ECC.MA CORTE COSTITUZIONALE
Amicus Curiae
di Human Rights Watch (di seguito «HRW»), avente sede legale in New York (Stati Uniti), 350 Fifth Ave, New York, NY 10118, e legalmente costituita in Bruxelles (Belgio), Square de Meeûs 35 1000, (come da documenti allegati) in persona della Sig.ra Aisling Reidy, nata a Johannesburg (Sud Africa) il 3 gennaio 1972 (C.F. PP0698829), nella sua qualità di Avvocata e Consulente Legale Senior e legale rappresentante pro tempore ai sensi della documentazione fornita
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2-sexies del D.L. 21 ottobre 2020, n. 130, convertito in legge 18 dicembre 2020, n. 173, come modificato dal D.L. 2 gennaio 2023, n. 1, convertito con modificazioni dalla legge 24 febbraio 2023, n. 15,
sollevato con ordinanza del 10 ottobre 2024 dal Tribunale di Brindisi.
PREMESSA
HRW è un’organizzazione non governativa internazionale che dal 1978 indaga sulle violazioni dei diritti umani in tutto il mondo e ha un legittimo interesse nel caso in epigrafe. HRW documenta da oltre 22 anni gli abusi commessi ai danni di migranti e richiedenti asilo in Libia.[1] Inoltre, HRW interviene regolarmente come amicus curiae presso tribunali nazionali e internazionali su questioni di prima importanza in materia di diritti umani e diritto internazionale, ed è stata autorizzata ad intervenire come soggetto terzo in due casi contro l'Italia presso la Corte europea dei diritti dell'uomo rilevanti per il presente caso. In particolare, nella sentenza Hirsi e altri c. Italia del 2012, la Corte ha utilizzato le prove presentate da HRW per concludere, inter alia, che trasferendo i ricorrenti verso la Libia a seguito dell’intercettazione in mare, l’Italia aveva violato l'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU) a causa del rischio di maltrattamenti in Libia e di rimpatrio in Somalia ed Eritrea, nonché l’articolo 4 del protocollo n. 4 alla CEDU avendo effettuato un’espulsione collettiva.[2] Inoltre, HRW è intervenuta congiuntamente ad Amnesty International nel caso S.S. e altri c. Italia sostenendo le responsabilità dell’Italia ai sensi dell’articolo 3 della CEDU per la detenzione arbitraria, il maltrattamento e le altre gravi violazioni dei diritti umani subite dai migranti in Libia a seguito delle intercettazioni ad opera della guardia costiera libica (di seguito «GCL»), inscritte nell’ambito della collaborazione fra l’Italia e la Libia sulle politiche e pratiche migratorie.[3]Il caso è ancora sub iudice.
Relativamente al caso in epigrafe, HRW sostiene che l’obbligo di rispettare gli ordini delle autorità libiche imposto alle imbarcazioni di soccorso operanti in acque internazionali ai sensi dell’art. 1, comma 2-sexies del D.L. 2 gennaio 2023, n. 1, convertito con modificazioni dalla L. 24 febbraio 2023, n. 15, di seguito «disposizioni del decreto », comporta la violazione degli obblighi dell’Italia ai sensi del diritto internazionale, in particolare l’obbligo di non esporre nessuno al rischio di tortura o trattamenti inumani o degradanti, e l’obbligo di sbarcare le persone in un luogo sicuro a seguito di un’operazione di soccorso.
La condizione dei migranti e dei richiedenti asilo in Libia
Lo stato dei diritti dei migranti in Libia è ben noto ed è stato oggetto di ampia documentazione da parte di osservatori autorevoli.[4] Nel corso degli anni, sono emerse prove della sistematica detenzione arbitraria di migranti in condizioni inumane e degradanti, torture, violenze sessuali e di genere, lavori forzati ed estorsione, insieme ad altre gravi violazioni dei diritti umani. Nel 2016, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (OHCHR) e la missione dell’ONU in Libia definivano la situazione in Libia come una «crisi dei diritti umani» per i migranti.[5] Nel 2022, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione 2647 in cui esprimeva «seria preoccupazione per la situazione umanitaria in Libia, comprese […] le condizioni a cui sono sottoposti migranti, rifugiati e sfollati interni, tra cui detenzione arbitraria, maltrattamenti, [ed] esposizione a violenze sessuali e di genere».[6] Nel suo rapporto finale stilato nel 2023, la missione indipendente di accertamento dei fatti sulla Libia delle Nazioni Unite (UNFFM) ha evidenziato «fondati motivi per ritenere che sull’intero territorio libico siano stati commessi crimini contro l’umanità ai danni di libici e migranti in un contesto di privazione della libertà».[7] Sempre nel 2023, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze ha concluso nella sua relazione che le donne e le ragazze migranti in Libia subiscono «violazioni sistematiche e su larga scala dei diritti umani fondamentali per mano di gruppi armati, trafficanti, individui e istituzioni affiliate allo stato e all’interno della comunità [tra cui] rapimento a scopo di riscatto, sfruttamento sessuale, prostituzione forzata, tratta di persone, lavoro forzato, sfruttamento e abusi da parte di datori di lavoro privati».[8] Infine, l’ufficio del procuratore della Corte penale internazionale ha aperto un’indagine sui reati perpetrati ai danni dei migranti in Libia, rilevando che nel 2022 tali reati «potrebbero aver costituito crimini contro l’umanità e crimini di guerra».[9] Nel 2023, l’ufficio del procuratore segnalava altresi che «l’impunità per i reati contro i migranti è una costante che sussiste ancora oggi»[10], reiterando a maggio 2024 che «l’impunità per i reati contro i migranti resta motivo di preoccupazione per quest’ufficio».[11]
L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) sostiene fin dal 2014 che la Libia non può essere considerata un paese terzo sicuro, e nel 2020 ha dichiarato che la Libia non soddisfa i criteri per essere considerata un porto sicuro ai fini dello sbarco delle persone soccorse in mare. Richiamando il principio di non-refoulement, l’UNHCR ha segnalato che «qualora il coordinamento o il coinvolgimento di uno stato in una missione di ricerca e soccorso, alla luce di tutti i fatti rilevanti, sia in grado di determinare il corso degli eventi, l’UNHCR ritiene che gli obblighi negativi e positivi dello stato interessato ai sensi del diritto internazionale dei rifugiati e dei diritti umani applicabile, ivi compreso il non-refoulement, possano essere coinvolti.»[12]
La detenzione arbitraria e sistematica dei migranti in Libia è una pratica nota e documentata, nonché una conseguenza prevedibile delle intercettazioni in mare operate dalle forze della GCL, ivi comprese quelle che avvengono come diretta conseguenza dell’obbligo imposto dall’Italia alle imbarcazioni di soccorso di rispettare le istruzioni della GCL ai sensi delle disposizioni censurate.
I migranti privi di status legale in Libia sono sottoposti a detenzione in base alle leggi che regolano l’ingresso, la permanenza e l’uscita delle persone prive di documenti, e che prevedono una pena detentiva, una multa e, in ultima istanza, la deportazione.[13] La normativa in materia d’ingresso irregolare in Libia ambigua e non indica la durata massima della detenzione dovuta all’immigrazione, rendendo quindi la durata di tale detenzione indefinita. Solitamente i detenuti non hanno accesso a un legale né alcuna ragionevole opportunità di contestare la propria detenzione o espulsione. Alla luce dell’assenza di un apparato di protezione dei richiedenti asilo e delle vittime di tratta, la detenzione di massa, arbitraria e indefinita è diventata il principale sistema di gestione della migrazione in Libia.
Quando la GCL o altre autorità libiche sostenute dall’Italia (come l’Amministrazione generale della sicurezza costiera, acronimo inglese GACS, gestita dal Ministero dell’Interno) intercettano le imbarcazioni in mare, riportano i migranti in Libia e ne dispongono il sistematico trasferimento ai centri di detenzione sotto la responsabilità formale del Dipartimento per il contrasto all'immigrazione illegale (DCIM).
Il numero dei centri di detenzione ufficiali del DCIM varia costantemente, e non esiste una base normativa chiara per la loro apertura e chiusura. Sebbene il personale al loro interno provenga dal DCIM, la maggior parte dei centri sono sotto il controllo effettivo del gruppo armato egemone nel territorio in cui si trovano. I centri di detenzione non registrano sistematicamente né il nome, né la nazionalità né l’età di ciascun detenuto, pertanto non è infrequente che il DCIM, ma anche le agenzie dell’ONU e le organizzazioni umanitarie, perdano traccia delle persone che passano da una struttura all’altra.
Le detenzioni arbitrarie e abusive, nonché la diffusa impunità per queste violazioni, sono aggravate da un sistema giudiziario disfunzionale e dalle divisioni politiche originate dalla rivalità fra i due governi che si contendono la legittimità e il controllo del paese: le Forze armate arabe libiche a est e il governo di unità nazionale con base a Tripoli a ovest.[14]
Le ricerche condotte da HRW a partire dal 2016 evidenziano che, in assenza di un potere giudiziario che garantisca giusti processi, i migranti e i richiedenti asilo detenuti sono costretti a ricorrere alla corruzione, a pericolosi tentativi di fuga e all’assegnazione ai lavori forzati da parte delle milizie o delle forze alleate per ottenere il rilascio. Le testimonianze raccolte da HRW rivelano che le somme corrisposte ai trafficanti comprendono anche il pagamento preventivo per il rilascio in caso di detenzione dopo un’intercettazione.
Le condizioni e il trattamento nei centri di detenzione libici sotto il controllo del Dipartimento per il contrasto all'immigrazione illegale sono crudeli, inumane e degradanti, e potrebbero configurare il reato di tortura. Le persone soccorse in mare e riportate in Libia per diretta conseguenza delle disposizioni censurate, sarebbero detenute nelle suddette condizioni, comportando gravi violazioni dei diritti fondamentali tutelati dal diritto internazionale.
Le persone detenute arbitrariamente nei centri del DCIM versano in condizioni deplorevoli. Nel 2016, HRW ha intervistato 47 persone le quali giunte in Sicilia dalla Libia, hanno descritto i gravi abusi subiti nel paese per mano di funzionari governativi, trafficanti, membri di gruppi armati e bande criminali, oltre all’occasionale collaborazione tra funzionari e trafficanti. Otto tra le persone intervistate hanno riferito di essere state intercettate in mare in diverse occasioni dalle forze libiche, presumibilmente la guardia costiera o la marina militare, per poi essere riportate indietro insieme ad altri passeggeri, a volte dopo aver subito violenze fisiche. Una volta a terra, hanno riferito le stesse persone, venivano portate nei centri di detenzione del DCIM in cui li attendevano un estreme sovraffollamento, condizioni igieniche pessime e scarsità di cibo. Tra gli abusi riferiti, uccisioni, percosse, lavori forzati e violenze sessuali nei confronti di uomini e donne, pratiche da cui generalmente non erano esenti neppure i minori.[15]
Nel 2017, HRW ha intervistato oltre 30 persone in Sicilia e a bordo di una nave di soccorso non governativa, raccogliendo testimonianze di gravi violazioni dei diritti umani – fra cui torture, violenze sessuali e lavori forzati – sia nei centri di detenzione ufficiali che durante la prigionia presso i trafficanti.[16] Nel 2018, due ricercatrici di HRW hanno visitato quattro grandi centri di detenzione formalmente sotto il controllo del DCIM a Tripoli, Misurata e Zuwara, documentandone il forte sovraffollamento, le condizioni igieniche precarie, la scarsa qualità del cibo e dell’acqua con conseguente malnutrizione, e la mancanza di un’assistenza medica adeguata; a ciò si sono aggiunti gli inquietanti resoconti dei migranti detenuti i quali hanno riferito delle violenze subite per mano delle guardie, tra cui pestaggi, frustate e scariche elettriche. Le ricercatrici hanno documentato inoltre la detenzione di minori in condizioni non adeguate e le accuse di abusi sessuali e percosse ai loro danni da parte di guardie e trafficanti.[17] Nel novembre del 2021, HRW ha intervistato alcuni richiedenti asilo e rifugiati a Tripoli i quali hanno descritto condizioni inumane, dovute al sovraffollamento e alla mancanza di cibo e assistenza medica, e maltrattamenti successivamente sfociati in rivolte e in un’evasione di massa.[18]
A settembre 2024, HRW ha raccolto le testimonianze dettagliate di 11 persone appena fuggite dalla Libia via mare. I loro racconti di privazioni, sovraffollamento e abusi nelle strutture di detenzione e nel corso della prigionia con i trafficanti hanno confermato il persistere di torture e trattamenti crudeli, inumani e degradanti in questi luoghi. Cinque tra le persone intervistate hanno descritto il periodo della loro detenzione nel centro al-Nasr di Zawiyah e gli abusi subiti. Tutte hanno riferito di aver pagato grosse somme di denaro per essere rilasciatie in un caso, tale denaro faceva parte del «pacchetto» offerto da un trafficante, che comprendeva due tentativi di imbarco dalla Libia e il rilascio da un centro di detenzione ufficiale in caso di intercettazione e rientro dopo il primo tentativo.[19]
Nel suo rapporto finale del 2023, l’UNFFM affermava che «esistono motivi fondati per ritenere che in tutta la Libia i migranti siano vittime di crimini contro l’umanità e che nell’ambito della loro detenzione arbitraria abbiano luogo omicidi, sparizioni forzate, torture, schiavitù, violenze sessuali, stupri e altri atti inumani».[20] La missione ha evidenziato, in particolare, che sussistono ragionevoli motivi per credere che siano stati commessi crimini contro l’umanità nei centri di detenzione del DCIM di Tariq al-Matar, Abu Salim, Ain Zara, Abu-Issa, Garian, Tariq al-Sikka, Al-Mabani, Salah al-Din e Zawiyah. L’UNFFM concludeva sottolineando che ci fossero «prove incontrovertibili» delle torture sistematiche che avvenivano nei centri di detenzione del DCIM e negli hub del traffico di esseri umani di Bani Walid e Sabrata, nonché ragioni fondate per ritenere che nei luoghi di detenzione fossero stati commessi stupri, un crimine contro l’umanità, e che i migranti fossero ridotti in schiavitù nei centri del DCIM.[21] Nel luglio del 2024, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha riferito al Consiglio dei diritti umani che in Libia «[i]l traffico di esseri umani, la tortura, il lavoro forzato, l’estorsione, l’inedia in condizioni di detenzione intollerabili» siano «perpetrati su vasta scala […] impunemente» in un quadro di collusione fra stato e attori non statali.[22]
Le prove incontrovertibili del trattamento abusivo dei migranti da parte della GCL dimostrano l’impossibilità di designare quest’ultima quale attore affidabile nelle operazioni SAR conferendole l’autorità di dare istruzioni vincolanti alle navi di soccorso. Questa conclusione si vede confermata dalle prove della collusione fra le unità della GCL e altre autorità di sicurezza ufficiali e i gruppi di trafficanti. A giugno 2018, il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha sanzionato sei libici accusati di tratta di esseri umani, tra cui Abd al-Rahman al-Milad (noto anche con lo pseudonimo di Bija), allora a capo dell’unità della guardia costiera di Zawiya,[23] e Mohamed Kashlaf, le cui milizie controllano il centro di detenzione di al-Nasr.[24] Nel suo rapporto del 2023, l’UNFFM ha dichiarato di avere motivi fondati per ritenere che «personale di alto livello della guardia costiera libica, dell’Autorità di supporto alla stabilità e del Dipartimento per il contrasto all’immigrazione illegale sia stato colluso con i trafficanti, a loro volta collegati ai gruppi armati, nell’ambito dell’intercettazione e della privazione della libertà personale a danno dei migranti» e che «[i]l traffico di esseri umani, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la prigionia, l’estorsione e il contrabbando siano stati fonte di ingenti profitti per individui, gruppi e istituzioni statali».[25] Inoltre, l’UNFFM ha raccolto prove della collusione tra la GCL e i responsabili del centro di detenzione di al-Nasr.
Da quando la GCL ha iniziato a ricevere il supporto finanziario, tecnico e di sorveglianza dell’Italia e dell’Unione europea, ivi compresa la dichiarazione della zona SAR libica nel 2018, gli osservatori hanno raccolto innumerevoli prove delle condotte pericolose, non professionali, abusive e violente adottate dalle unità libiche durante le operazioni in mare. Indipendentemente dal modo in cui le forze libiche operano in mare, le loro operazioni non si qualificano come salvataggi ai sensi del diritto internazionale marittimo applicabile poiché, come sancito dalla Corte di Cassazione nella sentenza Cass. n. 4557/2024, non hanno termine in un luogo sicuro in cui le vite delle persone soccorse ed i loro diritti fondamentali siano salvaguardati.
Diritto internazionale applicabile
Human Rights Watch ritiene che le azioni dell’Italia nell’ambito delle disposizioni del Decreto, che obbligano le imbarcazioni di soccorso a rispettare gli ordini impartiti dalla GCL e prevedono sanzioni in caso di inosservanza, impegnano direttamente le responsabilità dell’Italia stessa ai sensi del diritto internazionale e costituiscono una violazione degli obblighi previsti dal diritto internazionale dei diritti umani.
Come riconosciuto dall’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale nel presente caso, l’Italia è vincolata dal divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti imposto dal diritto internazionale consuetudinario, divieto che è ribadito in numerosi trattati ratificati ’dall'Italia, come l'articolo 3 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (CAT), gli articoli 6, 7 e 9 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (ICCPR), gli articoli 4 e 19(2) della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e l'articolo 3 della CEDU.[26] Da tale divieto deriva l’obbligo giuridico di non trasferire forzatamente una persona in una giurisdizione in cui correrebbe il rischio reale di essere esposta ai trattamenti vietati. Nel diritto internazionale dei rifugiati, questo principio internazionale consuetudinario chiamato non-refoulement – il divieto legale di respingere o trasferire una persona verso un luogo in cui sarebbe esposta al rischio di persecuzione o di altri trattamenti vietati – è ribadito anche dall'articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951.[27]
La Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) ha chiarito più volte nella sua giurisprudenza che gli obblighi degli stati ai sensi dell’articolo 3 della CEDU comprendono l’obbligo positivo di garantire che una persona sotto la loro giurisdizione non sia esposta «a un rischio reale di subire trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione in caso di rimpatrio».[28] Esprimendosi in merito alla situazione in Libia nell’ambito della sentenza Hirsi c. Italia, la Corte EDU ha rilevato che «tale obbligo è ancora più importante quando, come nel caso di specie, il Paese intermedio non è uno Stato parte alla Convenzione».[29] Come sottolineato in precedenza, nel caso citato la Corte EDU ha ritenuto che «trasferendo i ricorrenti verso la Libia, le autorità italiane li abbiano esposti con piena cognizione di causa a trattamenti contrari alla Convenzione».[30] Le condizioni e il trattamento dei migranti nei centri di detenzione libici e nelle mani dei trafficanti sono rimaste sostanzialmente invariate rispetto al momento in cui la Corte EDU ha emesso la suddetta sentenza. L’UNFMM nel 2023 ha evidenziato che «le gravi violazioni continuano senza sosta e ci sono pochi segnali che si stiano facendo progressi significativi per invertire questa preoccupante tendenza».[31]
Nel rapporto stilato quando era relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, Nils Melzen ha evidenziato come «qualsivoglia partecipazione, incoraggiamento o assistenza fornita» alle operazioni di pullback che comportano l’esposizione al rischio reale di torture e maltrattamenti «sarebbe inconciliabile con un’interpretazione in buona fede e con il rispetto del divieto di tortura e maltrattamento, compreso il principio di non-refoulement».[32] Melzer ha inoltre dichiarato che «se i paesi europei pagano la Libia per impedire deliberatamente ai migranti di raggiungere la sicurezza della giurisdizione europea, si configura la loro complicità in crimini contro l’umanità poiché rimandano consapevolmente queste persone in campi in cui lo stupro, la tortura e l’omicidio regnano sovrani».[33]
Il divieto di respingimento o refoulement si applica alle espulsioni o ai rimpatri effettuati «in qualsiasi modo», vale a dire, con misure dirette e indirette.[34] Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, l’organo previsto dal trattato che fornisce un’interpretazione autorevole della CAT, sostiene che «una persona a rischio non dovrebbe mai essere deportata verso uno stato dal quale potrebbe successivamente essere deportata in un terzo stato in cui vi siano fondati motivi per ritenere che sarebbe esposta al rischio di tortura».[35] Il Comitato esecutivo dell’UNHCR ha specificamente messo in guardia contro le misure di intercettazione in mare che comportano respingimenti a catena.[36] L’UNHCR evidenzia che gli stati non dovrebbero sbarcare un rifugiato nella giurisdizione di un altro stato in cui non possono garantirne la protezione da ulteriori respingimenti o il trattamento in accordo con le norme internazionali sui diritti umani.[37]
In aggiunta, l’Italia è vincolata dal diritto internazionale marittimo, le cui disposizioni sono contenute nella Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare del 1974 e nella Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo del 1979, e che impone il salvataggio di ogni persona in pericolo in mare e il suo trasporto in un luogo sicuro, ossia un luogo in cui la vita della persona soccorsa non sia più minacciata e in cui possano essere soddisfatti i suoi bisogni umani fondamentali (come cibo, alloggio e assistenza medica). Come già segnalato nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale del presente caso, la Corte di Cassazione ha riconosciuto che la Libia non è un luogo sicuro.
Favorire l’intercettazione e il ritorno forzato in Libia dei migranti in cerca di protezione è una violazione degli obblighi dell’Italia ai sensi del diritto internazionale dei rifugiati, poiché la Libia non fa parte della Convenzione di Ginevra del 1951 e non dispone né di una legge sui rifugiati né di una procedura di asilo. Questo significa che i migranti che vi rientrano non dispongono della possibilità di un ricorso effettivo circa le loro esigenze di protezione.
Il Decreto impone di fatto alle imbarcazioni di soccorso di lavorare di concerto con la GCL per intercettare le persone in acque internazionali, pur essendo ben noto all’Italia che la GCL riporterà queste persone in Libia, un paese che non costituisce un luogo sicuro ai sensi del diritto internazionale, e nel quale saranno sottoposte a detenzione arbitraria, trattamenti crudeli, inumani o degradanti e al rischio di ulteriori gravi violazioni dei diritti umani, potenzialmente anche crimini contro l’umanità.
L’osservanza delle istruzioni della GCL durante i salvataggi in mare contribuisce in modo diretto e significativo alle intercettazioni di migranti e richiedenti asilo da parte delle forze libiche, che si traducono nel respingimento forzato di queste persone verso un luogo in cui saranno sottoposte ad una detenzione arbitraria e indefinita in condizioni inumane e degradanti, e conseguentemente esposte al rischio di altre gravissime violazioni dei diritti umani.
Pertanto, l’implementazione delle disposizioni oggetto di scrutinio costituzionale, che prevedono l’applicazione di sanzioni al comandante o armatore della nave per il mancato rispetto delle istruzioni fornite da un’autorità nazionale anche qualora ciò implichi, come nel caso dell’autorità nazionale libica, il rischio di gravi violazioni dei diritti fondamentali delle persone soccorse, è in diretto contrasto con gli obblighi dell’Italia in base al diritto internazionale consuetudinario e convenzionale.
Aisling Reidy
Avvocata e Consulente Giuridico Senior
Dicembre 3, 2024
[1] Si veda la relazione di Human Rights Watch sulla Libia e sulle violazioni dei diritti dei migranti, disponibile su: https://www.hrw.org/middle-east/n-africa/libya.
[2] Hirsi Jamaa e altri c. Italia, richiesta n. 27765/09, sentenza del 23 febbraio 2012 disponibile su: https://hudoc.echr.coe.int/fre?i=001-109231.
[3] Interventi di Human Rights Watch e Amnesty International presso la Corte europea dei diritti dell’uomo, richiesta n. 21660/18, disponibili su:
[4] Nella rimessione di questo caso alla Corte Costituzionale, il Tribunale di Brindisi riporta la sentenza della Corte di Cassazione Cass. n. 4557/2024 in cui si rileva il sussistere di condizioni inumane e degradanti nei centri di detenzione per stranieri sul territorio libico e, di conseguenza, si afferma che la Libia non è qualificabile come porto sicuro per lo sbarco dei migranti.
[5] Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Detained and Dehumanised – Report on Human Rights Abuses Against Migrants in Libya, 13 dicembre 2016, disponibile su: https://bit.ly/2Q6XqKo.
[6] UN Doc. S/Res/2647 (2022), adottata il 28 luglio 2022, disponibile su: https://documents.un.org/doc/undoc/gen/n22/444/11/pdf/n2244411.pdf
[7] Relazione della missione indipendente di accertamento dei fatti sulla Libia Doc. A/HRC/52/83, abstract e par. 2; vedasi altresì il par. 4: «… la missione ha verificato che sono stati commessi crimini contro l’umanità ai danni dei migranti nei centri di detenzione sotto il controllo effettivo o nominale del Dipartimento per il contrasto all'immigrazione illegale della Libia, della guardia costiera libica e dell’Autorità di supporto alla stabilità. Questi organismi hanno ricevuto sostegno tecnico, logistico e finanziario dall’Unione europea e dai suoi stati membri per, inter alia, l’intercettazione e il rimpatrio dei migranti» (corsivo aggiunto); e il par. 42: «i casi indagati dalla missione durante il periodo oggetto della relazione hanno confermato la sussistenza di motivi fondati per ritenere che i seguenti crimini contro l'umanità siano stati commessi nei centri di detenzione del Dipartimento per il contrasto all'immigrazione illegale […] La missione ha rilevato il ruolo particolarmente significativo dell’Autorità di supporto alla stabilità nei crimini contro l’umanità attraverso la cooperazione con la guardia costiera libica a Zawiyah […]» (corsivo aggiunto).
[8] Relazione di Reem Alsalem, relatrice speciale sulla violenza contro le donne e le ragazze, le sue cause e conseguenze, maggio 2023, disponibile su: https://www.ecoi.net/en/file/local/2093259/G2308492.pdf.
[9] Ventitreesima relazione del procuratore della Corte penale internazionale al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a seguito della risoluzione 1970 (2011), par. 25, disponibile su: https://www.icc-cpi.int/sites/default/files/2022-04/2022-04-28-otp-report-unsc-libya-eng.pdf.
[10] Ventiseiesima relazione del procuratore della Corte penale internazionale al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a seguito della risoluzione 1970 (2011), par. 44, disponibile su: https://www.icc-cpi.int/sites/default/files/2023-11/2023-11-08-report-prosecutor-unsc-libya-eng.pdf.
[11] Ventisettesima relazione del procuratore della Corte penale internazionale al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a seguito della risoluzione 1970 (2011), par. 46, disponibile su: https://www.icc-cpi.int/sites/default/files/2024-05/2024-05-14-otp-unsc-report-libya-eng.pdf.
[12] Posizione dell’UNHCR sulla designazione della Libia come paese terzo sicuro e come porto sicuro ai fini dello sbarco dopo un salvataggio in mare, settembre 2020, par. 34, disponibile su: https://www.refworld.org/policy/countrypos/unhcr/2020/en/123326.
[13] Legge n. 6 (1987) che regolamenta l’uscita, l’ingresso e la permanenza di cittadini stranieri in Libia, 20 giugno 1987, e legge n. 19 (2010) sul contrasto all’immigrazione irregolare.
[14] Ricerche di HRW, ad esempio: https://www.hrw.org/world-report/2024/country-chapters/libya.
[15] HRW, EU/NATO: Europe’s Plan Endangers Foreigners in Libya, luglio 2016, disponibile su: https://www.hrw.org/news/2016/07/06/eu/nato-europes-plan-endangers-foreigners-libya.
[16] HRW, Saving Lives at Sea, novembre 2017, disponibile su:https://www.hrw.org/video-photos/interactive/2017/11/30/saving-lives-sea.
[17] HRW, L’inferno senza scampo, gennaio 2019, disponibile su: https://www.hrw.org/it/report/2019/01/21/326624.
[18] HRW, Libya: Asylum Seekers, Refugees Need Crisis Response, novembre 2021, disponibile su: https://www.hrw.org/news/2021/11/03/libya-asylum-seekers-refugees-need-crisis-response.
[19] Materiale non pubblicato, tutte le interviste sono archiviate presso Human Rights Watch.
[20] Relazione della missione indipendente di accertamento dei fatti, op. cit. par. 41.
[21] Relazione della missione indipendente di accertamento dei fatti, op. cit. par. 42.
[22] Comunicato stampa delle Nazioni Unite Arbitrary detentions and impunity widespread in Libya, warns UN Türk, 9 luglio 2024, disponibile su: https://news.un.org/en/story/2024/07/1151866.
[23] https://www.un.org/press/en/2018/sc13371.doc.htm e https://bit.ly/32CH6nh. Al-Milad sarebbe stato ucciso a settembre 2024. https://www.theguardian.com/world/article/2024/sep/02/notorious-human-trafficker-killed-in-tripoli-shooting-italian-and-libyan-officials-say.
[24] https://main.un.org/securitycouncil/en/sanctions/1970/materials/summaries/individual/mohammed-al-amin-al-arabi-kashlaf.
[25] Relazione della missione indipendente di accertamento dei fatti, op. cit. par. 44.
[26] Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata il 10 dicembre 1984, risoluzione dell’Assemblea generale 39/46, allegato, 39 U.N. GAOR Supp. (n. 51) a 197, U.N. Doc. A/39/51 (1984), entrata in vigore il 26 giugno 1987, ratificata dall’Italia il 12 gennaio 1989; Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966, risoluzione dell’Assemblea generale 2200A (XXI), 21 U.N. GAOR Supp. (n. 16) a 52, U.N. Doc. A/6316 (1966), 999 U.N.T.S. 171, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato dall’Italia il 15 settembre 1978; Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, 213 U.N.T.S. 222, entrata in vigore il 3 settembre 1953, emendata dai protocolli n. 11 e 14, ETS 5, 4 novembre 1950, ratificata dall’Italia il 26 ottobre 1955.
[27] Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani, The principle of non-refoulement under international human rights law, 1 gennaio 2028, disponibile su: https://migrationnetwork.un.org/resources/principle-non-refoulement-under-international-human-rights-law (consultato il 26 agosto 2024); UNHCR, The Principle of Non-Refoulement as a Norm of Customary International Law. Response to the Questions Posed to UNHCR by the Federal Constitutional Court of the Federal Republic of Germany in Cases 2 BvR 1938/93, 2 BvR 1953/93, 2 BvR 1954/93, 31 gennaio 1994, disponibile su: https://www.refworld.org/jurisprudence/amicus/unhcr/1994/en/20625 (consultato il 26 agosto 2024).
[28] Hirsi, § 146 citando T.I. c. Regno Unito (dec.), n. 43844/98, CEDU 2000-III, e M.S.S. c. Belgio e Grecia, n. 30696/09, § 342, e § 147: «È lo Stato che procede al respingimento a doversi assicurare che il Paese intermedio offra garanzie sufficienti che permettano di evitare che la persona interessata venga espulsa verso il suo Paese di origine senza valutare il rischio cui va incontro». La stessa Corte ha fornito linee guida dettagliate sui requisiti per valutare se la decisione di respingimento da parte di uno stato esponga gli individui ai rischi citati nell’articolo 3. Vedasi: F.G. c. Svezia, n. 43611/11, §111.
[29] Hirsi, §§ 146-47.
[30] Hirsi § 137.
[31] Relazione della missione indipendente di accertamento dei fatti, op. cit. par. 7.
[32] Relazione del relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti, paragrafi 56-59, UN Doc. A/HRC/37/50, febbraio 2018, disponibile su: https://www.ohchr.org/Documents/Issues/Torture/A_HRC_37_50_EN.pdf (consultato il 29 ottobre 2018). Vedasi anche Thomas Gammeltoft-Hansen e James C. Hathaway, Non-Refoulement in a World of Cooperative Deterrence, University of Michigan Law School, Scholarship Repository, disponibile su: https://repository.law.umich.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1216&context=law_econ_current (consultato il 29 ottobre 2018).
[33] Humanity is on path to self-destruction, warns UN special rapporteur, The Guardian, 10 dicembre 2018, disponibile su: https://www.theguardian.com/global-development/2018/dec/10/humanity-is-on-path-to-self-destruction-warns-un-special-rapporteur-nils-melzer (consultato il 10 dicembre 2018).
[34] Convenzione di Ginevra, art. 33(1).
[35] Ufficio dell’Alto commissario per i diritti umani, Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura, General Comment No. 4 (2017) on the implementation of article 3 of the Convention in the context of article 22, par. 12, UN Doc CAT/C/GC/4, 4 settembre 2018, disponibile su: https://documents.un.org/doc/undoc/gen/g18/268/21/pdf/g1826821.pdf (consultato il 26 agosto 2024).
[36] UNHCR, Conclusion adopted by the Executive Committee on International Protection on protection safeguards in interception measures, No. 97 (LIV) – 2003, 10 ottobre 2003, disponibile su: https://www.unhcr.org/us/media/conclusion-adopted-executive-committee-international-protection-protection-safeguards (consultato il 30 maggio 2024).
[37] UNHCR, General legal considerations: search-and-rescue operations involving refugees and migrants at sea, par. 6, novembre 2017, disponibile su: https://www.refworld.org/policy/legalguidance/unhcr/2017/en/119597 (consultato il 30 maggio 2024).