Sintesi
Se uno scappa dall’inferno, come puoi fermarlo e riportarlo all’inferno?
- Bamba, trentunenne ivoriano arrivato in Italia a ottobre 2016
Abdul, dalla voce dolce, ha lasciato il Darfur nel 2016, a diciotto anni. È andato in Egitto, dove è stato registrato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) ma, avendo perso le speranze di essere reinsediato, ha deciso di raggiungere la Libia per tentare il viaggio verso la salvezza in Europa. Ha passato tre mesi nel capannone di un trafficante a Sabrata, ma anche lì ha trovato solo “grandi sofferenze”, per questo è fuggito a Tripoli. È stato solo all’inizio di maggio 2018 che, alle prime luci del mattino, si è stipato su un gommone con oltre 100 persone a bordo ed è salpato da Khoms, una città costiera a est di Tripoli. Il viaggio è stato breve: la Guardia Costiera libica li ha intercettati dopo sole quattro ore in mare.
Quando abbiamo parlato era metà luglio e lui era in via di ripresa da quelle che ha definito torture, subite per mano delle guardie nel centro di detenzione di Karareem, vicino Misurata, dove aveva trascorso due mesi in una struttura sovraffollata, antigienica e in pessime condizioni. Ci ha raccontato che le guardie lo colpivano sulle piante dei piedi con un tubo per fargli confessare di aver aiutato tre uomini a fuggire. Le speranze di Abdul erano appese a un filo: il suo unico desiderio era di essere trasferito in un centro di detenzione a Tripoli, dove sperava di avere dei contatti con qualche agenzia dell’ONU che potesse aiutarlo.
La sua esperienza racchiude gli sforzi, le speranze tradite e le sofferenze dei tantissimi migranti e richiedenti asilo che oggi si trovano in Libia: debitori di trafficanti senza scrupoli, prigionieri di un mercato che sfrutta i bisogni umani più essenziali come la sopravvivenza e la dignità, vittime dell’indifferenza se non dell’aperta ostilità verso chi avrebbe bisogno di protezione e sicurezza.
A luglio 2018, due ricercatraci di Human Rights Watch hanno visitato quattro centri di detenzione a Tripoli, Misurata e Zuwara, nei quali hanno documentato le condizioni disumane dovute a grave sovraffollamento, igiene precaria, scarsa qualità di cibo e acqua con conseguente malnutrizione, assistenza sanitaria insufficiente, nonché inquietanti resoconti delle violenze subite dalle guardie, tra cui pestaggi, frustate e uso di scariche elettriche.
In Libia, i bambini rischiano la detenzione tanto quanto gli adulti. Human Rights Watch ha trovato un gran numero di minori, persino neonati, reclusi in condizioni gravemente inadeguate nei centri di Ain Zara, Tajoura e Misurata. L’alimentazione è insufficiente sia per loro che per chi li accudisce, comprese le madri che allattano. L’assistenza sanitaria per i bambini, come del resto per gli adulti, è assente o a dir poco deficitaria. Non ci sono attività regolari e organizzate, né aree giochi o programmi didattici di alcun tipo. Nei primi nove mesi del 2018, quasi il 20 per cento dei migranti che hanno raggiunto l’Europa via mare partendo dalla Libia aveva meno di 18 anni. Ai bambini non sono neanche risparmiati gli abusi: abbiamo documentato accuse di violenza sessuale e pestaggi per mano di guardie e trafficanti.
La detenzione dei migranti in Libia è arbitraria in base al diritto internazionale in quanto prolungata, indefinita e non soggetta a controllo giurisdizionale.
Gli alti funzionari dell’UE sono ben consapevoli delle condizioni inaccettabili riservate ai migranti detenuti. A novembre 2017 Dimitri Avramopoulos, commissario europeo per le migrazioni, ha dichiarato: “Siamo tutti a conoscenza delle condizioni terribili e degradanti in cui versano molti migranti in Libia”. Come diversi alti funzionari europei, ha ribadito più volte l’impegno a migliorare le condizioni della detenzione in Libia, proprio alla luce degli abusi gravissimi e diffusi. Tuttavia, dai nostri colloqui con i detenuti, il personale dei centri, i funzionari libici e gli operatori umanitari è emerso che gli sforzi dell’UE per migliorare le condizioni e il trattamento dei migranti nei centri ufficiali hanno avuto scarsa efficacia.
La collaborazione fra la Libia e l’Unione Europea sembra piuttosto contribuire a un circolo vizioso di insostenibili abusi. È con il supporto dell’UE che la Guardia Costiera libica intercetta i migranti in mare e li riporta nei centri di detenzione, dove vivono in condizioni intollerabili e degradanti, esposti al rischio di torture, violenze sessuali, estorsioni e lavori forzati.
Dal 2016 in poi, l’Unione ha concentrato i propri sforzi nell’intento di impedire le partenze dei barconi dalle coste libiche. I suoi leader rivendicano questa decisione presentandola come una necessità politica e pratica, per riaffermare il controllo sulle frontiere esterne del continente e “smantellare il modello operativo dei trafficanti”, ma anche come un imperativo umanitario per fermare i pericolosi viaggi per mare. In realtà, quest’approccio che mira a esternalizzare il controllo della migrazione ha l’effetto di evitare le responsabilità legali che sussistono nei confronti dei richiedenti asilo che riescono a raggiungere il territorio europeo.
Le istituzioni e gli stati membri dell’Unione hanno riversato milioni di euro in programmi che aumentano la capacità del governo di unità nazionale con sede a Tripoli – una delle due autorità che si contendono il potere in Libia, la cui forza si basa più sulle alleanze fungibili con le milizie che su un reale controllo del territorio – di intercettare le imbarcazioni che partono dal paese e rinchiudere i migranti nei centri di detenzione, dove versano in condizioni spaventose. L’Italia, che è la nazione europea in cui sbarcano la maggior parte dei migranti partiti dalla Libia, è al primo posto nella fornitura di assistenza tecnica e materiale alla Guardia Costiera libica, e ha rinunciato a ogni responsabilità nel coordinamento delle operazioni di soccorso in mare nel tentativo di arginare gli arrivi sulle sue coste.
Quasi tutte le missioni gestite dalle organizzazioni non governative nel Mediterraneo centrale si sono scontrate con ostacoli legali e burocratici. Secondo i dati dell’UNHCR, se dalla metà del 2017 è calato il numero delle partenze, le possibilità di morire nelle acque davanti alle coste libiche sono aumentate in modo significativo, passando da 1 su 42 nel 2017 a 1 su 18 nel 2018.
Gli scontri fra gruppi armati rivali scoppiati a Tripoli ad agosto del 2018, che sono durati per un intero mese, hanno creato nuovi problemi e nuovi rischi per i migranti detenuti. Durante i conflitti, che hanno messo a nudo la fragile tenuta del governo di unità nazionale provocando vittime civili e distruggendo molti edifici, le guardie hanno abbandonato almeno due centri di detenzione, lasciando i reclusi senza alcuna difesa pur di allontanarsi dalle ostilità. Alla fine, le autorità li hanno trasferiti a centinaia nei centri della capitale, contribuendo al sovraffollamento già imperante. Inoltre, gli scontri hanno interrotto temporaneamente l’arrivo degli aiuti umanitari dell’UE e i programmi delle Nazioni Unite per evacuare i richiedenti asilo più vulnerabili e rimpatriare i migranti.
Dalla fine del 2017, l’UNHCR e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), anch’essa un’agenzia dell’ONU, hanno accelerato i programmi finanziati dall’Unione Europea per offrire ai migranti la possibilità di una partenza sicura dalla Libia, un paese senza alcuna legge sui rifugiati né sistema di asilo. Alla fine di novembre del 2018, l’Alto Commissariato aveva evacuato 2.069 richiedenti asilo spostandoli nel centro di transito di Niamey, in Niger, in attesa di ricevere lo status di rifugiati e potersi infine reinsediare in Europa o in altre nazioni. Tuttavia, il proposito si è scontrato con la limitatezza delle capacità e del mandato dell’UNHCR in Libia, nonché con il divario fra il numero dei posti disponibili nei paesi ospitanti e quello dei rifugiati che dovrebbero usufruirne. A novembre 2018, altre 312 persone sono state mandate direttamente in Italia e 95 in un centro di transito di emergenza in Romania.
Fra gennaio 2017 e novembre 2018 l’OIM ha aiutato più di 30.000 persone a lasciare la Libia per rientrare nel paese di origine con il suo “programma di ritorno volontario umanitario”. Sebbene sia un valido aiuto per i migranti che non hanno bisogno della protezione internazionale e che desiderano tornare a casa sani e salvi, questo programma non può essere definito realmente volontario, perché le uniche alternative disponibili sono la prospettiva di una detenzione indefinita e violenta in Libia, o una pericolosa quanto costosa traversata del Mediterraneo.
Malgrado queste attività, il crescente numero di imbarcazioni intercettate dai guardacoste libici con il sostegno dell’UE ha portato a un aumento dei reclusi nei centri di detenzione. Nel periodo considerato dalla nostra ricerca, luglio 2018, nei centri ufficiali erano presenti circa 8-10.000 persone, contro le 5.200 di aprile 2018.
Il trattamento crudele, inumano e degradante descritto in questa relazione viola la legge internazionale. Le autorità libiche sono responsabili di questi abusi e di non sanzionare quanti li commettono. Le istituzioni dell’UE sono informate dei maltrattamenti e delle pessime condizioni riservate ai migranti intercettati, e offrono il loro supporto proprio nell’intento di migliorare la situazione. Ma nonostante gli scarsi risultati ottenuti, continuano a puntare sulla strategia sbagliata, affidando alla Guardia Costiera libica il compito di intercettare i migranti e i richiedenti asilo per poi ricondurli in Libia. Nella misura in cui l’UE, l’Italia e gli altri governi danno consapevolmente un sostegno fondamentale agli abusi commessi sui detenuti, ne sono complici.
Né la complessità dei flussi migratori internazionali, né le molteplici sfide che la Libia si trova ad affrontare possono giustificare la brutalità che questo paese riserva a migranti, richiedenti asilo e rifugiati.
Raccomandazioni principali
- Le autorità libiche devono porre fine alla detenzione arbitraria dei migranti e creare delle alternative, permettere all’UNHCR di operare nel pieno rispetto del suo mandato, migliorare le condizioni nei centri di detenzione e garantire che gli attori statali e non statali colpevoli di violare i diritti dei migranti e dei richiedenti asilo debbano rispondere delle proprie azioni.
- Le istituzioni e gli stati membri dell’Unione Europea devono assicurare e consentire vaste operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, promuovere con decisione il reinsediamento dei richiedenti asilo e dei migranti più vulnerabili fuori dalla Libia, e imporre dei parametri chiari per il miglioramento sia delle operazioni di soccorso dei guardacoste libici, sia del trattamento e delle condizioni nei centri di detenzione ufficiali, preparandosi a sospendere la collaborazione col paese qualora gli obiettivi non fossero raggiunti.
- Le agenzie delle Nazioni Unite devono insistere affinché l’UE e le autorità libiche rispettino i diritti dei migranti e dei richiedenti asilo, migliorare il coordinamento interno e con il governo della Libia per garantire che le persone con esigenze di protezione, compresi i bambini, siano adeguatamente identificate, seguite e protette.
Metodologia
Questa relazione si basa sulla ricerca condotta da Human Rights Watch in Libia dal 4 al 12 luglio 2018. Pur avendo richiesto al Ministero dell’Interno del governo di unità nazionale l’accesso a tutte le strutture gestite dal Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (DCIM) nella parte occidentale del paese, abbiamo ottenuto l’autorizzazione solo per i quattro centri di detenzione di Ain Zara, Tajoura, Zuwara e Misurata. Tutte le interviste con i detenuti si sono svolte in privato e debitamente lontano dalle guardie. Il personale dei centri non ha stabilito con chi farci parlare. Durante i colloqui, le guardie potevano vederci ma non ascoltarci. Uno degli intervistati, fuggito poche settimane dopo la nostra visita, ci ha fatto sapere che una guardia lo ha sollecitato a riferire le nostre domande e quello che ci aveva detto.
Abbiamo svolto 66 interviste con altrettanti migranti e richiedenti asilo, e sette interviste di gruppo con un totale di 41 persone. Abbiamo parlato con 33 donne, 66 uomini, 4 ragazze non accompagnate di età compresa fra gli 8 e i 17 anni e 4 ragazzi non accompagnati fra i 13 e i 16 anni. Le interviste collettive ci hanno permesso di raccogliere informazioni sulla situazione all’interno dei centri, dati specifici su gruppi di persone della stessa nazionalità ed esperienze condivise di arresti o intercettazioni in mare. Quasi tutti i racconti più particolareggiati vengono dai colloqui individuali, anche se qualche dettaglio personale è emerso anche nelle situazioni di gruppo. Le interviste sono state condotte in inglese, francese e arabo. Gli intervistati provenivano da Bangladesh, Camerun, Costa d’Avorio, Egitto, Eritrea, Etiopia, Gambia, Mali, Marocco, Nigeria, Palestina, Sierra Leone, Siria, Somalia, e Sudan (Darfur).
In ogni centro di detenzione visitato, con Human Rights Watch abbiamo incontrato il direttore e altri impiegati di alto livello. Inoltre, abbiamo parlato con il capo del DCIM, alcuni alti funzionari della Guardia Costiera del governo di unità nazionale (spesso abbreviato con la sigla inglese GNA), compreso il suo comandante e portavoce, e i responsabili delle missioni per conto dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, oltre al personale delle organizzazioni non governative. Infine, abbiamo incontrato i rappresentanti della missione UE di assistenza alle frontiere in Libia (EUBAM) e l’ambasciatore italiano allora in carica nel paese.
Abbiamo inviato lettere con un resoconto dettagliato del nostro lavoro, chiedendo un commento in proposito, al capo del DCIM, brigadiere generale Mohamed Bishr, al vicepremier e Ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini, al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, all’Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri Federica Mogherini, al presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e a un rappresentante dell’Organizzazione Marittima internazionale. Non abbiamo ricevuto alcuna risposta in tempo utile per poterla includere in questa relazione. Abbiamo posto alcune domande anche all’OIM e all’UNHCR: le loro risposte sono invece presenti nel testo.
Questa relazione contiene anche quanto è emerso da alcune interviste con migranti e richiedenti asilo condotte in Italia nel 2016 e a bordo della nave di una Ong nel 2017.
Tutti i nomi dei migranti, rifugiati e richiedenti asilo intervistati sono stati modificati per ragioni di protezione. In ogni caso, Human Rights Watch ha comunicato agli interessati che non avrebbero ottenuto alcun servizio o vantaggio personale in cambio delle loro testimonianze, e che i colloqui avevano carattere del tutto volontario.
Abbiamo deciso di incontrare il direttore del DCIM alla fine della missione di ricerca, per informarlo dei maltrattamenti e delle condizioni inumane nelle strutture detentive. Non abbiamo citato casi singoli con il personale dei centri per proteggere i detenuti da ogni possibile ritorsione.
Come stabilito dalle norme internazionali, tutti gli intervistati al di sotto dei 18 anni sono considerati bambini.
Questa relazione riguarda esclusivamente le attività di detenzione e la collaborazione con l’Unione Europea nella Libia occidentale, e non prende in esame il regime carcerario e le attività della guardia costiera nella parte orientale del paese, controllata da forze affiliate all’Esercito nazionale libico (LNA) e al governo ad interim. Sebbene l’UE e i suoi stati membri sostengano solo il governo di unità nazionale con sede a Tripoli e non abbiano alcun rapporto formale con il governo rivale dell’est, alcune nazioni, fra cui l’Italia, il Regno Unito e la Francia, tengono incontri con il generale Khalifa Haftar, comandante dell’LNA.
I. Migranti, richiedenti asilo e rifugiati in Libia
Da tempo la Libia è una meta per i migranti in cerca di lavoro, ma anche un luogo di transito per migranti, rifugiati e richiedenti asilo che tentano di raggiungere l’Unione Europea.[1] Le stime su quanti si trovino attualmente nel paese variano sensibilmente: oltre agli 8-10.000 migranti e richiedenti asilo ufficialmente detenuti al momento della nostra ricerca, secondo le Nazioni Unite sono più di 680.000 quelli che vivono in Libia al di fuori delle strutture detentive, e un numero imprecisato si trova in capannoni e altri centri irregolari gestiti da reti di trafficanti e milizie.[2] All’interno del suo campo d’azione gravemente limitato (come spiegheremo in seguito), a metà ottobre 2018 l’agenzia per i rifugiati dell’ONU aveva registrato 55.912 rifugiati e richiedenti asilo, provenienti soprattutto da Siria, Iraq ed Eritrea.[3]
Alle sommosse e al conflitto armato del 2011, che hanno portato alla caduta di Muammar Gheddafi dopo 42 anni di governo, è seguito un breve periodo di tregua prima che una nuova ondata di violenza si abbattesse sul paese nel 2014. Questa situazione ha portato al collasso del potere centrale e all’emergere inizialmente di tre, adesso due, autorità separate che si contendono la legittimità al governo. L’attuale disordine politico e gli scontri armati che si protraggono dal 2014 hanno sprofondato la Libia in una crisi economica in cui i traffici illegali, compreso quello di esseri umani, hanno trovato terreno fertile. Quello dei trafficanti è diventato un business multimilionario, un’importante fonte di sostentamento per molti libici.[4]
Due forze si disputano la legittimità e il controllo del paese. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e l’Unione Europea riconoscono il governo di unità nazionale (GNA), con capitale a Tripoli, nella Libia occidentale, ma non il rivale governo ad interim con sede a Beida, Tobruk e Bengasi. In molte zone le milizie legate ai Ministeri dell’Interno e della Difesa del GNA si sono scontrate con quelle affiliate all’Esercito nazionale libico (LNA) e al governo rivale. Ogni sforzo compiuto per raggiungere una riconciliazione politica è fallito. Nel vasto meridione del paese, un punto nodale per i traffici regionali, i gruppi armati Tebu, Tuareg e arabi combattono per il controllo del territorio e delle risorse. Questo conflitto ha decimato l’economia e i servizi pubblici libici, compresi il sistema sanitario, le forze dell’ordine e il sistema giudiziario.[5] Sono circa 200.000 i profughi interni a causa degli scontri.[6] A ovest, le milizie controllano i posti di blocco, pattugliano le strade, gestiscono le prigioni e offrono servizi di sicurezza alle corporazioni private, come le banche, e alle istituzioni pubbliche, fra cui ministeri, carceri e centri di detenzione. In più, sono coinvolte in attività criminali come il traffico di esseri umani e l’estorsione.[7]
Alla fine di agosto del 2018, a Tripoli è esplosa una lotta fra gruppi armati legati ai Ministeri dell’Interno e della Difesa del GNA, che si contendevano il controllo del territorio e l’accesso ai profitti delle istituzioni attive nella capitale. Le ostilità sono state interrotte il 26 settembre grazie a un cessate il fuoco mediato dall’ONU, dopo aver provocato 100 vittime e almeno 500 feriti, per lo più civili.[8] I migranti reclusi in almeno due centri di detenzione sono stati trasferiti in altre strutture, sempre a Tripoli, mentre pare che diverse centinaia siano stati liberati da un terzo centro. Gli scontri hanno provocato gravi interruzioni nei servizi forniti dalle Ong e dalle agenzie delle Nazioni Unite. A causa della scarsa sicurezza, l’organizzazione umanitaria Medici Senza Frontiere (MSF) ha ridotto temporaneamente il personale e le attività mediche nei centri del DCIM a Tripoli.[9]
Per oltre dieci anni Human Rights Watch ha documentato gli abusi perpetrati in Libia da trafficanti, milizie e gang criminali a spese dei migranti, fra cui stupri, pestaggi, omicidi, rapimenti per riscatto, sfruttamento sessuale e lavori forzati.[10] A luglio Kameela, una ventitreenne somala detenuta nel centro di Ain Zara, ci ha raccontato di essere stata prigioniera dei trafficanti nel sud del paese per tre mesi, tra la fine del 2017 e l’inizio del 2018, insieme a suo marito e altre 400 persone, e di essere stata stuprata ripetutamente. “C’era un uomo alto, un libico, che mi violentava. Mio marito non poteva fermarlo, gli puntavano una pistola alla testa. Lo faceva ogni notte. Se gli dicevo ‘non toccarmi’, mi picchiava”. Quando l’abbiamo incontrata, Kameela era incinta di sette mesi: ci ha detto che la gravidanza era il frutto di quello stupro.[11]
Molti migranti che si rivolgono ai trafficanti sperando che semplifichino il loro viaggio migratorio finiscono vittime della tratta di esseri umani, che il diritto internazionale definisce come “il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone, tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione [...] o tramite il dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento”.[12]
Ci sono prove evidenti del fatto che i trafficanti siano collusi a vari livelli con i funzionari del governo e le milizie. Una relazione confidenziale del gruppo di esperti delle Nazioni Unite sulla Libia, trapelata sulla stampa a febbraio 2018 ed esaminata da Human Rights Watch, conclude che la maggior parte dei gruppi di trafficanti hanno dei legami con le istituzioni ufficiali responsabili della sicurezza. Gli esperti esprimono preoccupazione “sul possibile uso delle strutture e dei fondi statali da parte di gruppi armati e trafficanti per aumentare il controllo delle rotte della migrazione”. [13] A tal proposito, citano le testimonianze di alcuni Eritrei che dichiarano di essere stati arrestati dalle Forze speciali di deterrenza, una milizia affiliata al Ministero dell’Interno del GNA, per poi essere consegnati alle reti dei trafficanti.[14] A giugno 2018 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha imposto sanzioni a sei libici accusati di tratta di esseri umani, fra i quali citiamo Abd Al-Rahman Al-Milad, che dirige l’unità della Guardia Costiera a Zawiya ed è associato, almeno ufficialmente, al Ministero della Difesa del governo di unità nazionale.[15]
A settembre 2018, l’UNHCR ha rinnovato l’appello a tutte le nazioni perché “consentano ai civili (cittadini libici, residenti abituali in Libia, cittadini di paesi terzi) di poter fuggire dalla Libia e di avere accesso ai loro territori”. L’agenzia per i rifugiati ha esortato i vari paesi a sospendere i rimpatri forzati verso la Libia, compresi i migranti soccorsi o intercettati in mare, affermando che non dovrebbe essere considerata un “paese terzo sicuro” e chiedendo di non rifiutare le domande di asilo da parte di coloro che vi sono transitati.[16] Tuttavia, l’UNHCR non ha assunto una posizione chiara sui programmi dell’Unione Europea per il potenziamento della Guardia Costiera libica, sebbene sia la politica che la prassi condannino le persone intercettate o soccorse dalle sue unità a subire una detenzione disumana e degradante, che è arbitraria in quanto prolungata, indefinita e non soggetta a controllo giurisdizionale.
La detenzione
Gli stranieri che, indipendentemente dall’età, non possiedono un’autorizzazione per stare in Libia vengono arrestati in base a leggi che risalgono all’era di Gheddafi e che criminalizzano e puniscono ogni ingresso, permanenza e uscita non documentata con detenzione, multe e lavori forzati.[17]
La detenzione degli immigrati può essere indefinita, perché la legge non stabilisce un termine massimo, specificando solo che può essere seguita dalla deportazione. Non ci sono procedure formali che permettano ai detenuti di chiedere un avvocato o di avere qualunque possibilità di contestare la decisione di arresto. La detenzione prolungata di adulti e bambini oltre il periodo strettamente necessario a dare corso a una deportazione legale e senza offrire alcun accesso alla revisione giudiziaria è considerata arbitraria ed è proibita dal diritto internazionale.
Human Rights Watch è a conoscenza di un solo caso in cui sembra che le autorità libiche abbiano liberato i prigionieri dai centri di detenzione tramite un processo giuridico: si tratta di cinque palestinesi e due siriani che erano stati intercettati in mare e detenuti a Tajoura, per poi essere rilasciati dopo aver pagato delle multe per l’ingresso e l’uscita irregolare. Il direttore del centro in questione ha riferito che in seguito quelle stesse persone si trovavano su una nave di soccorso sbarcata in Spagna a luglio 2018.[18]
Il Dipartimento per la lotta alla migrazione illegale (DCIM), gestito dal Ministero dell’Interno del GNA, è nominalmente responsabile per la gestione dei centri di detenzione ufficiali. A luglio del 2018, durante la visita di Human Rights Watch, il capo del DCIM brigadiere generale Mohamed Bishr ha dichiarato che i detenuti erano 8.672 distribuiti in 16 centri, contro i 5.200 del mese di aprile.[19] Secondo le stime dell’OIM, nello stesso periodo i migranti e richiedenti asilo in regime di detenzione ufficiale erano più di 9.300.[20] Il numero dei centri regolari oscilla nel tempo: la logica su cui si basano aperture e chiusure può lasciare alquanto perplessi. Sebbene il personale appartenga al DCIM, la maggior parte delle strutture ricade sotto il controllo effettivo del gruppo armato che comanda della zona in cui si trova.
Quando Human Rights Watch vi si è recata, il centro di Ain Zara era sorvegliato dalla milizia che controlla gran parte della città, nota come Battaglione 42 o “al-Sheikh”, dal nome del suo comandante Hakim al-Sheikh. Le nostre ricercatrici hanno notato l’ingresso di miliziani nella struttura e la presenza di veicoli armati privi di contrassegni parcheggiati all’esterno. Presso il centro di detenzione di Tajoura, invece, la milizia conosciuta come Katibat al-Dhaman, guidata da Mohamed Dreider, è responsabile della sicurezza del complesso carcerario, che ospita la base del DCIM e una prigione separata di pertinenza del Ministero della Giustizia; anche in questo stabilimento è stata notata la presenza di miliziani armati. Un’unità della “Regione militare centrale,” un gruppo armato legato al GNA e composto in prevalenza da membri di Misurata, si occupa della sorveglianza nel centro di Karareem, all’interno del quale durante la nostra visita erano presenti uomini armati. A Zuwara, infine, la sicurezza del centro di detenzione (così come quella di tutta la città) è affidata a una milizia nota come “Forza di protezione di Zuwara,” che dipende dal consiglio militare locale.
Come già sottolineato, i miliziani e altri gruppi armati gestiscono un numero imprecisato di centri di detenzione non ufficiali. Un richiedente asilo del Darfur ha raccontato alle nostre ricercatrici di essere stato trattenuto per due settimane a Tripoli nella base militare della Brigata 301, un importante gruppo armato controllato da Misurata e allineato con il GNA, dove l’hanno costretto a lavorare a titolo gratuito.[21] Medici Senza Frontiere (MSF) offre assistenza medica e umanitaria ai migranti nei centri di detenzione ufficiali libici. In una relazione di dicembre 2017, l’organizzazione ha spiegato che “i luoghi di prigionia non ufficiali possono essere occupati e classificati come centri di detenzione da un giorno all’altro, o viceversa [...] Quando nuovi dirigenti o guardie assumono il controllo, il regime di detenzione può cambiare, diventare più o meno violento e consentire o impedire la fornitura di servizi da parte dell’ONU e delle Ong”.[22]
Sebbene alcuni dei detenuti nelle strutture del DCIM siano stati arrestati durante i raid negli accampamenti dei trafficanti, in case private o posti di blocco sulle strade, è l’aumento delle imbarcazioni intercettate in mare dalla Guardia Costiera a ingrossare i numeri dei centri, contribuendo al loro sovraffollamento e al conseguente deterioramento delle condizioni. L’UNHCR segnala un “peggioramento critico” della situazione, con il suo strascico di disordini e proteste.[23] Almeno 59 detenuti sui 107 che abbiamo intervistato nei quattro centri a luglio 2018 erano stati intercettati o soccorsi dai guardacoste libici. La natura arbitraria e indefinita del sistema di detenzione dei migranti in Libia implica che gli unici modi per uscirne siano discrezionali, non ufficiali e spesso pericolosi o basati sullo sfruttamento.
A volte i detenuti vengono liberati per lavorare in case private, nel settore agricolo o nell’edilizia. Alcuni sono pagati per il loro lavoro e poi lasciati liberi di partire o fuggire. Tuttavia, con Human Rights Watch abbiamo raccolto numerose testimonianze di persone costrette a lavorare senza alcun compenso. Ad esempio Issouf, un ragazzo ivoriano di 31 anni che abbiamo intervistato a bordo della nave di una Ong a ottobre 2017, ha trascorso poco tempo nel centro di detenzione di Tajoura nel 2016: ne è uscito rapidamente perché lo hanno scelto per lavorare come muratore per un uomo. “No, no, no, non mi pagava. Non mi ha lasciato andare: sono scappato. Ti fanno lavorare, ma quando hai finito ti riportano in prigione”, ci ha raccontato.[24] Anche Ousmane, un venticinquenne del Mali, è riuscito a scappare dopo che l’avevano fatto uscire dal centro di detenzione di Abu Salim, dove era rimasto per otto mesi, per andare a fare il muratore.[25] Musa, 16 anni, detenuto nel centro di Tajoura, ci ha detto nell’intervista: “A volte i maschi possono uscire per lavorare nei campi. Ma io non voglio. Lavori per mesi e mesi, e alla fine magari ti vendono a qualcun altro”.[26]
Suleyman, un trentenne proveniente dal Darfur, in Sudan, ci ha raccontato di essere stato costretto a lavorare senza compenso per un gruppo armato quando era detenuto nel centro del DCIM a Tripoli conosciuto come Trig al-Matar:
Mi hanno fatto uscire di prigione per pulire le strade, gli istituti e le università, e lavorare nella base militare della Brigata 301, ma non mi pagavano. Sono rimasto nell’accampamento [della Brigata] per circa 14 giorni, dormivo lì. Mi davano un pasto al giorno, a volte neanche quello. Qualcuno dei nostri ha protestato, allora hanno preso un tizio, Nasreddin, e gli hanno sparato alle gambe.[27]
Un altro metodo per uscire dalla detenzione è corrompere le guardie o i funzionari del consolato per farsi liberare.[28] Un ragazzo di 16 anni che ha raggiunto l’Italia nel 2017 ha riferito a Human Rights Watch di aver pagato per uscire dal centro di Tajoura, per poi “andare dritto dalla prigione alla barca”.[29]
Alcuni detenuti tentano fughe pericolose. A Tajoura ci hanno raccontato che diversi uomini avevano tentato l’evasione poche settimane prima della nostra visita: qualcuno era riuscito a scappare, altri erano stati colpiti e feriti dalle guardie. Un detenuto del centro di Karareem a Misurata ha detto di essere stato torturato per aver aiutato tre uomini a fuggire.[30] Abbiamo poi saputo che ad alcuni tentativi di evasione sono seguite punizioni collettive. Il ragazzo sedicenne di cui parlavamo prima, ad esempio, sosteneva che le guardie di Tajoura avessero picchiato “tutti” dopo che un gruppo di detenuti aveva provato a scappare.
Alcuni rappresentanti delle ambasciate a Tripoli fanno visita ai centri di detenzione o tengono colloqui su Skype con i loro connazionali per favorirne il ritorno in patria. Il direttore del centro di Ain Zara afferma che la maggioranza dei detenuti, soprattutto i sudanesi, rifiutano di incontrare i loro ambasciatori, anche se ricorda un caso in cui un rappresentante del governo del Sudan è riuscito a convincere un gruppo di persone ad accettare il rimpatrio. Secondo un ex detenuto palestinese, pare che un richiedente asilo proveniente da Gaza, dopo aver trascorso un anno e mezzo nel centro Trig al-Sikka di Tripoli, sia stato prima deportato in Egitto e poi ricondotto a Gaza.[31]
Abbiamo anche saputo di alcune visite del personale dell’ambasciata somala nei centri di Ain Zara e Tajoura, quest’ultima proprio lo stesso giorno in cui ci siamo stati noi. I somali sono fra le nove nazionalità che l’UNHCR potrebbe classificare come persone di interesse e che potrebbero avere esigenze di protezione: l’impegno dei funzionari somali per identificare e rimpatriare i connazionali desta serie preoccupazioni a meno che l’agenzia per i rifugiati non abbia la possibilità di valutare preventivamente le necessità di protezione dei detenuti in questione, o i rischi che affronterebbero una volta tornati.
Fino al mese di ottobre del 2017, l’UNHCR riusciva a far liberare i richiedenti asilo particolarmente vulnerabili (soprattutto donne, bambini e casi medici critici o urgenti) facendosene carico; nel corso di quell’anno, 1.428 persone hanno usufruito di questo intervento.[32] La sede dell’agenzia in Libia ci ha spiegato che, a partire da quel momento, le autorità del paese hanno iniziato a concedere il rilascio di detenuti solo in caso di evacuazione verso un paese terzo.[33] A Tripoli, il centro di “transito e partenza” allestito dall’UNHCR per ospitare fino a 1.000 persone uscite dai centri di detenzione è rimasto vuoto per cinque mesi prima di ricevere il via libera definitivo dal governo, giunto all’inizio di dicembre 2018.[34] Il centro dovrebbe consentire una certa liberà di movimento ai richiedenti asilo che vi risiederanno.
Infine, l’UNHCR gestisce un programma di evacuazione dei richiedenti asilo e l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) ne offre un altro per riportare i migranti usciti dai centri di detenzione libici nel loro paese di origine. Di entrambe queste iniziative parleremo nel prossimo capitolo.
II. La collaborazione dell’UE con la Libia sui migranti
Malgrado l’instabilità della Libia, dal 2015 l’Unione Europea ha rafforzato la sua partnership con il governo di unità nazionale per il controllo del flusso migratorio. Questa collaborazione nasce dal desiderio delle istituzioni europee di delegare le responsabilità per il controllo della migrazione ai paesi che non fanno parte dell’UE. È almeno dal 2016 che i suoi leader rivendicano quest’approccio, presentandolo come una necessità politica e pratica per riaffermare il controllo sulle frontiere esterne del continente, ma anche come un imperativo umanitario per fermare i pericolosi viaggi per mare. A giugno 2018, hanno quindi ribadito il loro impegno a “a proseguire e rafforzare questa politica per evitare un ritorno ai flussi incontrollati del 2015 e contenere ulteriormente la migrazione illegale su tutte le rotte esistenti ed emergenti [...] per porre fine alle attività dei trafficanti dalla Libia o da altri paesi [...] per smantellare definitivamente il modello di attività dei trafficanti e impedire in tal modo la tragica perdita di vite umane”.[35]
La strategia descritta ha l’effetto di evitare le responsabilità legali che sussistono nei confronti dei migranti e richiedenti asilo che riescono a raggiungere il territorio europeo, comprese le sue acque territoriali, o comunque rientrano nella giurisdizione dell’UE. La giurisprudenza comunitaria afferma il diritto di richiedere asilo, garantendo procedure giuste e un trattamento dignitoso.[36]
Le scelte tattiche sono influenzate anche da calcoli politici. Marco Minniti – Ministro dell’Interno durante il governo del premier Paolo Gentiloni, promotore di una cooperazione più stretta con le autorità libiche sulla migrazione e ideatore di politiche per limitare le operazioni di soccorso delle Ong nel Mediterraneo – ha affermato che “un’alternativa non può essere quella di rassegnarsi all'impossibilità di governare i flussi migratori e consegnare ai trafficanti di esseri umani le chiavi delle democrazie europee, questo è il cuore del problema”.[37] La teoria secondo cui politiche migratorie più severe avrebbero sottratto consensi ai partiti anti-migranti si è dimostrata sbagliata: il Partito Democratico di Minniti ha subito una dura sconfitta alle elezioni politiche del 2018 e il suo successore, il leghista Matteo Salvini, ha bloccato gli sbarchi delle navi di soccorso delle Ong, minacciando di riportare i migranti salvati in Libia in aperta violazione del diritto internazionale, e cercando una collaborazione ancora maggiore con le autorità libiche.[38]
Gli aiuti finanziari alla Libia si articolano in svariati programmi, concepiti sia per aumentare l’efficacia del controllo delle frontiere, in particolare attraverso la Guardia Costiera, che per risolvere i problemi cronici e sistemici del regime di detenzione che il paese riserva ai migranti, alla luce delle questioni emerse sui diritti umani. L’UE ha stanziato 266 milioni di euro dal suo fondo fiduciario di emergenza per l’Africa in favore dei programmi collegati all’immigrazione in Libia, più altri 20 milioni di euro tramite l’assistenza bilaterale.[39] Questi aiuti finanziari hanno promosso dei cambiamenti positivi, fra cui l’addestramento e una registrazione più efficiente di migranti e richiedenti asilo, e hanno permesso a un numero limitato di persone di uscire da una detenzione abusiva. Tuttavia, non hanno sortito alcun effetto sulla situazione dei centri libici, in cui la violenza resta diffusa e sistematica e le condizioni di vita pessime.
Il sostegno alla Guardia Costiera libica
Il potenziamento della Guardia Costiera e della Marina militare sotto il governo di unità nazionale libico è uno dei fulcri della politica di contenimento dell’Unione Europea. La sua missione contro la tratta di esseri umani EUNAVFOR MED, nota anche come Operazione Sophia, ha avuto inizio a ottobre 2016 e prevede un programma di addestramento per gli ufficiali, i sottoufficiali e gli equipaggi della Marina e della Guardia Costiera libica, che almeno nominalmente rispondono al Ministero della Difesa del GNA. In base ai dati di giugno 2018, hanno seguito i corsi di formazione 213 membri del personale sui 3.385 totali.[40] Una relazione classificata del 2018, redatta dalla missione UE di assistenza alle frontiere in Libia (EUBAM), indica che la Guardia Costiera comprende un “numero imprecisato” di ex guerriglieri rivoluzionari che nel 2011 hanno combattuto per rovesciare Gheddafi e sono stati assorbiti fra i guardacoste dopo il 2012, senza ricevere alcun tipo di addestramento.[41]
L’Italia è al primo posto nell’UE per il suo impegno a rafforzare il controllo delle frontiere e il pattugliamento del Mediterraneo da parte delle autorità libiche. Da ex potenza coloniale, ha profondi legami storici, politici ed economici con il paese africano, e ha stretto accordi di cooperazione importanti in materia di immigrazione con il governo di Gheddafi.[42] Gran parte dei migranti e dei richiedenti asilo che partono dalla Libia finiscono sulle coste italiane. I vari governi che si sono succeduti hanno accusato gli altri membri dell’Unione di non aver condiviso l’onere dell’assistenza legale e dell’accoglienza dei nuovi arrivati, rispondendo all’aumento esponenziale degli sbarchi in corso dal 2014 con politiche basate sul contrasto dei flussi migratori, malgrado le ripercussioni negative sui diritti umani.[43] Più di qualunque altra nazione europea, l’Italia sta investendo ingenti risorse materiali e politiche per aiutare e legittimare le autorità libiche a intercettare e trattenere chiunque cerchi di lasciare il paese via mare.
L’Italia ha firmato un memorandum d’intesa con il governo libico sul contrasto all'immigrazione illegale a febbraio del 2017. Da allora, ha fornito quattro motovedette facendo seguito a un accordo del 2008, e ad agosto 2018 il parlamento italiano ha approvato un decreto governativo per donare dodici motovedette alla Guardia Costiera libica, insieme a 1.370.000 € per la manutenzione delle imbarcazioni e l’addestramento del personale.[44] Come parte del pacchetto, a ottobre 2018 è stata consegnata una motovedetta da 27 metri per “potenziare il controllo delle frontiere e combattere il traffico illegale di esseri umani”.[45]
Inoltre, nell’ambito di un progetto finanziato dall’Unione Europea, l’Italia sta aiutando la Libia a creare un centro di coordinamento dei soccorsi marittimi (MRCC), che dovrebbe essere operativo nel 2020, e nel frattempo ospita una sala operativa libica a bordo di una nave della Marina Militare all’ancora nel porto di Tripoli. Il colonnello Abu Ajeila Ammar, a capo delle operazioni di ricerca e soccorso della Guardia Costiera libica, ha dichiarato a Human Rights Watch: “Ci coordiniamo con i MRCC di Roma e Malta, e la sala operativa serve per migliorare la nostra collaborazione”.[46]
La Guardia Costiera libica non è in grado di fornire una copertura continua o risposte rapide a ogni situazione di pericolo registrata nella zona di ricerca e soccorso che il paese stesso ha definito. In una relazione trapelata a marzo, l’operazione dell’UE contro la tratta di esseri umani EUNAVFOR MED parlava di “situazione infrastrutturale critica” nelle sale operative, capacità linguistiche e informatiche limitate del personale, scarsità di carburante e attrezzature.[47] Le unità libiche hanno imbarcazioni inadeguate e insufficienti, problemi cronici di manutenzione e mancanza di carburante, che limitano la loro capacità di pattugliare persino le acque territoriali e di raggiungere tempestivamente gli eventuali natanti in difficoltà, come è emerso nelle interviste di Human Rights Watch ai comandanti dei guardacoste svolte a Tripoli e Sabrata a luglio 2018.[48]
Facendo grande affidamento sul supporto tecnico e sulla sorveglianza dell’Italia, nei primi sette mesi del 2018 la Guardia Costiera libica ha aumentato le intercettazioni rispetto al 2017, fermando un totale di 12.490 persone: un aumento del 41 percento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.[49] I dati dell’UNHCR rivelano che alla fine del 2018 le persone intercettate dai guardacoste erano 15.235, un numero lievemente inferiore rispetto al 2017.[50]
A giugno del 2018, l’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), un istituto intergovernativo delle Nazioni Unite, ha riconosciuto alla Libia un’ampia zona SAR (ricerca e soccorso). Ad aprile dello stesso anno, durante un incontro in cui Human Rights Watch ha discusso le prove delle scarse capacità e del comportamento sconsiderato e pericoloso della Guardia Costiera libica, le accuse di collusione fra le sue unità e i trafficanti di esseri umani e i rischi corsi da migranti e richiedenti asilo riportati in Libia, un alto funzionario dell’IMO ha risposto che il coordinamento fra i vari MRCC era sufficiente e che, in base al diritto marittimo esistente, “non si può generalizzare dichiarando la Libia un posto non sicuro”.[51] Ha inoltre spiegato che la funzione dell’IMO è di registrare le zone SAR dichiarate, purché la dichiarazione sia conforme ai requisiti richiesti e accettata dagli stati confinanti.[52]
Il riconoscimento della SAR libica ha coinciso con l’assunzione della linea dura da parte del nuovo governo italiano, con la chiusura dei porti alle organizzazioni non governative e l’intensificazione della prassi, già testata da maggio del 2017, di delegare la responsabilità delle operazioni alle forze libiche in acque internazionali anche in presenza di altre navi meglio equipaggiate (come le motovedette della Marina militare) e più vicine all’evento.[53] L’incertezza sul coordinamento dei soccorsi e degli sbarchi, insieme ai procedimenti giudiziari, al sequestro delle navi e alle azioni amministrative per bloccarle nei porti, ha costretto per mesi le Ong a sospendere le missioni di salvataggio nel Mediterraneo centrale.[54] Alla fine di novembre del 2018, tre di esse sono tornate operative nelle acque internazionali davanti alla Libia.[55]
Le imbarcazioni commerciali vengono interpellate per rispondere a situazioni di pericolo e costrette a consegnare i migranti alla Guardia Costiera libica direttamente in mare o a farli sbarcare in Libia. In diversi casi, l’Italia ha dato indicazioni a queste navi solo nella fase iniziale del soccorso, per poi affidare il coordinamento alle autorità libiche.[56] La resistenza e le proteste delle persone salvate all’idea di tornare in Libia è un chiaro segnale di quanto temano, a giusta ragione, di finire nuovamente detenuti in condizioni inumane e degradanti.[57] Il 20 novembre 2018, le unità libiche hanno usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per evacuare con la forza la nave da carico Nivin, dalla quale circa 80 persone si rifiutavano di scendere da dieci giorni. Seguendo le istruzioni del MRCC italiano, la Nivin li aveva soccorsi in acque internazionali per poi attraccare nel porto di Misurata.[58] Gli osservatori sul campo stimano che ci siano stati undici feriti, tre dei quali con ferite da arma da fuoco. Human Rights Watch non è stata in grado di confermare questa informazione in modo indipendente. Del gruppo coinvolto, 50 persone sono state condotte nei centri di detenzione e 29 imprigionate con le accuse di dirottamento e pirateria.
Alla fine di novembre 2018, il peschereccio spagnolo Nuestra Madre de Loreto è rimasto in mare per dieci giorni con undici persone a bordo, dopo averle soccorse in acque internazionali. Il capitano si rifiutava di eseguire l’ordine di condurli in un porto libico, anche quando a richiederlo era il governo spagnolo. Malta ha concesso lo sbarco il 2 dicembre, a condizione che tutti i migranti fossero trasferiti in Spagna.
Il tasso di mortalità per ogni tentativo di traversata è aumentato notevolmente. L’UNHCR ha calcolato che una persona su 18 risulta morta o dispersa fra gennaio e luglio 2018, mentre nello stesso periodo del 2017 il rapporto era di uno su 42.[59] L’OIM ha inoltre calcolato che il tasso di mortalità è aumentato dal 2,1 per cento del 2017 al 3,1 per cento del 2018. Sempre secondo l’organizzazione, sono stati registrati 20 decessi ad aprile e 11 a maggio 2018, mentre sono circa 564 i morti o dispersi del mese di giugno.[60] Un’analisi statistica sviluppata dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) in base ai dati dell’OIM e dell’UNHCR dimostra che il numero dei decessi in mare in rapporto a quello dei migranti che tentano il viaggio ha subito un brusco aumento in assenza delle Ong, dal 2,3 al 7 per cento.[61] La mappa elaborata dall’ISPI sui principali naufragi (quelli con più di 15 vittime) avvenuti fra il 16 e il 31 luglio 2018 mostra che tanti di essi hanno avuto luogo nelle aree che in precedenza erano sorvegliate dalle Ong.[62]
Alexandra, 25 anni, ghanese e madre di due figli giunta in Libia con suo marito Kofi, 32 anni, racconta di essere salita su un barcone con altre 180 persone a giugno; quando la Guardia Costiera li ha intercettati e fatti sbarcare, hanno visto cadaveri di migranti:
Quando è arrivata la Guardia Costiera libica non ce lo aspettavamo, eravamo nel mare blu [così i migranti chiamano le acque internazionali]. C’erano donne e bambini a bordo con noi, e avevamo iniziato a imbarcare acqua. Quando siamo scesi nel porto di Khoms, ho visto cinque cadaveri che venivano da un’altra barca. Puzzavano ed erano pieni di mosche. Abbiamo dovuto dormire al porto per una notte. Finché siamo stati lì, i corpi non sono stati tolti.[63]
Quando l’abbiamo incontrata, Alexandra era in regime di detenzione, come suo marito.
Alcuni intervistati descrivono gesti intimidatori o violenti da parte dei membri della Guardia Costiera durante le intercettazioni. Joanna, trentaquattrenne del Camerun con tre figli, ci ha detto di essersi imbarcata con altre 170 persone all’inizio di giugno 2018. Erano già in acque internazionali dopo dieci ore di navigazione quando si sono avvicinati i guardacoste:
Gli uomini sulla nave della Libia ci hanno lanciato una corda, all’inizio ci siamo rifiutati di legarci a loro. Allora hanno sparato in aria e ci hanno minacciati: “Se non legate la corda alla barca, vi spareremo addosso”. Così ci siamo arresi, e hanno iniziato a trasferirci sulla loro nave.[64]
Ahmed, 26 anni, palestinese di Gaza, descrive un episodio simile avvenuto a maggio 2018, quando la Guardia Costiera ha avvicinato la barca su cui si trovava per il suo secondo tentativo di raggiungere l’Europa. Erano in mare da 11 ore e avevano avvistato una grande nave arancione:
Qualcuno è saltato giù e ha iniziato a nuotare verso la barca straniera... Due dei tre libici a bordo della nave di soccorso, uno della Guardia Costiera e altri due in uniforme militare, hanno sparato in acqua vicino a dove ci trovavamo. Poi sono venuti vicinissimi e hanno iniziato a sollevare le onde per farci paura. Alla fine ci siamo spaventati e abbiamo iniziato a salire sulla loro nave. Ci hanno portati a Khoms.[65]
Potrebbe trattarsi dello stesso episodio segnalato da SOS MEDITERRANEE, la cui nave di soccorso, l’Aquarius, è arancione e bianca: il 7 maggio, il suo equipaggio aveva visto dei migranti saltare in acqua. Il gruppo umanitario riferisce che la Guardia Costiera libica ha rifiutato le reiterate offerte di assistenza e ha ordinato loro di allontanarsi.[66]
L’ambasciatore italiano allora in carica in Libia, Giuseppe Perrone, ha dichiarato a Human Rights Watch che l’addestramento ha prodotto “miglioramenti significativi” nelle prestazioni della Guardia Costiera. Pur riconoscendo che le guardie tendevano a essere “troppo aggressive [in alcune occasioni]”, ha chiarito che “abbiamo discusso con loro di questo comportamento aggressivo. Hanno un approccio difensivo, dicono che devono proteggere i migranti quando le loro vite sono a rischio. Stiamo cercando di plasmare una visione che li spinga a trattare gli africani con rispetto”.[67]
L’assistenza umanitaria nei centri di detenzione
Le istituzioni e gli stati membri dell’UE hanno più volte dichiarato di non finanziare direttamente il Dipartimento libico per la lotta alla migrazione illegale (DCIM), devolvendo piuttosto i fondi alle agenzie dell’ONU e alle organizzazioni non governative per migliorare le condizioni nei centri e fornire assistenza medica e materiale ai migranti.[68] Tramite la sua agenzia per la cooperazione e lo sviluppo, il governo italiano ha destinato due milioni di euro a sette Ong per offrire assistenza ai detenuti in tre centri a Tripoli, e ha indetto un bando per un programma da 4,2 milioni di euro che riguarderà cinque centri intorno alla capitale libica (Gharyan, Sabrata, Zuwara, Khoms e Gianzur).[69] Queste iniziative prevedono la fornitura di materiali (materassi, coperte, vestiti), kit igienici per uomini e donne, cure mediche (comprese le campagne anti scabbia) e assistenza per migliorare le condizioni sanitarie generali.
Il personale delle organizzazioni umanitarie internazionali attive in Libia ha descritto a Human Rights Watch l’insufficienza del coordinamento, che sfocia perfino in controversie tra i vari attori umanitari (ivi comprese le agenzie dell’ONU), e la mancanza di un quadro di riferimento che tenga conto delle situazioni di conflitto, valutando la loro interazione con l’assistenza umanitaria per evitare conseguenze negative. Più in generale, questi osservatori hanno espresso il timore che gli aiuti umanitari ai detenuti nei centri ufficiali, per quanto essenziali, finiscano per sorreggere un sistema di detenzione violento e arbitrario, e facciano da foglia di fico per le politiche europee di controllo dei flussi migratori.[70] I nostri interlocutori hanno richiesto l’anonimato per proteggere il loro accesso ai centri e i loro rapporti con le autorità libiche e dell’UE.
Il personale dell’OIM e dell’UNHCR è autorizzato a collaborare agli sbarchi in 12 porti ufficiali lungo la costa occidentale fra Misurata e Zuwara. Ognuna delle agenzie è responsabile di sei punti di sbarco, dove fornisce assistenza di base (kit igienici) e controlli medici rapidi, anche se non sistematici per tutti, e registra i dati principali di ogni nuovo arrivato, cioè nome e nazionalità.
I racconti di alcuni migranti intercettati dalla Guardia Costiera libica sembrano indicare che queste organizzazioni dell’ONU non siano presenti a tutti gli sbarchi, o perché questi avvengono in luoghi non ufficiali e sperduti o nelle ore notturne, oppure perché non sono in grado di inviare il loro personale.
Mulugeta, un ragazzo etiope di 27 anni che abbiamo intervistato nel centro di detenzione di Zuwara, ci ha detto che quando è sbarcato in città, a giugno 2018, non c’era nessuna organizzazione internazionale. Un gruppo di uomini con addosso un misto di uniformi e abiti civili hanno confiscato denaro e telefoni cellulari a tutti i presenti, e uno di loro ha picchiato Mulugeta che aveva chiesto di riaverli indietro: “Ci facevano tenere giù la testa, quindi non ho modo di sapere chi è stato”.[71]
Solomon, 20 anni, della Sierra Leone, ha perso suo fratello più piccolo in mare durante il suo ultimo tentativo di arrivare in Europa su un barcone, il 29 giugno. Durante l’intervista ci ha raccontato che i membri del DCIM, dopo averli fatti sbarcare, hanno sequestrato il telefono a tutti i migranti, per poi sottrarre anche il denaro una volta arrivati nel centro di detenzione, e non restituire più nessun effetto personale.[72]
Le agenzie delle Nazioni Unite stanno cercando di sistematizzare la registrazione dei migranti nei punti di sbarco, usando tablet elettronici per salvare i dati principali. Una volta fermati, i migranti possono essere trasferiti da un centro di detenzione all’altro senza che ci siano dei veri registri, ma anche uscirne per ragioni diverse, ad esempio, perché finiscono nelle reti dei trafficanti, corrompono qualcuno, i miliziani li mettono ai lavori forzati o riescono a evadere. I centri non registrano in modo ordinato nomi, nazionalità ed età di ogni detenuto che ospitano. Per questo è facile che il DCIM, ma anche le agenzie dell’ONU e le varie organizzazioni umanitarie presenti, perdano di vista le persone e non siano più in grado di ritrovarle.[73]
All’inizio di settembre 2018, l’UNHCR ha pubblicato un comunicato stampa per segnalare la presenza di trafficanti che si spacciavano per suoi dipendenti nei punti di sbarco e in altri luoghi.[74] Il racconto di Hawa, una diciannovenne del Mali arrivata a Khoms all’inizio di giugno, sembra confermare questa prassi. Hawa si dice “sicura che qualcuno è riuscito a scappare dal porto pagando... Ci hanno dato un cellulare per chiamare un contatto in Libia e organizzare il rilascio. Io ho provato a chiamare, ma poi sono dovuta salire sul bus”.
Anche una delle detenute nel centro di Misurata potrebbe aver incontrato trafficanti che si spacciavano per operatori durante lo sbarco. Come ha detto a Human Rights Watch, “la polizia dell’ONU ci ha preso i soldi” una volta arrivati a Khoms a inizio luglio: “Mio marito aveva 250 euro e glieli hanno tolti”.[75]
Evacuazioni e rimpatri
Parallelamente all’impegno collettivo per fermare le partenze delle imbarcazioni dalla Libia, l’Unione Europea sottoscrive programmi dell’ONU per aiutare i migranti e i richiedenti asilo a uscire dalla detenzione arbitraria. Tuttavia, se è vero che in questo modo un gran numero di persone è riuscito a sfuggire a condizioni di vita disumane, ben poco è stato fatto per risolvere i problemi sistematici della detenzione in Libia, e queste iniziative servono solo a mascherare l’ingiustizia delle politiche di contenimento dell’UE.
Con il sostegno finanziario dell’Europa, a dicembre 2017 l’agenzia dell’ONU per i rifugiati è riuscita a evacuare i richiedenti asilo più vulnerabili spostandoli nel centro di transito di Niamey, in Niger. Qui potranno seguire l’iter legale per ottenere lo status di rifugiati e potersi infine reinsediare altrove. Alla fine di novembre 2018 erano state evacuate 2.069 persone, a cui se ne aggiungono altre 312 inviate direttamente in Italia e 95 in un centro di transito di emergenza in Romania.[76] Dopo un’evacuazione svolta il 16 ottobre, l’UNHCR ha dichiarato che il suo “personale ha dovuto affrontare gravi problemi di sicurezza e limitazioni nei movimenti necessari per completare l’operazione a causa della tensione crescente fra le milizie rivali, che è sfociata in scontri a fuoco intermittenti e nel lancio di missili sull’aeroporto di Tripoli”.[77]
Fra dicembre 2017 e metà novembre 2018, solo 860 rifugiati si sono reinsediati fuori dal Niger, in sette paesi dell’UE (Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Paesi Bassi, Svezia e Regno Unito), in Svizzera, Canada e negli Stati Uniti. Inoltre, 104 persone sono state evacuate dalla Libia direttamente in Canada, Francia, Italia, Paesi Bassi e Svezia. A metà novembre 2018 nove paesi europei, la Norvegia, la Svizzera e il Canada si sono impegnati ad accogliere 3.886 persone uscite dalla Libia e passate attraverso il Niger.[78]
L’UNHCR deve fare i conti con pesanti limitazioni. In effetti, la Libia fa parte della Convenzione per i Rifugiati dell'Organizzazione per l'Unità Africana del 1969, ma non della Convenzione di Ginevra del 1951, e a tutt’oggi non ha alcun meccanismo ufficiale per proteggere le persone in fuga dalle persecuzioni, senza contare gli ostacoli pratici e di sicurezza legati alla situazione attuale del paese.
Pur essendo presente sul campo sin dal 1991, l’UNHCR non ha ancora un memorandum d’intesa con il governo di unità nazionale che definisca i confini del suo mandato, una procedura standard nelle nazioni in cui opera. I negoziati per raggiungere un accordo proseguono a fatica. Le autorità libiche permettono all’Alto Commissariato di registrare i richiedenti asilo e i rifugiati provenienti solo da nove paesi: Eritrea, Sudan, Sud Sudan, Somalia, Etiopia (solo se appartenenti al gruppo etnico degli Oromo), Iraq, Repubblica Araba di Siria, Yemen e Palestina. I migranti che vengono da queste nazioni non sfuggono alla detenzione: secondo l’UNHCR, nei primi otto mesi del 2018 ne sono sbarcati oltre 3.700 sulla costa occidentale della Libia, per poi finire nei centri.[79] Questo significa anche che l’agenzia dell’ONU non può registrare richiedenti asilo con nazionalità diverse ed esigenze di protezione che, di conseguenza, non sono candidati per una possibile evacuazione.
Inoltre, l’UNHCR sta lavorando per favorire il ritorno dei richiedenti asilo attualmente detenuti in Libia nel paese in cui sono stati registrati per la prima volta. Tre stati (Sudan, Etiopia e Chad) si dicono disposti a farli rientrare con queste premesse, e la sede libica sta perorando la loro causa anche con altre nazioni.[80]
Gli stati dell’Unione Europea garantiscono il proprio sostegno anche al programma di “ritorno volontario umanitario” dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), che da gennaio 2017 ha aiutato circa 30.000 persone a lasciare la Libia per rientrare nel paese di origine.[81] I beneficiari ricevono una piccola somma di denaro e l’assistenza necessaria per reintegrarsi: consulenza, supporto per la formazione o l’istruzione e, in alcuni casi, il capitale necessario per avviare un’attività e generare reddito. L’entità delle misure di reinserimento varia a seconda del paese di destinazione.[82]
Il programma offre un servizio fondamentale a chi ha visto il proprio sogno di migrazione trasformarsi in un incubo e desidera rientrare nel paese di origine sano e salvo. Human Rights Watch ha intervistato molti detenuti che hanno subito perdite devastanti e incredibili violenze durante il viaggio, e vogliono tornare a casa.
Tuttavia, il fatto che rappresenti una delle poche alternative dei detenuti per riacquistare la libertà dalle condizioni terribili in cui si trovano non può che minare la natura volontaria del programma.
Come ci ha detto Isaac, ventunenne nigeriano detenuto nel centro del DCIM a Zuwara:
Le guardie mi hanno detto che non posso uscire se non accetto di tornare a casa. Quindi non ho scelta. Se resto... è solo questione di tempo prima che cambi idea. È venuta l’OIM, ha detto a tutti i nigeriani di uscire. Dicono che ci daranno 50 euro.[83]
Hamza, 31 anni, dal Marocco, ci ha raccontato che la brutalità delle guardie a Zuwara l’ha spinta a registrarsi per il rimpatrio con il funzionario dell’ambasciata il giorno prima della nostra intervista: “All’inizio non volevo tornare a casa. Ma adesso ho cambiato idea. Anche gli altri marocchini vogliono andarsene”.[84]
Un operatore umanitario in Libia, che ha chiesto di restare anonimo, sostiene che l’OIM stia essenzialmente deportando le persone per conto delle autorità libiche, e gratis. A suo parere, questi rimpatri e le evacuazioni dell’UNHCR non sono vere soluzioni a lungo termine e non bastano a svuotare i centri, visto il numero di intercettazioni seguite dalla detenzione automatica: le chiavi di volta per risolvere gli abusi perpetrati contro i migranti sono la depenalizzazione dell’ingresso e della permanenza irregolare, e la creazione di percorsi per regolarizzare il proprio status in Libia.[85]
Isaac ha iniziato il viaggio con suo fratello, il programma era di lavorare in Italia e risparmiare, per poi studiare nel Regno Unito e diventare avvocato. Voleva aiutare sua madre, vedova e malata. I trafficanti li hanno tenuti prigionieri a Sebha, uno snodo centrale per i migranti nel sud del paese, dove hanno ucciso suo fratello e ustionato Isaac sulla pancia e sul braccio sinistro per estorcere denaro alla sua famiglia. “Ho dovuto chiamare mia madre e chiederle dei soldi, ma non ce li aveva. Piangeva. È l’ultima volta che l’ho sentita. Non sa neanche che mio fratello è morto e io sono vivo”.[86]
Dal momento che né la vita né la libertà di Isaac erano in pericolo in Nigeria, ha avuto la possibilità di tornare a casa per sfuggire alla detenzione, anche se questo ha messo fine ai suoi sogni di migrante. Tuttavia, altre persone rischiano di essere costrette a tornare in luoghi ben più rischiosi. L’UNHCR e l’OIM dicono di avere un sistema di riferimento reciproco, ma viste le limitazioni nel campo d’azione dell’agenzia per i rifugiati, è chiaro che ad alcuni detenuti bisognosi di protezione restano poche alternative.
Qualcuno potrebbe scegliere di partecipare al programma di ritorno dell’OIM anziché fare richiesta di asilo: è una procedura più veloce che registrarsi con l’UNHCR e aspettare l’evacuazione. Pare che i somali, che potrebbero registrarsi, stiano invece optando in massa per il rimpatrio. Il 7 novembre 2018, l’OIM ne ha riportati 124 nella capitale Mogadiscio.[87] L’inviato speciale dell’UNHCR per il Mediterraneo centrale, Vincent Cochetel, ha spiegato su Twitter che l’OIM e l’UNHCR forniscono una consulenza congiunta ai somali, e che molti di essi “hanno lasciato il proprio paese per gravi problemi di sicurezza... L’indigenza, la fame, i timori per la sicurezza [in Libia] e la mancanza di alternative li spingono a tornare”. [88]
La sede libica dell’OIM sostiene che il suo programma ha una “natura del tutto volontaria” e il suo personale si accerta che i migranti “prendano una decisione informata sul loro rimpatrio, e che non temano alcun tipo di persecuzione al rientro”.[89]
L’UNHCR e l’OIM non sembrano avere le risorse necessarie per rispondere alle enormi necessità dei detenuti. Più volte i migranti e i richiedenti asilo, ma anche le autorità detentive libiche, si sono lamentati nelle interviste con Human Rights Watch del fatto che entrambe le organizzazioni si recano nei centri solo raramente, e non sono in grado di registrare un numero sufficiente di persone. Il 5 luglio 2018 un gruppo di 13 donne ivoriane nel centro di detenzione di Ain Zara ci hanno raccontato di essere state intercettate dalla Guardia Costiera a metà giugno; volevano tornare a casa ed erano irritate per non essere ancora state registrate dall’OIM.[90] Human Rights Watch ha anche assistito a una protesta nel centro di Tajoura, in cui un gruppo di uomini quasi tutti del Darfur chiedevano di essere registrati dall’UNHCR.
In risposta alle lamentele sulle loro carenze, sia l’OIM che l’UNHCR hanno esposto nel dettaglio il loro mandato e i risultati ottenuti. La sede libica dell’OIM ha riferito che i suoi team si recano nei centri di detenzione a Tripoli ogni giorno, e organizzano regolarmente visite alle strutture in altre città per offrire “assistenza umanitaria diretta, servizi sanitari, controlli sulla protezione (con segnalazione di coloro che richiedono la protezione internazionale all’agenzia per i rifugiati) e registrazioni per il programma di ritorno volontario”. [91] L’UNHCR ha lanciato una campagna in proposito a ottobre del 2018, durante la quale nel solo centro di Tajoura ha registrato 660 persone in due giorni, provenienti anche dal Darfur. La campagna ha toccato tutti i centri di detenzione di Tripoli e la città montuosa di Zintan, e sarà ampliata per coinvolgere le città a ovest della capitale, Misurata e il territorio circostante.[92]
III. Gli abusi nei centri di detenzione libici
Questo posto è l’inferno. Fingono di essere brave persone ma poi ti frustano [danno la scossa] con la corrente elettrica. Tre volte mi hanno picchiato, mentre prendevo da mangiare. Ci fanno sedere al sole o stare in piedi e guardare dritti verso il sole. Quando protestiamo ci picchiano. Portano la gente nella sala davanti per pestarla. Ci hanno portato anche me, mi hanno legato le mani e poi mi hanno colpito sulle piante dei piedi. Il mio amico l’hanno colpito alla testa.
– Elijah, 26 anni, della Sierra Leone e detenuto a Misurata, 10 luglio 2018
Nel 2014, Human Rights Watch ha presentato una relazione sui centri di detenzione per migranti in Libia. All’epoca, in otto dei nove centri visitati avevamo trovato un estremo sovraffollamento, condizioni igieniche disastrose e assistenza medica inadeguata. Avevamo documentato torture, fra cui pestaggi con attrezzi di qualsiasi genere, ustioni da sigaretta, scariche elettriche e frustate con i migranti appesi agli alberi.[93] Le nostre visite in quattro centri di detenzione a luglio del 2018 hanno confermato che le condizioni e il trattamento rimangono spaventosi, malgrado gli sforzi delle Ong internazionali e delle agenzie dell’ONU con i finanziamenti dell’Unione Europea.
Gli abusi
Con Human Rights Watch siamo stati in quattro centri del DCIM all’inizio di luglio del 2018. Si tratta dei centri di Tajoura e Ain Zara, entrambi nella periferia di Tripoli, del centro di Zuwara, nell’omonima città vicino al confine con la Tunisia, e di quello di Karareem, vicino a Misurata, a est della capitale. Abbiamo ritrovato sovraffollamento, condizioni igieniche precarie, assistenza medica carente. In tutte le strutture abbiamo sentito parlare di cibo e acqua insufficienti e di bassa qualità.
Anche se le donne sono separate dagli uomini in tutti e quattro i centri, nessuno di essi è conforme alle linee guida internazionali sulle condizioni e sul trattamento delle donne in regime di detenzione. Tutte le guardie sono uomini. Le Ong riescono a offrire un’assistenza sanitaria decisamente limitata nella fase prenatale e durante la maternità, le forniture igieniche femminili sono scarse. Le donne che hanno subito violenze sessuali prima o durante la detenzione hanno pochissime alternative per il recupero fisico e psicologico. Le testimonianze raccolte dalle organizzazioni per i diritti umani e dalle agenzie dell’ONU indicano che la violenza sessuale è un fenomeno diffuso per le migranti durante il viaggio, in Libia e nei centri di detenzione.[94]
In tutte le strutture il personale denuncia la mancanza di materiali, i problemi medici e di sicurezza per le guardie, fra cui la mancanza di assicurazione sanitaria e di vaccinazioni, e l’indifferenza delle organizzazioni umanitarie internazionali verso i bisogni dello staff. Tutti segnalano che il governo ha ritardato il pagamento dei fornitori privati di cibo, acqua e materiali di pulizia, con la conseguente riduzione della quantità e qualità del cibo destinato ai detenuti. A Misurata, il direttore ci ha detto che invece di spendere 10 dinari libici al giorno per ogni detenuto (7 dollari), le aziende di ristorazione ne spendevano solo 1,5 (1 dollaro)[95]: per questo nessuno dei centri offriva frutta e verdura fresca né carne di alcun genere.
Nessuna delle strutture detentive ha operatori sanitari nel suo organico. Le organizzazioni umanitarie e le agenzie dell’ONU assicurano un’assistenza minima, comprese le cure pre e post-parto, ma il loro accesso è limitato.
A Misurata, Tajoura e Zuwara abbiamo raccolto testimonianze inquietanti da adulti e bambini sulle violenze commesse dalle guardie, tra cui pestaggi, frustate e uso di scariche elettriche. I detenuti di tutti i centri riferiscono che le guardie li maltrattano e li insultano.
Per proteggere i migranti e i richiedenti asilo dalle possibili ritorsioni del personale dei centri, Human Rights Watch ha deciso di condividere le proprie forti preoccupazioni sulle condizioni inumane e sui maltrattamenti con Mohamed Bishr, capo del DCIM, alla fine della missione, anziché con i direttori delle strutture dopo ogni visita.[96] Una settimana dopo, il colonnello Bishr ha inviato una lettera a tutti i direttori dei centri, ordinando loro di rispettare le leggi libiche e le norme e i protocolli internazionali nel trattamento dei detenuti, di collaborare con le organizzazioni civili e le istituzioni governative sui diritti umani, e di organizzare attività ricreative per i migranti, come ore in spiaggia e giochi per i bambini.[97]
Bishr dice di aver licenziato tre dipendenti del DCIM in tre centri di detenzione e di averli segnalati al procuratore generale per le indagini sulla loro presunta condotta illecita.[98] Human Rights Watch non ha visitato i tre centri in questione nel 2018 e non è a conoscenza di alcuna misura disciplinare nei confronti del personale dei quattro centri visitati.
Il colonnello Bishr non ha risposto a una nostra lettera del 13 novembre 2018, in cui esponevamo i risultati della nostra ricerca e chiedevamo aggiornamenti sull’applicazione delle linee guida e sugli eventuali provvedimenti disciplinari.
Misurata
Misurata è una grande città 209 chilometri a est di Tripoli. Il centro di detenzione dei migranti si trova in una ex scuola a Karareem, a sud del centro urbano. Ci è stato permesso di accedere a due piani di una sola parte dell’edificio. Gli uomini si trovano al piano terra, in stanze che si aprono su un corridoio a cui si accede attraverso una porta di ferro sprangata e chiusa a chiave. Abbiamo percorso quel corridoio, passando fra gli uomini in piedi, seduti e sdraiati ovunque sul pavimento. Arrivati in fondo, c’è un bagno con tre o quattro cubicoli, con buchi sul pavimento sporchi di escrementi. Al piano di sopra abbiamo visitato la sezione femminile, composta da due stanzoni con materassi e oggetti personali sparpagliati per terra. Non abbiamo visto i bagni delle donne. Le autorità ci hanno autorizzato a intervistare i detenuti individualmente e fuori dall’edificio. In tanti chiedevano a gran voce di essere ascoltati, ma siamo riusciti a parlare solo con pochi di loro.
Secondo il suo direttore, al momento della nostra visita il centro di Karareem ospitava 472 detenuti: 381 uomini, 64 donne e 27 bambini fino ai 12 anni di età che vivevano insieme alle parenti donne nella sezione femminile; non c’erano invece ragazzi fra i 12 e i 18 anni. Pur riconoscendo il sovraffollamento, il direttore imputava le condizioni precarie alle Ong:
Siamo sovraffollati, le persone dormono nei corridoi. Il cibo, le condizioni di vita e di alloggio sono pessime, pessime... le Ong non ci portano niente dall’inizio dell’anno. Ci servono coperte, materassi, materiali per la pulizia. Dovrei bruciare i materassi quando qualcuno se ne va, ma non ne abbiamo abbastanza. A volte due detenuti devono condividerne uno solo.[99]
Ha poi sottolineato la mancanza di cibo per bambini e di assorbenti igienici per le donne, che i membri del personale sono costretti a comprare “di tasca loro o ottenere dalla beneficienza” .[100]
Molti degli intervistati si lamentavano di non poter uscire all’aria aperta e della scarsa qualità di cibo e acqua. Marie-Claire, una trentenne del Camerun che è stata intercettata in mare a metà aprile 2018 e una settimana dopo è stata trasferita nel centro di Misurata, ci ha detto che: “Loro [le guardie] sono violenti. Quando vengono, hanno le pistole. Non mi hanno mai lasciata uscire, sono rimasta chiusa dentro [da quando sono arrivata]. Nessuno esce [nel cortile]”.[101]
Oputa, una donna nigeriana di 31 anni, detenuta nel centro da due settimane dopo essere stata intercettata dalla Guardia Costiera, ci ha raccontato:
Se non stai bene in fila [per il cibo] ti colpiscono con un tubo. Con me non l’hanno mai fatto, sono stata attenta. Spesso non vado a prendere da mangiare perché ho paura di essere picchiata. Se la prendono tanto con gli uomini. A colazione sono loro i primi a uscire. Un uomo, l’hanno picchiato fortissimo e gli hanno dato la scossa. L’hanno messo in una stanza vicino a noi, lo sentivamo urlare. Forse è stato giovedì scorso, uno della Sierra Leone ha provato a scappare ma l’hanno preso. Gliele hanno date di santa ragione finché non è svenuto. Abbiamo protestato, tutte noi donne gridavamo come matte. Da allora hanno limitato i pestaggi.[102]
Ci ha poi riferito che una guardia ha picchiato una donna con un bastone pieno di chiodi conficcati ferendola a una mano, la settimana prima della nostra visita. La stessa guardia, secondo Oputa, ha percosso anche un’altra donna, “ma quella volta almeno si è scusato”.
Kemi, una ragazza nigeriana incinta di sette mesi, ci ha detto che una guardia l’ha colpita con un tubo mentre scendeva le scale per prendere dell’acqua: “Mi ha ordinato di tornare su, e mi ha picchiata sul braccio con un tubo”. [103] Hawa, 19 anni, dal Mali, era incinta di otto mesi e mezzo quando l’abbiamo intervistata. Anche lei ha dichiarato di essere stata picchiata da una guardia, il giorno prima che arrivassimo, mentre faceva su e giù per le scale per esercitarsi: “Mi ha dato uno schiaffo sulla schiena. Ha detto che mi avrebbe portata via per punirmi”.[104]
Secondo Alexandra, una ragazza ghanese di 25 anni:
Qui ci sono maltrattamenti e pestaggi. [Le guardie] Tengono le donne rinchiuse per giorni. Ci urlano contro, picchiano le donne e le frustano sulle mani, anche se sono incinte. Un uomo ha cercato di scappare. Gli hanno legato il collo alle gambe come un cane, così non poteva muoversi. L’hanno pestato selvaggiamente. Piangeva come una fontana. Se qualcuno prova a scappare, picchiano tutti quelli della sua stessa nazionalità.[105]
Sia gli uomini che le donne ci hanno parlato di una “cella della solitudine” al secondo piano, vicino alla sezione femminile, in cui i detenuti sono rinchiusi per punizione. Il ventenne Abdul, del Darfur, ci è finito dopo aver aiutato tre uomini a evadere:
Uno era sudanese, uno egiziano e l’altro della Sierra Leone. Hanno preso quello della Sierra Leone e l’hanno colpito sulle piante dei piedi e sui polpacci con un tubo. Ci hanno picchiati nella stanza davanti, eravamo in tre. Hanno picchiato anche me sulle piante dei piedi e sulle gambe per farmi confessare che li avevo aiutati a scappare. Io ho detto di no, ma poi gli altri mi hanno denunciato perché avevano troppa paura. Allora mi hanno portato nella “cella della solitudine”, la stanza di fronte a dove stanno le donne. Ci hanno chiusi dentro. Uomini e donne chiedevano urlando che ci liberassero. Ho visto le guardie di sotto [fuori dalla finestra] che puntavano le pistole verso le donne e minacciavano di sparare. C’erano altre nove persone nella cella, non so perché fossero lì. Ci sono rimasto cinque ore.[106]
Alcuni degli intervistati ci hanno parlato di uomini sottoposti a shock elettrici. Elijah, ventiseienne della Sierra Leone, sostiene che almeno quattro uomini hanno subito danni permanenti per via delle scariche.
C’è quest’uomo del Mali, gli hanno dato la scossa due mesi fa. Sta sempre seduto sul pavimento. Prima parlava normalmente, adesso ha lo sguardo fisso in avanti. Lo hanno portato in ospedale ma è tornato nelle stesse condizioni. Ci sono altri tre uomini come lui qui, sempre per colpa delle scosse elettriche.
Con Human Rights Watch abbiamo visto uno di loro, seduto nel corridoio accanto ai bagni, in una postura rigida con le gambe piegate, le mani sulle ginocchia, lo guardo fisso nel vuoto.
Ahmed, 26 anni, dalla Palestina, racconta di essere partito da Gaza tre anni fa dopo essere stato minacciato, imprigionato e brutalizzato da Hamas. Dice di essere stato malmenato, insieme ad altri, nel centro di Misurata: “Un gruppo di sudanesi ha provato a scappare mentre erano in infermeria, allora le guardie hanno radunato tutti quelli che erano dal medico e li hanno picchiati con tubi di plastica. Anche io sono stato picchiato un po’, ma gli altri li hanno ridotti come animali. Era una punizione collettiva”. [107]
Quando lo abbiamo risentito per telefono dopo il suo rilascio, Ahmed ci ha detto che due giorni dopo la nostra visita è stato trasferito a Trig al-Sikka, un centro di detenzione a Tripoli, dove è rimasto per oltre due mesi subendo maltrattamenti di vario genere.[108]
Due detenuti sostengono che era possibile corrompere le autorità per essere liberati dal centro di Karareem. Naser, un uomo siriano di 48 anni, ha dichiarato: “Non posso tornare in Siria, mi giustizierebbero. Qui ci trattano come terroristi. Non c’è pietà né speranza. Ma se vuoi uscire da questa prigione, puoi sempre corrompere qualcuno”. [109] Ahmed, il ragazzo palestinese, ha aggiunto: “So che un sudanese e un egiziano sono usciti pagando. Ma siccome l’UNHCR sa che mi trovo in questo centro, le autorità del carcere non accettano soldi da me”. [110]
Zuwara
Zuwara si trova sulla costa, 118 chilometri a ovest di Tripoli, vicino al confine con la Tunisia. Fino a poco tempo fa era uno snodo per i trafficanti e un noto punto di partenza per i barconi diretti in Europa. Il centro di detenzione, formato da vari edifici a un piano collegati fra loro, si trova su una strada sterrata fuori città. Le donne e i bambini occupano un’ala della struttura con tre stanze, solo due delle quali in uso, le cui porte danno su un corridoio che finisce con una porta sprangata. Gli uomini sono tenuti in un’ala separata che contiene 15 celle, con Human Rights Watch ne abbiamo viste sette dalla grata metallica della porta d’ingresso.
In base ai dati del direttore, in quel momento il centro ospitava 590 detenuti, fra cui 18 donne e 7 bambini, malgrado la capienza ufficiale fosse di 450 posti. Il gruppo più numeroso, circa 150 persone, provenivano dalla Nigeria, e c’erano circa 111 uomini del Bangladesh. La direzione non aveva richiesto trasferimenti verso altre strutture perché oltre 100 nigeriani sarebbero stati rimpatriati dall’OIM nei giorni successivi, e presto a loro si sarebbero aggiunti anche 30 bangladesi (ma non era chiaro quando sarebbe partito il resto del gruppo). Secondo il direttore, sia i bangladesi che 60 maliani avevano accettato il rimpatrio volontario dopo alcuni colloqui via Skype con le rispettive ambasciate. I trasferimenti fra Zuwara e Tripoli erano complicati per via dei tentativi di fuga dei migranti e dei danni arrecati agli autobus.[111] Fra i bambini reclusi nel centro, Human Rights Watch ha trovato anche dei minori non accompagnati.
Il direttore ha sottolineato la carenza di materiali: “Ci servono coperte, letti, kit igienici. Non abbiamo una batteria per il generatore. Dovrei bruciare e sostituire i letti quando i detenuti vanno via, ma non ne abbiamo a sufficienza. Il DCIM non ci dà niente”.[112]
Mentre le 18 donne e i 7 bambini avevano spazio sufficiente nelle loro stanze spoglie, la sezione maschile era estremamente sovraffollata. Le nostre ricercatrici non sono riuscite ad andare oltre la porta di ferro per entrare nel corridoio, perché ogni centimetro di spazio era occupato da uomini seduti o in piedi. Tutte le stanze che davano sul corridoio erano piene di persone costrette a restare quasi sempre all’interno, nonostante il caldo asfissiante. La giustificazione del direttore è stata che il personale non era sufficiente a sorvegliare un numero così alto di uomini nel cortile. Ma anche alle donne e ai bambini era consentito di uscire solo di rado. A maggio, Medici Senza Frontiere segnalava che nel centro c’erano più di 800 persone: dopo aver visto quegli spazi, troviamo impossibile immaginare come ci siano entrati. Secondo l’organizzazione umanitaria, la capienza reale sarebbe di 200 posti.[113]
Durante le interviste, i 29 detenuti del centro hanno confermato che passavano praticamente tutto il giorno rinchiusi nella loro ala (le stanze e un corridoio), e che potevano uscire solo per lavarsi nei catini presenti all’esterno. Un detenuto etiope non aveva i pantaloni: ci ha detto di aver perso i vestiti in mare circa due settimane prima della nostra visita, per questo indossava solo una camicia e un asciugamano intorno alla vita. Come ha spiegato Samuel, un sarto di 29 anni che viene dalla Nigeria: “Possiamo uscire solo per lavarci, e non tutti i giorni. Ci trattano come criminali. Ci rinchiudono nelle stanze, fa troppo caldo. Non c’è ricambio d’aria. Lo spazio non basta per poterci sdraiare tutti, così dobbiamo fare a turni”. In un inglese incerto, Aman, 20 anni, ha detto di aver contato più di 40 persone nella sua cella e che non erano “mai fuori, sempre dentro”. Aman ha lasciato il suo paese, l’Eritrea, perché “non c’è giustizia, né democrazia, né pace, né istruzione. Me ne sono andato perché dovevo fare il soldato. Se torno lì, mi uccideranno”.[114]
Sei degli intervistati hanno raccontato che le guardie picchiavano i detenuti indiscriminatamente quando intervenivano per sedare le risse nelle celle sovraffollate. Altri due sostenevano di essere stati minacciati di pestaggio. Abbiamo intervistato Isaac, 21 anni, dalla Nigeria: “Non ci fanno mai uscire... l’aria è soffocante. Alcune delle guardie sono più attente, altre ci spingono nelle celle a forza [dal corridoio] quando facciamo troppo chiasso. E se qualcuno litiga, picchiano tutti”. [115] Un altro nigeriano di 21 anni, Idriss, ha aggiunto: “Le guardie usano bastoni per picchiare la gente”.[116]
Hamza, 31 anni, partito dal Marocco e intercettato in mare la prima volta a marzo 2018 insieme ad altre 120 persone, e poi di nuovo a maggio, dice: “Fa molto caldo e ci danno poco da mangiare. Se c’è un problema fra due uomini, chiudono le porte di tutte le celle per darci una lezione. Ci tengono rinchiusi per ore, anche durante i pasti. Ci picchiano con bastoni di legno o tubi di plastica”.[117]
Magdi, un egiziano di 32 anni, era nel centro da 25 giorni quando l’abbiamo intervistato, e indossava gli abiti al rovescio: “Ho i vestiti pieni di zecche e pidocchi, mi prudono. Ci fanno uscire per lavarci ogni dieci giorni, più o meno. L’acqua è poca”. Poi ha aggiunto: “A volte ci sono dei pestaggi. Non si può parlare liberamente, loro [le guardie] sono molto duri e gridano ‘Zitti!’ o ‘Silenzio!’. A volte usano i bastoni e a volte le scarpe per colpire la gente”.[118]
Magdi dice anche che la polizia di Zuwara lo ha derubato: “[I trafficanti] Mi tenevano in una casa a Zuwara quando la polizia locale mi ha arrestato. Mi hanno preso il passaporto e i soldi. Hanno preso tutte le mie cose, e non mi hanno restituito niente”.[119]
Tajoura
A est della città di Tripoli, il centro di detenzione di Tajoura si trova all’interno di un ampio perimetro che comprende molti edifici simili a magazzini e un’altra prigione, sempre sotto l’autorità del Ministero della Giustizia, nota come al-Dhaman. L’8 luglio 2018, data della nostra visita, i detenuti del centro erano più di 1.100, di cui circa 1.000 uomini, 100 donne e 26 bambini al di sotto dei 14 anni. Tutti i bambini oltre i 14 anni sono considerati adulti.
Fra i presenti c’erano cittadini arabi e provenienti dall’Africa sub-sahariana, da Somalia, Eritrea, Etiopia, Niger, Nigeria, Sudan e Camerun. Secondo il direttore, la maggior parte dei detenuti erano stati intercettati o soccorsi in mare, qualcuno dopo più di un tentativo. A tal proposito, ha citato il caso di una donna sudanese con due bambini “arrestata” in mare il 10 giugno 2018 e rinchiusa per breve tempo a Tajoura, che era stata riportata al centro il primo luglio dopo un secondo tentativo di raggiungere l’Europa. Non è chiaro come abbia fatto a uscire dalla detenzione dopo il primo tentativo fallito.[120]
Con Human Rights Watch siamo entrati per un momento solo in tre degli edifici, due sezioni riservate a donne e bambini, e la terza agli uomini. I servizi igienici che le nostre ricercatrici hanno potuto visitare erano in condizioni pessime.
Mentre ci dirigevamo verso gli stabili dove vivevano i detenuti, un gruppo di persone ha iniziato a protestare per chiedere di essere registrate dall’UNHCR. Come ci ha spiegato il direttore del centro, 600 cittadini sudanesi avevano iniziato uno sciopero della fame il giorno prima del nostro arrivo per contestare la lentezza delle procedure. Tutti chiedevano il reinsediamento, e quando gli è stato proposto di far uscire qualcuno di loro, fra cui una donna incinta, hanno rifiutato. Un gruppo di circa 20 uomini si è disposto a semicerchio con dei cartelli, uno dei quali recitava: Se la morte è una soluzione per i rifugiati, che sia la benvenuta. Il personale del centro ci ha vietato di fare foto della protesta. Raheem, un ventiduenne del Darfur che dichiarava di trovarsi nel centro da un anno, ci ha detto: “Quest’attesa ci fa diventare matti. L’UNHCR registra gli eritrei, ma bisogna aspettare per mesi. Normalmente non registrano quelli del Darfur. Se è così che deve andare, allora smettetela di salvarci in mare. Lasciateci morire. Sarebbe meglio che stare qui”.[121]
Alcuni detenuti provenienti dal Darfur hanno fatto arrivare clandestinamente alle nostre ricercatrici un biglietto in cui esprimono una profonda frustrazione e la sensazione che l’UNHCR “non si interessa ai problemi dei rifugiati del Darfur”. Scrivono di essere stati arrestati dalle autorità a Sabrata a ottobre del 2017, quando la vittoria di una milizia sull’altra nel corso degli scontri che infiammavano la città aveva portato alla scoperta di circa 14.000 persone imprigionate nei magazzini dei trafficanti. [122] Sono stati detenuti nel centro di Gharyan per quattro mesi, poi trasferiti a Trig al-Matar, sulla strada per l’aeroporto. Vi sono rimasti per tre mesi prima di essere mandati nel centro di Tajoura ad aprile del 2018. Nessuno di loro è stato registrato dall’UNHCR. “Per tanto tempo non sappiamo il nostro distino [sic] e aspettiamo ancora aiuti dalle organizzazioni per salvarci... speriamo che l’UNHCR si preoccupa di noi e ci porta in un posto di sicurezza [sic]... (Grazie mille) per favore aiutateci”.[123]
L’UNHCR ci ha riferito di aver registrato 660 persone a Tajoura alla fine di ottobre, compresi i cittadini del Darfur.[124]
Mentre facevamo le interviste, c’è stato un trambusto nella sezione femminile. Una ragazza aveva appeso una corda in bagno e cercato di impiccarsi. Quando l’hanno tirata giù, le ricercatrici di Human Rights Watch l’hanno vista insieme a un’altra donna in preda a una sorta di crisi epilettica, sdraiata per terra, gli occhi rovesciati all’indietro e la schiuma alla bocca, mentre le altre detenute chiedevano aiuto. Come gli altri centri, Tajoura non ha medici fra il personale e in quel momento non erano presenti dottori delle Ong né delle agenzie dell’ONU. I dipendenti del centro hanno detto di aver chiamato un’ambulanza. Durante quei minuti drammatici, un’altra detenuta ha appeso una corda in bagno ed è stato necessario fermarla. Le guardie non hanno fornito alcuna assistenza alle donne riverse per terra; le nostre ricercatrici sono dovute uscire prima che arrivasse il soccorso medico.
In molte interviste svolte individualmente e in piccoli gruppi è emerso che i detenuti sono rinchiusi nei centri per tutto il giorno, senza la possibilità di uscire all’aperto se non in presenza di visitatori. Una delle nostre ricercatrici è entrata in una grande rimessa divisa in due stanzoni disseminati di materassi, e ha parlato per qualche minuto con una folla di circa 50 uomini bangladesi al caldo opprimente. Uno di loro ha detto soltanto: “Non ci fanno uscire”. Una guardia ha interrotto il colloquio.
Gli intervistati dicono di mangiare solo pasta, ogni giorno, da grandi vassoi di metallo, uno ogni quattro persone. Quando abbiamo fatto notare che il direttore del centro ci aveva mostrato alcuni detenuti che preparavano un pasto a base di pollo, specificando che era per tutti, un gruppo di uomini ha riso. “Quello è per le guardie”, ci hanno risposto.
Diversi intervistati, compreso un bambino, hanno denunciato la violenza delle guardie.
Edward, un ragazzo sedicenne della Sierra Leone che viaggiava da solo, si trovava a Tajoura da due mesi quando abbiamo parlato. Ci ha detto che le guardie lo avevano picchiato due giorni prima: “Stavo dentro per conto mio... sono arrivati e ci hanno frustati, a me e a molti miei amici. Ci hanno insultati in arabo. Il giorno prima, era venuta l’UNHCR e noi volevamo parlarci. Le guardie ce l’hanno impedito, e il giorno dopo ci hanno picchiati”.[125]
Kwame, 27 anni, cittadino ghanese, viveva e cercava di lavorare a Tripoli quando, nel 2017, ha perso la gamba destra dal ginocchio in giù durante un furto violento. Si è imbarcato i primi di maggio del 2018 nel disperato tentativo di raggiungere l’Europa per avere una protesi, ma il suo gommone è stato intercettato dalla Guardia Costiera. Da circa due mesi viveva nel centro di Tajoura, dove ci ha riferito che una guardia l’ha colpito più volte in faccia perché non si muoveva abbastanza in fretta.[126]
Muneeb, un ragazzo di 22 anni arrivato dalle Montagne di Nuba in Sudan, ci ha raccontato che tre uomini e una donna erano morti per mancanza di cibo e acqua durante i tre giorni passati in mare, la quarta e ultima volta che ha tentato la traversata, ad aprile. È finito nel centro di Tajoura dopo lo sbarco: “Il secondo giorno, [le guardie] ci hanno picchiato con dei bastoni”.[127]
Un gruppo di detenuti ha raccontato a Human Rights Watch che diversi uomini erano rimasti feriti in un tentativo di evasione a metà di giugno del 2018: sostenevano che si trovassero in un edificio adiacente, a cui le nostre ricercatrici non hanno avuto accesso. Quando gli abbiamo chiesto dell’accaduto, il responsabile dell’amministrazione e della comunicazione del centro, Mahmoud Ali Al-Taweer, ha chiarito che ne avevano fermati alcuni ma altri erano riusciti a scappare, aggiungendo solo che “la legge libica ci consente l’uso della forza se è necessario per fare il nostro dovere, ma [in questo caso] non è servito”.[128] Un’organizzazione umanitaria ci ha poi confermato che negli stessi giorni un uomo si è rotto una gamba e un altro ha riportato gravi ferite alla testa durante un tentativo di evasione da Tajoura.[129]
Una detenuta ha parlato di sfruttamento da parte delle autorità. Amina, una donna sudanese con quattro figli proveniente dal Darfur, rinchiusa nel centro con la sua famiglia dopo essere stata intercettata dalla Guardia Costiera a giugno 2018, ci ha detto che portavano suo marito fuori dalla prigione per svolgere lavori fisici, per i quali non era pagato. Gli davano solo acqua, un pezzo di pane, un pomodoro e una cipolla.[130]
Prima della visita, Human Rights Watch aveva già raccolto testimonianze sulle violenze nel centro di Tajoura. Wilfried, un uomo del Benin intervistato a bordo di una nave di soccorso a ottobre 2017, ci aveva raccontato che le guardie lo picchiavano ripetutamente durante la sua detenzione, specie dopo averlo visto parlare con lo staff di MSF.[131] Nourah, una ragazza ivoriana di 26 anni, a giugno 2016 ci aveva parlato di una guardia che l’aveva aggredita sessualmente molte volte nel centro di Tajoura, dove era stata a giugno-luglio del 2015.[132]
Ain Zara
Dietro le mura basse e il cancello di metallo, il centro di detenzione di Ain Zara è un largo recinto con due grandi edifici simili a magazzini, ognuno diviso in due stanzoni cavernosi ricoperti di materassi e miseri effetti personali. I due stabili sono separati da uno spiazzo sterrato, con qualche albero sparuto. Durante la nostra visita, donne e bambini sedevano sotto gli alberi, mentre la maggior parte degli uomini erano stipati all’interno delle strutture o sulle soglie.
Il direttore del centro, Tarek Bahji Moussa, ci ha detto che l’amministrazione permette ai detenuti di stare fuori per tutto il giorno, anche perché all’interno l’aria diventa troppo calda e i black-out elettrici sono frequenti; ne conseguono, in ogni caso, problemi legati alla sicurezza.
Il 5 luglio 2018, data della nostra visita, il centro ospitava 706 detenuti, di cui 464 uomini, 191 donne e 51 bambini al di sotto dei 14 anni. Secondo il direttore, la capienza ufficiale della struttura è di 2000 posti, e le autorità sperano di portarla a 6000 dopo i lavori di costruzione. Tutti i ragazzi oltre il quattordicesimo anno di età – circa 100 in quel momento – sono considerati adulti. I detenuti di Ain Zara provengono tutti dall’Africa sub-sahariana, perché i migranti originari di paesi arabi sono trasferiti nel centro di Trig al-Sikka. La direzione sostiene che tutti sono stati intercettati o soccorsi dalla Guardia Costiera libica e registrati dall’UNHCR o dall’OIM allo sbarco.[133] Tuttavia, un detenuto etiope ci ha riferito di non essere stato intercettato in mare, bensì arrestato da forze non identificate in un posto di blocco a Tripoli. Fra i bambini reclusi nel centro, Human Rights Watch ha trovato anche dei minori non accompagnati.
Le condizioni igieniche erano spaventose. I bagni nel recinto degli uomini, che abbiamo potuto vedere, erano luridi e maleodoranti; solo cinque dei dieci cubicoli funzionavano. Il direttore ha confermato che solo 15 latrine su 40 erano operative il giorno della nostra visita, ma ci ha assicurato che le altre sarebbero state riparate la settimana successiva. Le donne presenti in una delle due grandi stanze ci hanno detto che c’erano solo due bagni per 100 persone. Molti detenuti si sono lamentati con le nostre ricercatrici dei lunghi intervalli fra un pasto e l’altro e della scarsità dell’acqua potabile, ma anche dell’alimentazione poco varia, che consisteva per lo più in pasta lessa. La direzione ha riconosciuto che “a volte ci sono ritardi” nella distribuzione del cibo, aggiungendo che una donna aveva tentato il suicidio per la mancanza di latte in polvere per suo figlio.
Un medico dell’International Rescue Committee (Comitato Internazionale di Soccorso), un’organizzazione umanitaria che supporta i detenuti di Ain Zara, ci ha segnalato che la mancanza del necessario ricambio d’aria è un grosso problema. La scabbia e la tubercolosi sono molto diffuse, ed entrambe peggiorano in condizioni di sovraffollamento. L’IRC fornisce assistenza prima e durante la maternità, ma non riesce a far fronte alle numerose donne in attesa di Ain Zara e alle loro esigenze mediche. Anche l’aumento dei detenuti è motivo di preoccupazione: “Quando abbiamo iniziato a lavorare qui, a maggio, c’erano meno di 350 persone; ne sono arrivate altre 250 solo la settimana scorsa”. Il direttore sostiene che l’amministrazione del centro ha richiesto al DCIM di predisporre una stanza di isolamento per le persone con malattie contagiose, ma senza successo.
Durante quattro diverse interviste di gruppo, i detenuti provenienti da Eritrea, Somalia, Etiopia e Sudan (Darfur) si sono lamentati soprattutto della lentezza delle organizzazioni internazionali nella registrazione dei richiedenti asilo.[134]
Un uomo eritreo, in Libia ormai da tre anni, ha affermato che “l’UNHCR e l’OIM vengono ogni settimana e promettono di registrarci. Ma nessuno degli eritrei qui è stato registrato. Nessuno vuole restare in Libia né tornare in Eritrea. La gente cade in depressione. Questa è una vita da cani”. [135]
Gli scontri di agosto a Tripoli hanno avuto ripercussioni dirette sui detenuti di Ain Zara. Tramite messaggi su WhatsApp a un giornalista, hanno fatto sapere che la mattina del 27 agosto 2018, con l’avvicinarsi del conflitto, le guardie hanno abbandonato i loro posti lasciandoli senza cibo, acqua né protezione.[136] Pare che quella notte, degli uomini non identificati siano arrivati al centro con una ventina di veicoli e abbiano preso circa 100 somali per portarli in un luogo sconosciuto. Altri si sono rifiutati di seguirli, perché non sapevano chi fossero. Uno dei somali che ha lasciato la struttura con il gruppo armato non identificato è riuscito a chiamare un detenuto rimasto nel centro per dirgli che li avevano chiusi in una casa, poi la comunicazione si è interrotta.[137] I 3-400 detenuti rimanenti sono stati trasferiti la sera successiva, dopo un momento di tensione in cui uomini in uniforme hanno sparato in aria e per terra nel recinto, e li hanno picchiati con spranghe di ferro e legno per costringerli a salire sugli autobus che li avrebbero portati nel centro per migranti di Abu Salim.[138]
L’UNHCR e l’OIM hanno confermato di aver aiutato le autorità libiche a evacuare circa 600 migranti e richiedenti asilo da Ain Zara e da un altro cento di detenzione nel quartiere di Salahaddin, per trasferirli in altri due centri, Abu Salim e Trig al-Matar, sempre a Tripoli.[139] Secondo l’OIM all’inizio degli scontri sono stati rilasciati 290 migranti, ma non è chiaro da quale centro o centri siano usciti.[140]
I bambini detenuti
I bambini migranti e richiedenti asilo, sia che viaggino soli o con i familiari, sono detenuti nelle stesse terribili condizioni degli adulti. Le nostre interviste e i dati dell’UNICEF, l’agenzia dell’ONU per i diritti dei bambini, sembrano indicare che tutti i minori presi durante i raid, fermati per le strade o intercettati in mare finiscono nei centri.[141] Secondo l’UNHCR, nei primi sette mesi del 2018 sono sbarcati il Libia circa 1.200 bambini (accompagnati e non), finiti in regime di detenzione.[142] Non esistono cifre attendibili sul numero totale dei minori detenuti per immigrazione in Libia.
Tutti i centri visitati da Human Rights Watch avevano ambienti separati per donne e bambini. La definizione di bambino, tuttavia, variava da un centro all’altro e non coincideva mai con il diritto internazionale, che definisce minori tutti gli individui al di sotto dei 18 anni. Nei centri di Ain Zara e Tajoura, si registravano come bambini solo quelli al di sotto dei 14 anni, anche se il direttore di Tajoura era consapevole che secondo l’UNICEF il limite di età sarebbe di 17 anni.[143] Il direttore di Misurata ha dichiarato che il suo centro ospitava minori di età compresa fra i due mesi e i 10 o 12 anni, ma non sapeva se ci fossero detenuti fra i 12 e i 18 anni né se fossero considerati adulti o bambini.[144] Sembra una prassi ormai consolidata quella di tenere le ragazze non accompagnate insieme a donne e bambini, mentre i ragazzi più grandi non accompagnati finiscono con gli uomini adulti.
I minori rappresentano una porzione piccola ma incredibilmente vulnerabile della popolazione migrante in Libia, sia nei centri di detenzione che nei viaggi per mare. Un’indagine dell’UNICEF sui bambini che percorrono la rotta migratoria del Mediterraneo attraverso la Libia ha evidenziato che il 75 per cento di loro ha subito violenze, molestie o aggressioni per mano degli adulti. La maggior parte si dice vittima di abusi verbali ed emotivi; la metà, di violenza fisica.[145] Nei primi nove mesi del 2018, quasi il 20 per cento dei migranti che hanno raggiunto l’Europa via mare partendo dalla Libia aveva meno di 18 anni.[146]
Human Rights Watch ha trovato un gran numero di bambini, persino neonati, reclusi in condizioni gravemente inadeguate nei centri di Ain Zara, Tajoura e Misurata. L’alimentazione è insufficiente sia per loro che per chi li accudisce, comprese le madri che allattano. L’assistenza sanitaria per i minori, come del resto per gli adulti, è assente o a dir poco deficitaria. Non ci sono attività regolari e organizzate, né aree giochi o programmi didattici di alcun tipo.
L’esposizione alle condizioni durissime della detenzione, a cui vanno aggiunti i traumi subiti nei paesi d’origine e durante la migrazione, come gli abusi dei trafficanti di esseri umani, possono avere un effetto devastante sulla salute mentale dei bambini.
Nyala, una ragazza etiope di 17 anni non accompagnata che le nostre ricercatrici hanno incontrato durante la visita al centro di Zuwara, dice di essere stata stuprata ripetutamente all’inizio del 2018, quando si trovava nella rimessa o “Makhzen” di un trafficante a Bani Walid, nel centro della Libia.
Penso di essere incinta di circa quattro mesi. Sono stata violentata due, tre volte nel Makhzen. [I trafficanti] Mi puntavano una pistola alla testa e chiamavano i miei genitori, mi tenevano il telefono all’orecchio e mi costringevano a chiedere soldi per il mio rilascio. La prima volta i miei hanno pagato 4.000 dollari [americani], la seconda 5.500 dollari. Quelli che mi stupravano erano libici.[147]
Nessuno dei centri fornisce alimenti per neonati. Come ci ha rivelato il direttore di Ain Zara: “L’azienda di ristorazione non ci porta cibo per bambini, non fa parte del contratto”.[148] A Zuwara il personale ci ha detto la stessa cosa, aggiungendo: “Glielo portiamo noi quando serve”.[149] Nzube, una ragazza nigeriana di 24 anni, aveva in braccio il suo bambino di tre mesi quando l’abbiamo intervistata nel centro di Ain Zara. Ci ha detto che la sua più grande preoccupazione è la mancanza di cibo per suo figlio. Non può allattare, perché una miscela di benzina e acqua le ha bruciato i seni a marzo 2018, durante il tentativo fallito di raggiungere l’Europa su un gommone troppo carico. Quando la barca si è capovolta, più di 36 persone sono morte prima dell’arrivo della Guardia Costiera. Durante lo sbarco è stata separata da suo marito: non sa dove l’abbiano portato.[150] Amina ha quattro figli e viene dal Darfur, è detenuta nel centro di Tajoura con la sua famiglia; ci ha detto che i bambini devono mangiare lo stesso cibo degli adulti, e che le autorità non le forniscono latte in polvere per il suo neonato.[151]
A marzo 2018, l’OIM ha individuato 29.370 minori non accompagnati in Libia, ma riconosce che la cifra reale potrebbe essere “molto più alta”.[152] Abbiamo parlato con otto di loro, di età compresa fra gli 8 e i 17 anni. Un sedicenne della Sierra Leone ci ha raccontato che le guardie nel centro di Tajoura lo hanno picchiato insieme ai suoi compagni di cella pochi giorni prima del nostro arrivo. Nessuno di loro dice di essere stato identificato e registrato dalle agenzie dell’ONU come minore non accompagnato.
L’UNICEF, l’OIM e l’UNHCR hanno stilato nel 2018 un protocollo per la protezione congiunta dei bambini non accompagnati in Libia. Le tre agenzie hanno riunito un gruppo di esperti che si occuperanno della determinazione dell'interesse superiore (BID), per affrontare i casi più complessi di bambini fuori dal regime detentivo. Il primo caso considerato, a marzo 2018, riguardava una bambina ivoriana di sette anni che aveva perso sua madre in mare ed era stata destinata alla detenzione dal DCIM. La bambina è stata riportata da suo padre ad Abidijan.[153] Alla fine di novembre, il gruppo di BID aveva due casi irrisolti e stava valutando soluzioni possibili per altri sei bambini.[154] L’OIM ha riferito a Human Rights Watch che non riesce ad applicare la determinazione dell’interesse superiore in caso di detenzione perché “le strutture... non ci concedono uno spazio privato e tempo sufficiente per i colloqui approfonditi che sarebbero necessari per la procedura di BID”. In ogni caso, l’agenzia svolge “valutazioni dell’interesse superiore” quando identifica i minori non accompagnati nei centri, per comprenderne i bisogni e “assicurare che il rimpatrio (se desiderato) sia nel loro migliore interesse”.[155]
IV. L’Unione Europea e l’Italia informate degli abusi
I funzionari delle istituzioni europee e le autorità statali italiane sanno delle pratiche illecite contro i migranti e i richiedenti asilo che sono così diffuse in Libia in generale, e nei centri di detenzione del DCIM in particolare.
I funzionari e le istituzioni dell’UE riconoscono apertamente l’esistenza di abusi nei centri di detenzione. A settembre 2017, un portavoce del servizio europeo per l’azione esterna ha dichiarato: “Siamo ben consapevoli delle condizioni inaccettabili, spesso scandalose e perfino inumane in cui sono tenuti i migranti nelle strutture di ricezione in Libia”.[156] A novembre Dimitri Avramopoulos, commissario europeo per le migrazioni, ha aggiunto: “Siamo tutti a conoscenza delle condizioni terribili e degradanti in cui versano molti migranti in Libia”.[157] Come diversi alti funzionari dell’UE, Avramopoulos ha ripetuto più volte che l’impegno a migliorare le condizioni della detenzione, insieme alle evacuazioni e ai rimpatri, è uno dei punti chiave nei rapporti con la Libia, proprio alla luce degli abusi gravissimi e diffusi.[158] A luglio 2018, un portavoce della Commissione europea ha ribadito che la Libia non soddisfa i requisiti fondamentali per consentire lo sbarco delle persone soccorse in mare dalle imbarcazioni europee.[159]
I funzionari dell’UE e i governi tuttora in carica in Francia, Germania e Regno Unito, così come il precedente governo italiano, hanno confermato a Human Rights Watch che sono coscienti delle violenze subite dai migranti e dai richiedenti asilo nei centri di detenzione libici.[160] L’attuale esecutivo italiano, invece, è di un altro avviso. Il vicepremier e Ministro dell’Interno Matteo Salvini sostiene che la Libia debba essere dichiarata un posto sicuro per gli sbarchi, e a giugno 2018 si è recato nella struttura dell’UNHCR a Tripoli, all’epoca non ancora operativa, per “smontare tutte le menzogne e la retorica in base alle quali in Libia si tortura e si ledono i diritti civili”.[161] Non ha visitato nessuno dei centri di detenzione del DCIM.
Le organizzazioni internazionali per i diritti umani, compresa Human Rights Watch, le associazioni umanitarie e le agenzie dell’ONU, fra cui l’Alto Commissariato per i Diritti Umani (OHCHR), la Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL) e l’UNHCR, hanno documentato gli abusi perpetrati nelle strutture detentive.[162] A novembre del 2017, l’allora Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani Zeid Ra’ad Al Hussein ha definito le sofferenze dei migranti detenuti in Libia “un oltraggio alla coscienza dell’umanità” e una situazione che non può essere risolta con i soli sforzi per migliorare le condizioni della detenzione.[163]
V. Il quadro giuridico
Il trattamento riservato ai migranti nei centri di detenzione libici, che abbiamo descritto in questa relazione, è crudele, inumano e degradante. Le autorità del paese sono responsabili di questi abusi e di non sanzionare quanti le commettono.
Nella misura in cui l’UE, l’Italia e gli altri governi danno consapevolmente un sostegno fondamentale agli abusi commessi sui detenuti, ne sono complici.
La responsabilità statale per le violazioni sui diritti umani secondo il diritto internazionale
Secondo l’articolo 16 sulla responsabilità degli stati per atti internazionalmente illeciti della Commissione di diritto internazionale, uno stato si rende responsabile di violazioni dei diritti umani se assiste o aiuta consapevolmente un altro stato a commettere abusi.[164] Le note esplicative chiariscono che quest’assistenza può configurarsi come responsabilità se lo stato contribuisce “in modo significativo” alla commissione di un atto illecito, o se fornisce aiuti materiali che in seguito vengono usati per compiere violazioni dei diritti umani.[165] Fornire un consistente supporto alla Guardia Costiera libica aiutandola a intercettare le imbarcazioni in acque internazionali, ben sapendo che le persone fermate vanno incontro a una detenzione arbitraria in condizioni crudeli, inumane o degradanti oppure, nel caso dei bambini, quando ci sono ragioni fondate per credere che siano a rischio di danni irreparabili, potrebbe configurarsi come favoreggiamento di gravi violazioni dei diritti umani.[166]
Nils Melzer, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, ha sottolineato che “qualunque partecipazione, incoraggiamento o assistenza fornita” a operazioni di respingimento che possano esporre le persone al rischio reale di torture e maltrattamenti, “sarebbe inconciliabile con un’interpretazione in buona fede e con l’osservanza del divieto di tortura e maltrattamento, compreso il principio di non respingimento o non-refoulement”.[167] Melzer ha aggiunto inoltre: “Se i paesi dell’UE stanno pagando la Libia per impedire deliberatamente ai migranti di raggiungere la sicurezza della giurisdizione europea, parliamo di complicità in crimini contro l’umanità, perché è noto a tutti che queste persone vengono rinchiuse in campi in cui lo stupro, la tortura e l’omicidio regnano sovrani”.[168]
L’Unione Europea e alcuni dei suoi stati membri, in particolare l’Italia, stanno destinando ingenti aiuti alle autorità libiche con lo scopo dichiarato di sostenerle nell’intercettazione dei migranti che cercano di lasciare il paese via mare; tali aiuti comprendono attrezzature, finanziamenti, addestramento, sorveglianza, attività di intelligence e assistenza al coordinamento. Questi stati sanno bene che le persone intercettate e ricondotte in Libia in regime di detenzione sono tenute arbitrariamente in condizioni inumane e a rischio di ulteriori abusi illeciti: proprio perché ne sono informati, inviano fondi destinati a migliorare la situazione, ma con scarsi risultati.
Inoltre, favorire l’intercettazione e il rientro forzato in Libia dei migranti bisognosi di protezione viola la legge internazionale sui rifugiati, perché lo stato africano non fa parte della Convenzione di Ginevra del 1951 e non ha una legge né una procedura sullo status di rifugiato; questo significa che i migranti riportati nel paese non hanno alcun accesso effettivo a una soluzione per le loro esigenze di protezione.
17 persone intercettate dalla Guardia Costiera libica durante un naufragio di novembre 2017, in cui si stima che abbiano perso la vita 20 persone, hanno sporto denuncia contro l’Italia presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. L’accusa è che durante le operazioni l’Italia avesse il controllo effettivo dei guardacoste, pertanto deve essere ritenuta corresponsabile delle violazioni dei diritti umani risultanti dall’intercettazione, sia in mare che dopo l’approdo sul suolo libico.[169]
La detenzione dei migranti
Le linee guida sulla detenzione dell’UNHCR, che si ispirano al diritto internazionale, stabiliscono che le autorità governative devono porre i richiedenti asilo in stato di fermo solo “come ultima risorsa”, qualora sia una misura strettamente necessaria e adeguata per raggiungere uno scopo giuridico legittimo basato su una valutazione individuale.[170] Le motivazioni legittime per la detenzione devono essere definite in modo chiaro dalla legge e conformi a quelle riconosciute dal diritto internazionale, ad esempio: pericolo per l’ordine pubblico, rischio di fuga o impossibilità di stabilire l’identità di un individuo. Le vittime di tortura e altre gravi forme di violenza fisica, psicologica o sessuale, in linea di massima non dovrebbero essere soggette a detenzione.[171]
Per i bambini vigono regole più severe, fra cui il divieto di destinarli alla detenzione per ragioni legate alla migrazione. Il Comitato sui diritti dell’infanzia ha dichiarato più e più volte che i bambini non devono essere detenuti a causa del loro status di migranti, né di quello dei loro genitori.[172] Il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria e 11 esperti di diritti umani delle Nazioni Unite hanno rimarcato questo concetto anche nel 2018.[173]
La detenzione familiare e quella dei minori non accompagnati è incompatibile con le norme internazionali, soprattutto con il principio fondamentale che le azioni dello stato debbano essere governate dall’“interesse superiore del bambino”.[174] Il Comitato per i lavoratori migranti e quello per i diritti dell’infanzia hanno concluso che “la necessità di mantenere unita una famiglia non è una valida ragione per privare un bambino della sua libertà”, per questo “la detenzione familiare per i migranti deve essere proibita dalla legge e abolita nelle politiche e nella pratica”.[175] In più, la privazione della libertà ha ripercussioni negative sulla possibilità dei bambini di accedere ad altri diritti fondamentali, come quello all’istruzione, alla salute e all’unità familiare.[176]
Il divieto di tortura e maltrattamento dei detenuti
Il divieto assoluto che riguarda la tortura e il trattamento crudele, inumano o degradante è sancito nel diritto internazionale da vari trattati a cui la Libia deve attenersi, nello specifico: la Convenzione dell’ONU contro la tortura, la Convenzione sui diritti dell’infanzia, la Carta africana dei diritti dell'uomo e dei popoli e il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR).
Le cosiddette Regole Mandela, vale a dire gli standard minimi per il trattamento dei prigionieri approvati dall’ONU, richiedono, fra le altre cose, un limite al numero di persone tenute nella stessa stanza (in funzione delle dimensioni), spazi sufficienti per dormire, servizi consoni per l’igiene personale, il vestiario e i letti, vitto adeguato e accesso all’assistenza medica. Le donne devono essere sistemate in strutture completamente separate dagli uomini e sorvegliate da personale femminile.[177] Le regole specifiche per i bambini privati della libertà decretano che i minori non dovrebbero mai essere detenuti insieme agli adulti.[178]
In base alle linee guida dell’UNHCR e a quelle dell’ONU relative al trattamento delle donne detenute e alle misure non detentive per le donne autrici di reato, le strutture devono rispondere alle necessità igieniche specifiche delle donne, fra cui la fornitura di assorbenti igienici, e assicurare la loro protezione contro la violenza sessuale e di genere. Si deve favorire l’impiego di sorveglianti donne e prevedere la presenza di rimedi e misure di protezione per le detenute che si dichiarano vittime di abusi. Come norma generale, le donne incinte e le madri in allattamento non devono essere detenute. Coloro che hanno subito violenze sessuali devono avere accesso a cure mediche e psicologiche adeguate, compresi i test di gravidanza.[179]
Raccomandazioni
Alle autorità libiche
- Finché il quadro giuridico non sarà rettificato, sospendere immediatamente la detenzione automatica dei migranti e accertarsi che sia applicata solo come ultima risorsa e per la durata minore possibile.
- Garantire che i detenuti siano condotti davanti a un giudice in tempi brevi, per valutare la legalità e la necessità della detenzione e risolvere eventuali reclami sul trattamento ricevuto nei centri. Rispettare gli ordini di rilascio dei detenuti.
- Prevedere alternative alla detenzione, come l’allestimento di centri in cui i richiedenti asilo abbiano libertà di movimento e da cui possano allontanarsi durante il giorno.
- Assicurare che le strutture detentive distinguano correttamente i bambini dagli adulti, applicando le norme internazionali che definiscono chiaramente come minore ogni individuo al di sotto dei 18 anni.
- Porre subito fine alla detenzione dei bambini e dei loro accompagnatori adulti a scopi di controllo dell’immigrazione.
- Ridurre il sovraffollamento rilasciando i detenuti e provvedendo a una distribuzione più equilibrata di quelli rimanenti fra i vari centri, in base alle linee guida internazionali.
- Migliorare le condizioni in tutte le strutture di detenzione destinate ai migranti: fornire cibo, acqua potabile e un’assistenza sanitaria idonea, in particolare, cibo e cure specifiche per i bambini.
- Pianificare adeguatamente le spese per i bisogni e le attività dei detenuti, come cibo, manutenzione, assistenza medica e articoli non alimentari.
- Creare meccanismi istituzionali per sanzionare le guardie colpevoli di abusi nei centri di detenzione tramite provvedimenti disciplinari, rimozione immediata in caso di atti illeciti provati e gravi e, se necessario, azioni legali.
- Ratificare il protocollo opzionale alla convenzione contro la tortura e implementare il meccanismo nazionale di prevenzione previsto dallo stesso per assicurare un’ispezione indipendente di tutte le strutture detentive.
- Ratificare la Convenzione di Ginevra del 1951 e il relativo protocollo del 1967, adottare una legge sul diritto di asilo che stabilisca una procedura giusta e legale per ottenerlo, conforme agli standard e agli obblighi internazionali, e soprattutto includere nella legislazione nazionale il divieto assoluto di respingimento; fino a quando il diritto di asilo non sarà tutelato dalla legge, come provvedimento temporaneo, sospendere tutte le misure punitive come la detenzione automatica e le multe comminate per gli ingressi e le uscite irregolari dei richiedenti asilo in Libia.
- Riconoscere formalmente l’UNHCR e supportare il suo impegno a fornire la protezione internazionale a tutti i rifugiati, richiedenti asilo e altre persone di interesse sul territorio libico, senza alcuna restrizione di nazionalità. In particolare, consentire all’agenzia dell’ONU un accesso completo e incondizionato a tutti i luoghi del paese in cui sono detenuti cittadini non libici.
- Adottare procedure operative standard, chiare e coerenti, per il coordinamento delle operazioni di soccorso nelle acque territoriali libiche da parte di navi commerciali, delle Ong o di qualunque altro genere; in alternativa, all’interno di quella che la Libia considera la sua zona SAR in acque internazionali, consentire una pronta risposta alle barche in difficoltà da parte di navi europee e non.
Alle istituzioni e agli stati membri dell’Unione Europea
- Riconoscere apertamente che gli attuali finanziamenti e supporti offerti alla Libia non sono riusciti a migliorare in modo sostanziale la protezione e l’assistenza ai migranti e ai rifugiati bloccati nella nazione, e rivedere con urgenza le modalità di fornitura di finanziamenti e altri aiuti volti a potenziare l’intercettazione dei migranti e richiedenti asilo prima che partano o raggiungano le acque internazionali.
- Adottare criteri e tempistiche chiari per migliorare le operazioni di ricerca e soccorso condotte dalla Libia e le condizioni all’interno dei suoi centri di detenzione.
- Richiedere che EUNAVFOR MED intensifichi il suo monitoraggio della Guardia Costiera libica, comprese le unità non addestrate dall’UE, e renda pubblici i risultati del controllo a cadenza regolare; garantire una valutazione indipendente e trasparente dell’impatto dei finanziamenti europei alla Libia per i migranti.
- Sottolineare pubblicamente che le istituzioni europee sono pronte a interrompere l’invio di fondi e di altri aiuti se le autorità libiche non soddisfano le suddette richieste.
- Destinare il sostegno ad attività multilaterali, soprattutto tramite le agenzie dell’ONU e le organizzazioni non governative internazionali, per salvaguardare i diritti umani fondamentali nel trattamento di rifugiati, richiedenti asilo e migranti in Libia.
- Rifiutare categoricamente i rientri coatti in Libia, anche delle persone soccorse o intercettate in mare, e ribadire il rispetto del principio di non respingimento da parte dell’UE. Nessuna parte della Libia deve essere definita sicura per il rientro dei migranti, finché la situazione della sicurezza e dei diritti umani non migliorerà a sufficienza e consentirà un ritorno sicuro e dignitoso.
- Promuovere con decisione il reinsediamento dei richiedenti asilo fuori dalla Libia, anche verso gli stati europei, in base a criteri razionali e generosi; fare in modo che il programma di evacuazione verso il Niger e le altre nazioni continui a ritmo costante, con reinsediamenti proporzionati e rapidi.
- Garantire un controllo trasparente e pubblico del programma umanitario volontario dell’OIM per verificare che le persone bisognose di protezione, come i potenziali richiedenti asilo, non si sentano costrette a tornare nei paesi d’origine.
- Esortare le autorità libiche a riformare il regime di detenzione dei migranti per porre fine alla detenzione arbitraria e indefinita, e stabilire provvedimenti disciplinari per gli abusi commessi nei centri.
- Sostenere con forza l’adozione di un memorandum d’intesa fra le autorità libiche e l’UNHCR affinché l’agenzia abbia il mandato necessario per registrare e proteggere tutte le persone che rientrano nella definizione della Convenzione di Ginevra del 1951, senza limiti di nazionalità né altri criteri privi di fondamento secondo il diritto internazionale.
- Potenziare le operazioni di ricerca e soccorso delle imbarcazioni europee, comprese quelle delle Ong, finché le autorità libiche non interromperanno la detenzione arbitraria, dimostreranno miglioramenti importanti e prolungati nelle condizioni dei centri, e avranno forze autonome sufficienti per gestire le proprie operazioni di ricerca e soccorso.
- Adottare un accordo sugli sbarchi fra gli stati dell’UE, per contrastare la detenzione automatica e assicurare una pronta redistribuzione delle persone soccorse fra i vari paesi per avviare gli iter legali.
- Insistere con l’Italia e con Malta, i porti sicuri più vicini alla zona SAR critica, perché acconsentano agli sbarchi senza esitazioni.
- Considerare accordi sugli sbarchi con paesi extra-UE solo se soddisfano alcune importanti precondizioni fra cui, come minimo: garanzie contro la detenzione arbitraria e i respingimenti, accesso a una procedura di asilo imparziale ed efficiente, e giusti processi di deportazione per chi non è in possesso dei requisiti per restare.
Al governo italiano
- Sospendere i finanziamenti e ogni altro supporto bilaterale alla Libia volto ad aumentare la sua efficienza nell’intercettazione dei richiedenti asilo e dei migranti prima che prendano il mare o raggiungano le acque italiane, almeno finché le autorità libiche non interromperanno la pratica della detenzione arbitraria e dimostreranno miglioramenti importanti e prolungati nelle condizioni dei centri. Destinare questi aiuti ad attività multilaterali, soprattutto tramite le agenzie dell’ONU e le organizzazioni non governative internazionali, per salvaguardare i diritti umani fondamentali nel trattamento dei migranti in Libia.
- Garantire che il centro nazionale di coordinamento dei soccorsi marittimi resti a capo delle operazioni nelle acque internazionali davanti alle coste della Libia, anche qualora fosse necessario collaborare con la Guardia Costiera libica, per offrire alle imbarcazioni in difficoltà una pronta risposta da parte di navi europee e non, e lo sbarco in un posto sicuro.
- Permettere alle persone salvate dalle navi commerciali, militari e delle Ong di sbarcare entro un tempo ragionevole in Italia o in un altro luogo sicuro fuori dalla Libia.
- Non ordinare a nessuna nave di consegnare le persone soccorse alle autorità libiche, sia in mare che sul territorio del paese.
- Lavorare con le istituzioni dell’UE al raggiungimento di un accordo affidabile per la redistribuzione delle persone soccorse e sbarcate in Italia fra gli altri stati membri.
All’Organizzazione marittima internazionale
- Impegnarsi a rivedere la decisione di approvare la zona SAR della Libia alla luce delle prove evidenti che non si tratta di un posto sicuro per far sbarcare le persone soccorse o intercettate, e dell’evidente incapacità della Guardia Costiera sotto il governo di unità nazionale di far fronte alle sue responsabilità nella vasta area che chiede di controllare.
- Comunicare chiaramente alle autorità libiche il loro dovere di coordinarsi in modo efficace con tutte le altre navi in mare (comprese quelle mercantili e delle Ong) per garantire operazioni di soccorso tempestive e sicure, e di accordarsi con le altre autorità SAR competenti per lo sbarco al di fuori della Libia.
- Adottare una risoluzione per dichiarare che la Libia non è un posto sicuro per gli sbarchi, date le prove delle violenze commesse contro le persone salvate o intercettate in mare e destinate a una detenzione indefinita e costellata di abusi.
All’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati
- Coordinarsi efficacemente con l’OIM per garantire la corretta identificazione delle persone che potrebbero necessitare di protezione.
- Ottenere più supporto finanziario dai donatori internazionali per espandere il raggio d’azione dell’UNHCR e il suo personale, e far fronte alla situazione in Libia.
- Continuare a insistere con le autorità libiche, facendo leva sul supporto internazionale, per raggiungere un memorandum d’intesa che permetta di ottenere un mandato completo per le persone che hanno bisogno di protezione internazionale.
- Esprimere preoccupazione per i programmi dell’UE che rafforzano la Guardia Costiera libica, dal momento che tutte le persone intercettate o soccorse dalle sue unità finiscono in un regime di detenzione automatico, arbitrario e violento.
All’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni
- Coordinarsi efficacemente con l’UNHCR per garantire la corretta identificazione delle persone che potrebbero necessitare di protezione.
- Promuovere uno studio indipendente e trasparente del programma di ritorno volontario umanitario in Libia, per tutelare le persone bisognose di protezione contro un eventuale rientro forzato e garantire un reinserimento efficace di coloro che tornano nel paese d’origine.
Ringraziamenti
Questa relazione è stata documentata e scritta da Judith Sunderland, direttore associato per l’Europa e l’Asia centrale, e Hanan Salah, ricercatore esperto di Medio Oriente e Nord Africa. Le ricercatrici sono state aiutate da H.G. Il testo è stato revisionato da Benjamin Ward, direttore facente funzioni della divisione Europa e Asia centrale; Eric Goldstein, direttore facente funzioni della divisione Medio Oriente e Nord Africa; Hillary Margolis, ricercatrice per la divisione sui diritti delle donne; Mike Bochenek, consulente senior per la divisione sui diritti dell’infanzia. Clive Baldwin, consulente legale capo, e Tom Porteous, direttore facente funzioni per il programma, hanno fornito indicazioni legali e programmatiche. Elida Vikic, associata alla divisione Europa e Asia centrale, si è occupata dell’assistenza alla produzione insieme a Fitzroy Hepkins, direttore amministrativo.
Human Rights Watch ha ottenuto l’accesso ai centri di detenzione grazie al Ministero dell’Interno del governo di unità nazionale libico, e ringrazia il Ministero degli Esteri per aver procurato i visti.
Human Rights Watch desidera ringraziare tutti i migranti e i richiedenti asilo detenuti in Libia che hanno voluto collaborare.