire salute e sicurezza dei lavoratori. Ma i rappresentanti dell'ispettorato governativo del lavoro hanno ammesso che «le concerie di Hazaribagh restano quasi intoccabili [dal nostro operato]». Rappresentanti del dipartimento dell'ambiente ci hanno spiegato che esiste un'intesa de facto affinché non si eseguano controlli o non si applichino le leggi per l'ambiente, perché il ministero dell'industria sta preparando un'area fuori dalla città in cui raccogliere tutte le concerie. Il progetto doveva esser già concluso nel 2005, e (a oggi) dovrebbe esser pronto entro il luglio 2013. Ma almeno fino allo scorso maggio, non una singola conceria aveva iniziato a trasferirsi nel nuovo sito.
Nel 2001 la Corte suprema del Bangladesh ha sferrato un duro colpo al governo per non aver applicato le leggi per l'ambiente che imporrebbero alle concerie di Hazaribagh l'adozione di misure adeguate per il trattamento dei propri rifiuti. Il governo ha ignorato questa sentenza. Nel 2009, la Corte suprema ha stabilito che il governo dovrebbe assicurarsi che le concerie di Hazaribagh si spostino fuori da Dacca o vengano chiuse. Il governo ha richiesto di posporne la scadenza, e ha poi ignorato la sentenza quando anche i nuovi termini erano stati superati.
Non tutta questa pelle proviene dalle concerie di Hazaribagh, e i dati commerciali pubblicati non specificano l'area del Bangladesh dalla quale proviene la pelle. Né i regolamenti europei richiedono che le etichette ne riportino la provenienza. Ma quella delle concerie di Hazaribagh rappresenta il 90 per cento della produzione di pelle del Bangladesh, per cui è indubbio che una parte della pelle di questa terra senza-legge venga venduta in Europa sotto forma di oggetti di design, scarpe o cinte.
Non è dimostrabile che la pelle prodotta ad Hazaribagh verrà esposta a Bologna. Ma le aziende straniere che acquistano pelle prodotta ad Hazaribagh possono svolgere un ruolo costruttivo nel trasformare Hazaribagh in un'area governata da leggi, piuttosto che da promesse politiche infrante. Le aziende straniere, incluse quelle europee, dovrebbero assicurarsi che i loro fornitori di Hazaribagh rispettino le leggi del Bangladesh. Potrebbero, ad esempio, pretendere uno studio indipendente sulla produzione bengalese, in modo da assicurarsi che nessuna conceria scarichi i propri rifiuti senza trattarli, che non si impieghino bambini in mansioni pericolose, e che non si violino le leggi della salute e della sicurezza sul lavoro.