Scacciati e schiacciati

L'Italia e il respingimento di migranti e richiedenti asilo, la Libia e il maltrattamento di migranti e richiedenti asilo

Scacciati e schiacciati

L’Italia e il respingimento di migranti e richiedenti asilo, la Libia e il maltrattamento di migranti e richiedenti asilo 

Mappa dell’Italia e della regione di confine della Libia
I.  Sintesi
II.  Raccomandazioni
Al governo della Libia
Al governo dell’Italia
Alle Istituzioni dell’Unione europea e agli stati membri dell’Ue
Al Consiglio d’amministrazione di Frontex
All’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati (Unhcr)
III. Metodologia e campo d’indagine
IV. Terminologia
Migranti
Trafficanti
V. “Amicizia” italo-libica e il rinvio di barconi di migranti in Libia
VI.  L’intercettamento e il principio di nonrefoulement
VII.  L’approccio dell’Unione europea verso la Libia
L’outsourcing della politica di migrazione e asilo dell’Ue
Il ruolo di Frontex
VIII. Intercettamenti maltesi e libici precedenti al maggio 2009
IX. Mancato soccorso ad imbarcazioni in difficoltà
X. Libia: impossibile richiedere asilo politico
XI. L’Unhcr in Libia
XII. Connessioni tra trafficanti e funzionari di sicurezza e delle forze dell’ordine
Polizia e trafficanti: corruzione, estorsione, e rapina
XIII. Abusi su gruppi di migranti deboli
Abuso di donne migranti
Abuso di minori non accompagnati
XIV. Abusi all’entrata in Libia
Abusi nella zona di confine ovest della Libia
XV. Refoulement dalla Libia e abbandono di persone nel deserto vicino al confine
Abbandoni nel deserto
XVI. Centri di detenzione per migranti: condizioni e abusi
Kufra
Strutture detentive per migranti nell’area di Tripoli
I centri di detenzione lungo la costa nord-occidentale della Libia (fuori Tripoli)
Riconoscimenti e ringraziamenti

Mappa dell’Italia e della regione di confine della Libia

I.  Sintesi

Il 6 maggio del 2009, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, uno Stato europeo ha dato ordine alle proprie imbarcazioni e guardia costiera di intercettare e rinviare con la forza in alto mare barconi di migranti, senza la benché minima valutazione per determinare se qualcuno dei passeggeri avesse bisogno di protezione o fosse particolarmente vulnerabile. Lo stato intercettante era l’Italia, quello ricevente la Libia. La guardia costiera italiana e le pattuglie della Guardia di Finanza hanno trainato barconi di migranti da acque internazionali senza neanche una sommaria valutazione per vedere se alcuni di essi fossero rifugiati o se altri fossero malati o feriti, donne incinte, minori non accompagnati, vittime di traffico o di altre forme di violenza contro le donne. Gli Italiani hanno fatto sbarcare i passeggeri, esausti, nel porto di Tripoli, dove le autorità libiche li hanno immediatamente arrestati e messi in carcere.

Il presente rapporto prende in esame il trattamento di migranti, richiedenti asilo e rifugiati in Libia attraverso gli occhi di coloro che hanno lasciato tale Paese e si trovano ora in Italia o a Malta. Tali persone, al contrario delle loro controparti che sono ancora in Libia, sono libere di parlare delle proprie esperienze senza paura di incorrere in punizioni. Il rapporto ha due scopi. Innanzitutto, si propone di individuare nelle le autorità libiche i responsabili dei maltrattamenti inflitti a migranti, rifugiati, e richiedenti asilo. Pertanto, cerca di migliorare le deplorevoli condizioni detentive in Libia e di spingere tale Paese a stabilire procedure d'asilo conformi agli standard internazionali sui rifugiati. In secondo luogo, il presente rapporto si propone di individuare nel governo italiano, l'Unione Europea (Ue) e la sua agenzia di controllo dell'immigrazione dalle frontiere esterne, Frontex, i responsabili di qualunque danno tocchi in sorte a chi viene respinto in Libia senza una valutazione del suo bisogno di protezione.

Human Rights Watch non ha avuto modo di vedere o intervistare chi è stato rinviato in Libia a seguito delle intercettazioni italiane, ma basa questo rapporto su delle interviste con 91 tra migranti, richiedenti asilo e rifugiati in Italia e a Malta, condotte prevalentemente nel maggio 2009, ed una per telefono con un migrante detenuto in Libia. Human Rights Watch ha visitato la Libia nell’Aprile del 2009 ma le autorità libiche non ci hanno permesso di intervistare nessuno in spazi pubblici o privati senza un loro espresso permesso. Le autorità, inoltre, non ci hanno permesso di visitare nessuno dei grandi centri detentivi per immigrati in Libia, nonostante le nostre ripetute richieste.

Questo rapporto esamina la fiorente relazione tra Italia e Libia, che trova una delle sue componenti principali in un accordo di cooperazione per fermare il flusso irregolare, attraverso la Libia, di cittadini di Paesi terzi diretti in Italia. Il regime di intercettamento italiano è stato istituito velocemente a seguito di un nuovo trattato con la Libia, il “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica Italiana e la Grande Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista” (il “Patto d’amicizia”), sottoscritto il 30 agosto 2008. Il Patto d’amicizia sollecita una “intensificazione” della cooperazione nella “lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti e all’immigrazione clandestina”. Le due parti hanno concordato di rafforzare il sistema di controllo di frontiera per i confini di terra libici (con finanziamenti italiani al 50 percento ed un rimanente 50 percento da reperirsi attraverso l’Ue), e di avvalersi di società italiane a questo scopo.

Il primo risultato tangibile del Patto d’amicizia è stato il trasferimento dall’Italia alla Libia, il 14 maggio del 2009, di tre motovedette che sarebbero state manovrate congiuntamente dalle autorità libiche e italiane. Alla cerimonia inaugurale, il comandante della Guardia di Finanza, Cosimo D’Arrigo, ha detto che le navi “saranno usate in pattugliamenti congiunti in acque territoriali libiche ed acque internazionali in congiunzione con le operazioni navali italiane”. Ha aggiunto che “membri della guardia costiera libica verranno anche stazionati presso la nostra base operativa sull’isola di Lampedusa e prenderanno parte ai pattugliamenti sulle nostre navi”.

L’Italia, intercettando navi in alto mare e respingendole verso la Libia senza alcuna valutazione, viola il principio legale internazionale del nonrefoulement . Diverse convenzioni internazionali impediscono ai governi di commettere il refoulement, cioè il rinvio con la forza di individui verso posti dove la loro vita o libertà è minacciata o dove andrebbero incontro a rischio di tortura. Il principio di nonrefoulement è un obbligo vincolante nel diritto internazionale dei diritti umani e nel diritto internazionale dei rifugiati, così come nel diritto europeo ed in quello italiano, i quali anche impediscono all’Italia di respingere individui in posti dove potrebbero ricevere trattamento inumano e degradante.

La Libia non ha diritto o procedure d’asilo. Non c’è un meccanismo formale per individui in cerca di protezione in Libia. Le autorità non fanno distinzioni tra rifugiati, richiedenti asilo, ed altri migranti. Il generale di brigata Mohamed Bashir Al Shabbani, direttore dell’ufficio immigrazione al Comitato Generale del Popolo per la Pubblica Sicurezza, ha dichiarato ad Human Rights Watch che “non ci sono rifugiati in Libia”. Ha affermato: “Ci sono individui che si intrufolano clandestinamente nel Paese e non possono essere descritti come rifugiati”. Ha poi aggiunto, “Chiunque entri nel Paese senza documenti e permessi formali viene arrestato.”

Nella sua prima visita in Italia nel giugno del 2009, il leader libico Muammar Gheddafi ha detto che la questione dei richiedenti asilo è una “menzogna diffusa”. Ha proseguito dicendo che gli Africani “vivono nel deserto, nelle foreste, privi di qualunque identità, tanto meno politica. Credono che il Nord abbia tutta la ricchezza, i soldi, per cui tentano di raggiungerlo (...) milioni di persone sono attratte dall’Europa, e cercano di andarci. Pensiamo davvero che milioni di persone siano in cerca d’asilo? È una cosa che fa davvero ridere”.

Human Rights Watch non suggerisce che tutti, e neanche la maggioranza, dei migranti in Libia, o di coloro che tentano di entrare nell’Unione Europea attraverso l’Italia o Malta, possano considerarsi rifugiati, nonostante il tasso di accoglimento delle domande di asilo nel 2008 sia stato, per tutte le nazionalità, del 49 percento in Italia e del 52,5 percento a Malta. Trapani, che ha competenza anche per Lampedusa, il punto d’entrata per la maggior parte degli arrivi di barconi dalla Libia, ha accolto, dal gennaio all’agosto del 2008, il 78 percento delle domande d’asilo. Molti dei migranti che arrivano per mare, effettivamente, provengono da Paesi con scarso rispetto per i diritti umani ed, in alcuni casi, con un livello elevato di violenza generalizzata. Alcuni migranti hanno, di fatto, un credibile diritto alla protezione internazionale. Ma al di là di tali specifici casi, tutti i migranti godono di diritti umani e dovrebbero essere trattati dignitosamente, anche chi non ha diritto di entrare o rimanere in Italia, Malta o Libia.

In realtà, pochi dei migranti intervistati da Human Rights Watch, compresi molti dei quali hanno poi richiesto asilo in Italia o a Malta o a cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato in tali Paesi, hanno riferito di essere a conoscenza della possibilita' di richiedere asilo in Libia, o di sapere che in Libia fosse presente l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr).

Ad eccezione dei detenuti nel centro di detenzione di Misurata, al quale l’Unhcr e le sue organizzazioni partner non-governative (Ong) hanno accesso, nessuno dei degli ex-detenuti intervistati per il presente rapporto ha detto di aver visto o incontrato l’Unhcr durante la permanenza in una qualsiasi delle altre prigioni o centri di detenzione in Libia. Considerato il gran numero di ex-detenuti che hanno riportato di essere stati picchiati per qualunque richiesta fatta alle guardie, non sorprende che solo uno abbia detto ad Human Rights Watch di aver chiesto di incontrare l’Unhcr nel periodo di detenzione.

Human Rights Watch riconosce che, da quando la politica di intercettamento e rinvio dell’Italia è stata posta in essere nel maggio del 2009 (portando con sé un maggiore scrutinio sul trattamento dei respinti), l’Unhcr e le Ong sue partner hanno avuto molto più accesso che in precedenza agli individui respinti in Libia dall’Italia. Le autorità libiche hanno cominciato a concedere maggiore accesso all’Unhcr nel 2008 dopo che l’organizzazione ha formalizzato una relazione con un’Ong libica. Human Rights Watch saluta con favore il maggiore accesso dell’Unhcr in sette centri di detenzione per migranti, così come il maggior rispetto che le autorità libiche sembrano conferire ai documenti dell’Unchr e ai suoi interventi. Prendiamo atto, tuttavia, che la Libia non ha fornito garanzie formali sul trattamento dei respinti o sulle  possibilità dell’Unhcr di avvicinarli, e che essa non ha ancora formalizzato un memorandum d’intesa per la presenza dell’Unhcr in Libia, un accordo standard nella maggior parte dei Paesi in cui l’Unhcr opera.

Nonostante l’accresciuto accesso agli individui respinti in Libia dall’Italia, l’Unhcr, il 14 luglio del 2009, ha espresso seri dubbi che la politica dell’Italia, “in assenza di tutele adeguate, possa impedire l’accesso all’asilo ed eroda il principio di nonrefoulement”. La dichiarazione dell’Unhcr è stata rilasciata a seguito di colloqui con 82 individui che la Marina italiana aveva respinto verso la Libia il 1°luglio. Molti di essi hanno asserito che l’equipaggio della Marina italiana non ha offerto cibo ad individui che erano stati in mare per quattro giorni, che gli ha confiscato documenti ed effetti personali senza restituirglieli, e che ha usato la forza nel trasferirli sulla nave libica, causando il ricovero di sei passeggeri dell’imbarcazione. Human Rights Watch ha appreso da un’altra fonte che l’equipaggio della Marina italiana ha usato manganelli elettrici e mazze per cacciare i migranti dalla nave, e che alcuni passeggeri hanno avuto bisogno di punti di sutura in testa addirittura prima di lasciare la nave italiana.

Sebbene Human Rights Watch non abbia avuto modo di intervistare in Libia individui respinti dagli Italiani nella primavera e nell’estate del 2009, crediamo, considerate le circostanze detentive in Libia, almeno quelle rilevate durante la visita di Human Rights Watch, che interviste condotte al di fuori della Libia, in stato di riservatezza e confidenzialità, forniscano una descrizione delle condizioni e il trattamento nei centri di detenzione libici per migranti più accurata rispetto a valutazioni effettuate all’interno del Paese. Di fatto, in occasione dell’ultima visita di Human Rights Watch nel 2005, il primo migrante intervistato per strada dai nostri ricercatori fu arrestato un’ora più tardi. Il presente rapporto, pertanto, si basa su interviste a migranti, condotte a Malta e in Italia, circa le loro esperienze in Libia, comprese quelle successive ad arresti avvenuti in seguito a fallite partenze via mare. In tale rapporto, molte delle accuse di maltrattamento da parte dei migranti sono gravi e recenti. Crediamo che tali accuse siano direttamente pertinenti al quesito se l’Italia e l’Unione europea debbano collaborare con la Libia nell’impedire a cittadini di Paesi terzi (e tra questi, potenziali rifugiati) di lasciare la Libia, o nel ricacciare individui che sono riusciti ad abbandonare il Paese.

Gli abusi più frequenti riportati dai migranti nel presente rapporto, e spesso i più gravi, hanno luogo quando essi entrano (o rientrano) in Libia, e quando vi rientrano dopo un tentativo fallito di partenza su barconi, o quando sono espulsi dal Paese. Gli abusi al confine avvengono su ogni fronte: est, ovest, e sud. I migranti sono spesso poco chiari sull’identità delle autorità che commettono gli abusi, se si tratti di polizia o esercito. In molti casi, i migranti in viaggio attraverso la Libia non sanno neanche se i loro aguzzini siano poliziotti o criminali, ma esprimono spesso il convincimento che i due gruppi siano in combutta dato che entrambi sfruttano migranti vulnerabili e ne abusano.

I migranti hanno espresso in modo pressoché unanime ad Human Rights Watch il convincimento che i trafficanti abbiano strette relazioni con funzionari libici. Dai resoconti dei migranti, i trafficanti che organizzano le partenze con i barconi talvolta sono collegati alle stesse forze investite del compito di impedire la migrazione marittima irregolare. Che sia o meno coinvolta in più ampie operazioni di traffico, la polizia stradale, specialmente sulle strade provenienti dai confini, così come la polizia di guardia nei centri di detenzione per migranti, trae regolarmente profitto esigendo ed accettando tangenti per il rilascio dalla propria custodia. Nel caso dei migranti detenuti, ciò di solito implica che si stabilisca un contatto con le famiglie dei detenuti nei loro Paesi d’origine allo scopo di effettuare trasferimenti di denaro. Spesso, implica anche che la polizia stabilisca contatti con i trafficanti per il viaggio che segue il rilascio.

I migranti che sono stati detenuti in Libia hanno ripetutamente testimoniato ad Human Rights Watch di aver vissuto nella paura durante il periodo lì trascorso. Hanno affermato che temevano di essere rapinati, picchiati, e di subire estorsioni, non solo da parte di criminali comuni, ma anche dalla polizia. In molti hanno raccontato ad Human Rights Watch di temere, per strada, persino i bambini, i quali spesso tirano loro pietre.

Alcuni migranti hanno riportato ad Human Rights Watch di essersi nascosti praticamente per tutto il tempo in cui hanno vissuto a Tripoli o Bengasi. In alcuni casi ciò accadeva perché erano tenuti come veri e propri prigionieri dai trafficanti. In altri casi, però, ciò era dovuto al timore di essere arrestati o aggrediti per strada. Come poi è risultato, non erano al sicuro né per strada né nei loro nascondigli, dato che poliziotti o delinquenti entravano nelle case dei migranti per aggredirli o estorcergli denaro e, nel caso della polizia, per arrestarli.

Le donne migranti che intraprendono il viaggio attraverso la Libia sono particolarmente esposte a trafficanti e poliziotti che ne abusano impunemente. Sebbene Human Rights Watch non sia stata in grado di documentare specifici casi di stupro e violenza carnale, sia uomini che donne hanno riportato ad Human Rights Watch di aver spesso visto le donne venir separate dai gruppi di migranti e che credevano che queste fossero portate via per essere violentate.

Dal 2004, non ci sono stati casi chiaramente documentati in cui le autorità libiche hanno respinto con la forza dei rifugiati verso i loro Paesi d’origine o verso luoghi da dove sarebbero stati rimpatriati forzatamente. La Libia utilizza camion con cui trasporta i migranti dalle zone costiere a quelle di confine, al fine di deportarli. I migranti del Corno d’Africa, Somalia ed Eritrea incluse, vengono trasportati via camion fino a Kufra, nel remoto angolo sud orientale della Libia, per poi essere deportati in Sudan. Tuttavia, secondo le testimonianze dei migranti, essi vengono lasciati nel deserto all’interno del territorio libico. In pratica, questo significa che tali migranti non hanno altra scelta che mettere la propria vita, ancora una volta, nelle mani dei trafficanti che li avevano portati, in principio, da Kufra verso Bengasi o Tripoli, normalmente rimanendo esposti, nel corso del viaggio, ai loro abusi.

Kufra è il posto di detenzione in Libia più citato dai migranti intervistati da Human Rights Watch in Italia e a Malta. Ma “Kufra” non denota un singolo centro di detenzione. Sebbene a Kufra ci sia un centro di detenzione per migranti gestito dal governo, anche i trafficanti vi tengono le proprie strutture detentive. Talora, i migranti sono incerti nel distinguerli: alcuni descrivono il centro gestito dal governo come “all’apparenza più simile a una casa che a una prigione”; altri descrivono i guardiani delle strutture private come talvolta abbigliati con uniformi dell’esercito. La maggior parte dei migranti ritiene che i trafficanti e la polizia lavorino insieme, per cui, dal loro punto di vista, la distinzione tra strutture detentive ufficiali e private fa poca differenza. In entrambi i casi, i migranti vengono detenuti indefinitamente, hanno una comunicazione minima con i loro carcerieri (che perlopiù ha luogo nella forma di botte e percosse), e non vengono rilasciati fino a che non pagano tangenti. Tutti temono di venir abbandonati nel deserto.

Alcuni migranti hanno raccontato ad Human Rights Watch di essere stati detenuti a Kufra più volte. Vi sono stati sia quando sono stati arrestati entrando in Libia che al momento della deportazione. Spesso, tuttavia, le deportazioni non venivano eseguite. Piuttosto, i migranti hanno detto a Human Rights Watch che i responsabili della prigione di Kufra li consegnavano ai trafficanti, i quali li “compravano” dietro corrispettivo, li imprigionavano in strutture detentive private, per poi “rivenderli” ad un prezzo più alto esigendo soldi dalle loro famiglie per rilasciarli e riportarli, ancora una volta, verso le città costiere.

Nel presente rapporto compaiono anche resoconti di migranti sulle pessime condizioni e sul trattamento brutale di altri centri detentivi in tutta la Libia. Sebbene i nomi e i luoghi cambino, la descrizione delle condizioni e del trattamento è notevolmente simile e rimanda a condizioni che generalmente si classificano come inumane e degradanti.

La Libia deve porre fine alla detenzione arbitraria di immigrati ed assicurare che le condizioni detentive siano adeguate agli standard minimi internazionali. Deve proteggere scrupolosamente da abusi fisici i migranti detenuti e considerare la polizia ed altri funzionari responsabili di qualunque abuso, compresi l’estorsione e la collusione con trafficanti. È anche necessario che la Libia sottoscriva e ratifichi la Convenzione relativa allo status dei rifugiati e il suo Protocollo del 1967  e che adotti una legge di attuazione sull’asilo che includa una proibizione assoluta di refoulement. Con la guida esperta dell’Unhcr, la Libia deve stabilire una procedura d’asilo efficace, giusta e legittima. La Libia deve riconoscere formalmente l’Unhcr e sostenere i suoi sforzi nel fornire protezione a livello internazionale a rifugiati, richiedenti asilo ed altri soggetti interessati in territorio libico. Deve concedere all’Unhcr accesso incontrastato a tutti i luoghi dove sono detenuti cittadini stranieri.

L’Italia deve cessare immediatamente di violare l’obbligo di nonrefoulement e cessare di intercettare barconi di migranti e rinviarli in Libia sommariamente. Dovrebbe anche cessare di cooperare con le autorità libiche nell’intercettare e bloccare cittadini di Paesi terzi che tentano di lasciare la Libia. La cooperazione bilaterale andrebbe reindirizzata verso sforzi multilaterali, in particolar modo attraverso l’Unhcr e l’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani, per assicurare che gli standard dei diritti umani fondamentali, relativi al trattamento di rifugiati, richiedenti asilo, e migranti in Libia, siano osservati.

Le istituzioni dell’Unione europea e i suoi stati membri dovrebbero esigere che l’Italia si conformi all’articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) e cessi di rinviare i migranti verso un posto dove sono soggetti ad un trattamento inumano e degradante. Dovrebbero anche invitare altri stati membri a non impegnarsi in operazioni di Frontex che risultino in un rinvio di migranti in violazione dell’articolo 3 della Cedu. Frontex dovrebbe far sì che i suoi piani operativi proibiscano in modo specifico il refoulement.

L’Unione Europea, compresi Frontex ed altri singoli stati membri, non dovrebbero considerare la Libia come un partner negli sforzi di controllo sulla migrazione fino a quando questa non abbia formalmente ratificato la Convenzione relativa allo Status dei Rifugiati del 1951 e il suo Protocollo del 1967, adottato una legge nazionale sull’asilo, riconosciuto formalmente l’Unhcr, e fino a che il trattamento e le condizioni detentive dei migranti non siano conformi agli standard internazionali. L’Ue dovrebbe far sì che la clausola sui diritti umani nel prossimo accordo quadro tra Ue e Libia, così come qualunque altro accordo da esso derivante, faccia riferimento esplicito ai diritti dei richiedenti asilo e dei migranti come prerequisito per qualsiasi cooperazione nei piani di controllo sulla migrazione.

Gli stati membri dell’Ue dovrebbero rispondere positivamente e con celerità alle richieste dell’Unhcr di ammettere rifugiati in Libia, ma né gli stati membri né l’Ue nella sua interezza dovrebbero intraprendere alcun progetto che preveda il rinvio di richiedenti asilo in Libia per l’esame della loro domanda, o fare altrimenti della Libia un deposito di individui in cerca d’asilo nell’Unione Europea.

II.  Raccomandazioni

Al governo della Libia

Riguardo la fine degli abusi sui migranti:

  • Condurre indagini sulle accuse di abusi sui migranti da parte della polizia e delle guardie all’interno delle strutture di detenzione, ed avviare procedimenti legali verso i funzionari ritenuti responsabili degli abusi sia dentro che fuori le strutture di detenzione.
  • Assicurarsi che tutte le accuse di abusi sessuali siano indagate a fondo e che le donne siano incoraggiate a denunciare tali abusi. Assicurarsi che ci sia un numero sufficiente di funzionari di sesso femminile appositamente addestrato a ricevere tali denunce.
  • Arrestare e processare i trafficanti che detengono, ricattano e commettono abusi sui migranti e assicurare una solida protezione per coloro che testimoniano contro di essi. Indagare e processare i funzionari delle forze dell’ordine libiche che intrattengono relazioni illecite con i trafficanti e che commettono reati contro i migranti, comprese le richieste di tangenti.

Riguardo il miglioramento delle condizioni detentive dei migranti:

  • Cessare la detenzione arbitraria di migranti, richiedenti asilo e i rifugiati. Effettuare una detenzione amministrativa per il solo tempo necessario allo svolgimento delle pratiche di allontanamento. Non privarli della loro libertà se non in presenza di requisiti minimi quali: un ordine legittimo, un’informazione chiara e tempestiva in una lingua a loro comprensibile riguardo alle motivazioni del loro arresto e della loro detenzione, il giudizio di un tribunale o di un’autorità indipendente sulla necessità di detenerli, un controllo periodico sull’effettiva necessità di prolungare la detenzione. Fornire ai detenuti accesso ad assistenza legale e interpreti.
  • Migliorare le condizioni di tutte le strutture di detenzione dei migranti, alleviare le condizioni di sovraffollamento e assicurare cibo, adeguate condizioni igieniche e assistenza sanitaria. Proteggere le donne e i bambini all’interno di queste strutture preservandone l’unità familiare. Detenere bambini solo come ultima alternativa e per il minor tempo possibile. Astenersi dal detenere bambini migranti non accompagnati insieme ad adulti. Non detenere migranti insieme a criminali o rei sospetti.
  • Stabilire meccanismi efficaci e accessibili attraverso i quali i detenuti e altri cittadini stranieri sotto espulsione possano impugnare la loro detenzione ed espulsione sulla base dei diritti umani e dell’immigrazione. Fino all’introduzione di tali meccanismi e finché le condizioni in cui avvengono le detenzioni e le espulsioni non sono conformi ai parametri internazionali dei diritti umani, sospendere tutte le attività di deportazione ed espulsione.

Riguardo la protezione dei rifugiati:

  • Ratificare la Convenzione relativa allo Status dei Rifugiati del 1951 e il suo Protocollo del 1967 e varare la legge sull’asilo in lavorazione da diversi anni, istituire una procedura di asilo equa e legittima in conformità con gli standard e gli obblighi internazionali, in particolare con l’inclusione in una legge nazionale di una proibizione assoluta del refoulement.
  • In conformità agli obblighi che la Libia ha in quanto stato parte della Convenzione che regola gli aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa della Oua (ora Ua) e della Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli del 1981, rispettare in particolare la garanzia della Convenzione dell’Ua che “nessun rifugiato debba essere rimpatriato contro la sua volontà” e l’assicurazione della Carta Africana che ogni individuo ha diritto a cercare asilo.
  • Riconoscere formalmente l’Unhcr e sostenere i suoi sforzi nel fornire protezione a livello internazionale a rifugiati, richiedenti asilo ed altri soggetti interessati in territorio libico. In particolare, concedere all’Unhcr accesso pieno e incontrastato a tutti i luoghi dove sono detenuti cittadini stranieri, incluso il diritto di effettuare interviste in condizioni di riservatezza.

Al governo dell’Italia

  • Terminare immediatamente l’intercettazione e il rinvio sommario di migranti su barconi in Libia.
  • Indagare sulle accuse secondo cui l’equipaggio della Marina italiana ha fatto uso di percosse e scariche elettriche per obbligare i migranti a salire su imbarcazioni libiche, e processare i funzionari della Marina o della Guardia costiera che hanno abusato della propria autorità, compresi quelli con ruoli di comando.
  • Smettere di collaborare con le autorità libiche nell’intercettare e interdire cittadini di paesi terzi che cercano di lasciare la Libia.
  • Rendere pubblici tutti i trattati e gli accordi tra il governo italiano e quello libico.
  • Cessare il finanziamento o altro tipo di sostegno bilaterale alla Libia inteso a migliorare l’efficacia di quel paese nell’intercettare richiedenti asilo e migranti prima che questi prendano il largo o raggiungano le acque italiane. Reindirizzare tale sostegno verso sforzi multilaterali, in particolare tramite l’Unhcr e l’Ohchr, per assicurarsi che in Libia vengano osservati gli standard dei diritti umani fondamentali nel trattamento di tali persone.
  • Assicurare accesso a procedure d’asilo eque e complete, compreso il diritto di eccepire la paura di trattamento contrario all’articolo 3 della Cedu, per ciascuna persona sotto il controllo delle autorità italiane, compresi coloro che vengono intercettati o soccorsi in mare.

Alle Istituzioni dell’Unione europea e agli stati membri dell’Ue

  • Esigere che l’Italia non violi l’articolo 3 della Cedu nelle fasi di intercettamento e di rinvio dei migranti in luoghi in cui sono soggetti a trattamento disumano e degradante.
  • Assicurare accesso a procedure d’asilo eque e complete, compreso il diritto di eccepire la paura di trattamento contrario all’articolo 3 della Cedu, per ciascuna persona sotto il controllo di qualsiasi stato membro dell’Ue, compresi coloro che vengono intercettati o soccorsi in mare.
  • Adottare regole chiare, coerenti e vincolanti per tutti gli stati membri dell’Ue che fissino responsabilità per le procedure di sbarco di migranti soccorsi in mare.
  • Astenersi dall’espellere cittadini di paesi terzi (non libici) in Libia, sia in forma diretta sia in quanto parte di operazioni coordinate da Frontex, fintantoché il trattamento della Libia di migranti, richiedenti asilo e rifugiati non rispetti in pieno gli standard europei relativi a persecuzione o rischio di trattamenti in contrasto all’articolo 3 della Cedu. In base alle attuali condizioni, il rinvio di cittadini di paesi terzi viola l’obbligo europeo di nonrefoulement  in base al quale nessuno può essere rinviato verso luoghi in cui potrebbe ricevere un trattamento inumano o degradante.
  • Incoraggiare la Libia a: 1) ratificare la Convenzione relativa allo Status dei Rifugiati e il suo Protocollo del 1967; 2) adottare una legge nazionale sull’asilo e 3) riconoscere formalmente l’Unhcr.
  • Esibire maggiore trasparenza nei negoziati con la Libia su tutte le questioni concernenti la migrazione e i controlli di frontiera.
  • Far sì che la clausola sui diritti umani nel prossimo accordo quadro tra Ue e Libia, oggetto di trattative al momento della scrittura del presente rapporto, così come qualunque altro accordo da esso derivante, faccia riferimento esplicito ai diritti dei richiedenti asilo e dei migranti come prerequisito per qualsiasi cooperazione nei piani di controllo sulla migrazione.
  • Astenersi dall’incoraggiare la Libia ad istituire qualunque regime di ricezione dei migranti che sia al di sotto degli standard europei delle condizioni di ricezione.
  • Accettare rapidamente i rifugiati riconosciuti dall’Unhcr bisognosi di una risistemazione fuori dalla Libia. Ciò va fatto, tuttavia, in aggiunta e non in alternativa al far entrare spontaneamente richiedenti asilo nel territorio dell’Ue.
  • Orientare l’assistenza allo sviluppo verso un migliore rispetto dei diritti umani e della dignità umana nei Paesi d’origine di migranti e richiedenti asilo, allo scopo di affrontare le cause ultime della migrazione forzata.

Al Consiglio d’amministrazione di Frontex

  • Assicurarsi che il piano multi annuale 2010-2013 non avalli una cooperazione con paesi terzi che potrebbe portare a respingimenti in luoghi dove si rischia soggezione a persecuzione o a trattamenti degradanti e inumani. Riesaminare tutti i piani operativi che includano operazioni congiunte per assicurarsi che proibiscano specificatamente il refoulement.
  • Disporre che tutto l’addestramento impartito da Frontex a forze dell’ordine di frontiera e di migrazione comprenda il diritto internazionale dei rifugiati, in collaborazione con l’Unchr.

All’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati (Unhcr)

  • Continuare a contestare l’allontamento sommario di migranti verso Libia compiuto dall’Italia.
  • Potenziare la capacità di assunzione dell’Unhcr in modo da metterla nelle condizioni di visitare regolarmente tutti i centri di detenzione, compresi quelli di Kufra e di altre zone remote, così come altre strutture dove i potenziali rifugiati e richiedenti asilo vengono tenuti.
  • Continuare a esprimere forte disapprovazione ogni qualvolta l’Unhcr rilevi che la Libia stia violando, o sia in procinto di violare, il suo obbligo di non refoulement.

III. Metodologia e campo d’indagine

Human Rights Watch ha condotto ricerche in Libia per questo rapporto dal 22 al 30 Aprile 2009; a Malta dal 30 aprile al 5 maggio 2009; in Sicilia dal 24 al 30 ottobre 2008 e dal 5 al 13 maggio 2009; a Lampedusa dal 13 al 15 maggio; e a Roma dal 16 al 21 maggio 2009. Abbiamo condotto 92 interviste con migranti, rifugiati, e richiedenti asilo, 48 delle quali hanno avuto luogo a Malta e 43 in Italia, ed una in Libia per telefono. Non ci è stato permesso di intervistare rifugiati, migranti o richiedenti asilo in Libia.

Human Rights Watch ha intervistato 29 Eritrei, 23 Somali, 13 Nigeriani e 27  individui di altre nazionalità compresi, tra gli altri, Ghanesi, Sudanesi, Tunisini, Marocchini e Gambiani. Gli intervistati, generalmente, erano giovani e di sesso maschile, prevalentemente in viaggio da soli e non all’interno di gruppi famigliari. La maggior parte di loro, 59 persone, aveva tra i 20 e i 30 anni. Vi erano 13 giovani sotto i 20 anni, di cui 4 minorenni non accompagnati. Vi erano 13 individui tra i 30 e i 40 anni, sei tra i 40 e i 50, ed un individuo tra i 50 e i 60 anni.

Solo sei degli intervistati erano donne; la presenza maschile era ben più diffusa ed evidente nel gruppo di migranti e richiedenti asilo che abbiamo visto, anche nei centri di detenzione, e le donne erano più riluttanti a farsi intervistare. Un’intervistatrice di Human Rights Watch ha condotto interviste di gruppo con quattro gruppi di donne: un gruppo raccoglieva donne delle più svariate nazionalità nel braccio B della caserma di Safi a Malta, un secondo gruppo era composto da famiglie che vivevano in un palazzo del centro aperto di Hal Far a Malta, il terzo, un gruppo di Nigeriane in un rifugio di Agrigento,  e il quarto, un gruppo di donne nel centro per richiedenti asilo di Caltanissetta.

Nonostante ripetute richieste durante la nostra visita, non ci è stato dato di visitare alcun centro di detenzione per migranti in Libia. Siamo stati in grado di incontrare alti funzionari dei ministeri degli interni e della giustizia, e funzionari di medio rango del ministero degli esteri. Abbiamo avuto modo di discutere la situazione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo sia con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) che con l’Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) in Libia, così come in Italia.

A Malta abbiamo avuto accesso a tutti i centri in cui sono detenuti i migranti: a Ta’kandja, sia nel centro vecchio che in quello nuovo, al centro aperto di Hal Far, al ricovero per minorenni non accompagnati di Daril-Liedna (che era vuoto all’epoca della nostra visita), il centro aperto di Marsa, le caserme di Safi (bracci B e C, magazzini I e II), e la caserma Lyster. Tutte le interviste a Malta sono state condotte in completa riservatezza, comprese quelle svoltesi nei centri di detenzione. Human Rights Watch ha selezionato soggetti per le interviste individuali durante le visite ai centri di detenzione e di alloggio chiedendo ai migranti di farsi avanti qualora fossero stati detenuti in Libia. Alcuni, tra i quindici migranti e richiedenti asilo intervistati al di fuori dei centri di detenzione e d’alloggio, sono stati identificati con l’aiuto di assistenti sociali e legali del luogo, ma anch’essi sono stati intervistati in condizioni di completa riservatezza e confidenzialità. A Malta, abbiamo incontrato personale e guardiani dei centri di detenzione. Abbiamo anche incontrato rappresentanti del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati e Medici Senza Frontiere.

In Italia abbiamo avuto accesso ai tre centri di detenzione e accoglienza di Caltanissetta, ai due centri di detenzione e accoglienza di Trapani, e ai due centri di detenzione e accoglienza di Lampedusa. Sebbene ci sia stato permesso di intervistare i detenuti di Lampedusa in privato, il tempo concessoci era limitato, per cui siamo stati in grado di intervistare solo quattro persone, il che non è stato sufficiente per ottenere una comprensione adeguata delle condizioni del centro. A causa del tempo limitato a nostra disposizione, non siamo stati in grado di condurre interviste individuali nel centro di detenzione di Trapani, pur avendo fatto un giro della struttura, e avendo parlato a livello informale con i detenuti in presenza dei guardiani e con gli amministratori della struttura. A Roma, nonostante le nostre richieste scritte settimane prima della visita e reiterate richieste fino al momento della stessa, non abbiamo potuto incontrare funzionari del ministero degli interni o degli esteri.

Le interviste individuali, in media, sono durate 45 minuti, ed alcune ben più di un’ora. In alcuni casi, Human Rights Watch ha selezionato i soggetti per le interviste individuali nei centri di detenzione e accoglienza tra coloro che manifestavano desiderio di essere intervistati dopo una nostra presentazione introduttiva. In altre occasioni, Human Rights Watch ha scelto i detenuti casualmente. Fuori dei centri, i servizi d’assistenza locali hanno contribuito ad individuare i soggetti da intervistare.

In tutti i casi, Human Rights Watch ha detto a tutti gli intervistati che non avrebbero ricevuto alcun servizio o vantaggio in cambio delle loro testimonianze e che le interviste erano completamente volontarie e confidenziali. Tutti i nomi dei migranti, rifugiati, o richiedenti asilo intervistati sono stati omessi per la loro protezione e quella delle loro famiglie. La notazione usata nel presente rapporto utilizza una lettera ed un numero per ciascuna intervista; la lettera indica la persona che ha condotto l’intervista e il numero si riferisce alla persona intervistata. Tutte le interviste sono nell’archivio di Human Rights Watch.

IV. Terminologia

I termini che vengono scelti per identificare quanti si trovano nell’atto di migrare, così come coloro con cui spesso entrano in contatto, raramente sono neutrali e inoppugnabili. Alcuni termini, come rifugiato, hanno un significato chiaro nell’ambito del diritto internazionale, ma altri termini non ce l’hanno, o le loro definizioni difficilmente sono aderenti alla realtà sul campo dove i flussi di persone sono spesso definiti come “misti”.

Migranti

Ai fini del presente rapporto, il termine migrante descriverà l’ampio insieme di individui in viaggio verso la Libia, o attraverso di essa, o che sono passeggeri di barconi che attraversano irregolarmente il Mediterraneo. Il termine viene inteso in modo più inclusivo che esclusivo. In altre parole, che qualcuno sia definito migrante nel presente rapporto non esclude la possibilità che egli o ella sia un richiedente asilo o un rifugiato. Un rifugiato, come definito dalla Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951, è un individuo che teme “a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche” che si trova fuori dal suo Paese e non può o non vuole, a causa di tale timore, ritornarvi.[1] Un richiedente asilo è un individuo in cerca di protezione e che, in quanto tale, sta cercando di farsi riconoscere come rifugiato o di far valere una pretesa di protezione fondata su altre motivazioni.

Sebbene il diritto internazionale definisca i lavoratori migranti, non definisce i migranti di per sé.[2] Nel contesto di tale rapporto, migrante è semplicemente il termine più ampio ed inclusivo per descrivere cittadini di Paesi terzi che entrino, risiedano, o partano dalla Libia. Comprende il sottogruppo di richiedenti asilo in cerca di protezione al di fuori della Libia (la Libia stessa, fino ad ora, non ha una legislazione sui rifugiati, e non concede asilo) così come il sottogruppo più ristretto di individui che sono già rifugiati. I rifugiati, vale la pena ricordarlo, sono persone la cui situazione corrisponde alla definizione del termine al di là del fatto che si sia verificato o meno un riconoscimento formale di tale status. 

Trafficanti

Il diritto internazionale distingue tra traffickers  e smugglers. Il Protocollo per prevenire, sopprimere, e punire il traffico di persone, specialmente donne e bambini, definisce come “tratta di persone” (trafficking) il reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare o accogliere persone tramite “l’impiego o la minaccia d’impiego della forza o di altre forme di coercizione (...) o tramite il dare o il ricevere somme di danaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento.”[3]

Diversamente, il Protocollo per combattere il traffico di migranti per via terrestre, aerea e marittima definisce come “traffico di migranti” (smuggling) il procurare “un vantaggio finanziario o materiale” al fine di ricavare l’ingresso illegale di una persona.[4] Tuttavia, la distinzione si confonde in Libia così come la distinzione tra criminali coinvolti nell’immigrazione illegale e la polizia investita del compito di far rispettare la legge.

Se da una parte quasi tutti i migranti privi di documenti sono soggetti all’impiego o alla minaccia d’impiego della forza da parte degli individui che li trasportano, non è chiaro che essi subiscano generalmente forme di coercizione finalizzate allo sfruttamento, così come definite nel Protocollo per prevenire, sopprimere, e punire il traffico di persone, quali la prostituzione, altre forme di sfruttamento sessuale o lavoro forzato.[5] Non essendo chiaro se i criminali coinvolti nel trasporto di migranti verso la Libia, o attraverso o via da tale Paese, rispondano coerentemente alla definizione di trafficker, Human Rights Watch farà uso del termine trafficante (smuggler) nel riferirsi a tali individui. Nel citare direttamente i migranti, useremo i termini usati da essi o dai loro interpreti, anche qualora fossero tecnicamente scorretti.

V. “Amicizia” italo-libica e il rinvio di barconi di migranti in Libia

Nel settembre 2006, Human Rights Watch ha pubblicato il rapporto “Libia - Arginare i flussi: gli abusi contro migranti, richiedenti asilo e rifugiati”.[6]

Il presente rapporto potrebbe avere lo stesso titolo con una sola modifica: il nome dell’Italia dovrebbe apparire accanto a quello della Libia.

Il 6 maggio 2009 l’Italia ha cominciato ad intercettare unilateralmente migranti in alto mare su barconi, rinviandoli sommariamente in Libia.[7] Una settimana dopo, Libia e Italia hanno annunciato l’avvio di pattugliamenti navali congiunti nelle acque territoriali libiche, nonostante non fosse chiaro se e come funzionassero. Il 14 maggio 2009, nel corso della cerimonia d’inaugurazione di questi pattugliamenti, il comandante della Guardia di Finanza,[8] Cosimo D’Arrigo, ha detto che le navi “saranno usate in pattugliamenti congiunti in acque territoriali libiche ed acque internazionali in congiunzione con operazioni navali italiane”.[9] Ha aggiunto che “membri della guardia costiera libica verranno anche stazionati presso la nostra base operativa sull'isola di Lampedusa e prenderanno parte ai pattugliamenti sulle nostre navi”.[10] È previsto che la missione di pattugliamento congiunta tra Italia e Libia avrà una durata iniziale di tre anni.[11]

Nella prima settimana dall’inizio del programma di intercettamento, circa 500 migranti sono stati rinviati sommariamente in Libia provocando una drastica riduzione del numero di barconi che si apprestavano a tentare il viaggio dalla Libia.[12] Nel corso delle otto settimane successive, solo 400 migranti sono stati intercettati e rinviati.[13] Il numero di migranti irregolari diretti in Sicilia (Lampedusa compresa) e Sardegna è calato del 55 percento nei primi sei mesi del 2009 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.[14] I centri di detenzione per migranti di Lampedusa, la minuscola isola situata appena al di là della costa nord africana, raffigurano con nettezza questo calo: nel gennaio 2009 erano sovraffollati, con oltre 2000 persone, e i migranti dormivano sul pavimento.[15] Per un periodo, all’inizio di giugno, non c’erano più migranti nei centri di detenzione di Lampedusa.[16]

Per quale motivo il numero di migranti che tentano il viaggio attraverso Mediterraneo sia calato in modo così drastico è oggetto di speculazione. Sicuramente il nuovo cordone navale è stato un forte deterrente per le partenze dei barconi, poiché imbarcarsi per un viaggio pericoloso è un rischio da correre solo se vi è qualche possibilità di riuscita.[17] Ma il calo delle partenze potrebbe essere anche frutto di maggiori sforzi tesi ad impedirle da parte delle autorità libiche.

L’incentivo che porta Muammar Gheddafi, il leader libico, ad arginare il flusso di migranti, è una ritrovata partnership con l’Italia. Dopo circa un decennio di negoziati, l’Italia e la Libia hanno firmato, il 30 agosto del 2008, il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la Grande Giamahiria araba libica popolare socialista (il ‘Patto d’amicizia’).[18]Il vero vantaggio che la Libia ricava dalla collaborazione nel fermare l’ immigrazione irregolare sembrano essere gli investimenti italiani in Libia: Il Patto d’amicizia stabilisce, infatti, un risarcimento di 5 miliardi di dollari di riparazione per i danni inflitti alla Libia da parte dell'Italia durante il periodo coloniale (dal 1911 al 1943). I soldi saranno investiti dall’Italia, nell’arco di 25 anni, in progetti infrastrutturali, per un importo annuale di 200 milioni di dollari.[19]

Il Patto d’amicizia sollecita una “intensificazione” della collaborazione “nella lotta al terrorismo, alla criminalità organizzata, al traffico di stupefacenti e all'immigrazione clandestina”.[20] Le due parti si accordano per rafforzare il sistema di controllo di frontiera per i confini di terra libici (Il 50% finanziato dall’Italia, il restante 50% da richiedere all'Unione Europea), e di avvalersi di società italiane a questo scopo.[21]

Sia l’Italia che la Libia sono incentivate ad arginare il flusso di migrazione irregolare. In Libia, i cittadini stranieri rappresentano il 10,5 percento della popolazione di 58 milioni,[22] e nel 2004 l’87 percento dei 536.000 cittadini stranieri risiedenti nel paese era privo documenti.[23]Nonostante per molti anni Gheddafi abbia accolto in Libia gli abitanti dell’Africa Sub-Sahariana in nome della solidarietà pan-africana, al giorno d’oggi le autorità libiche sembrano percepire l’afflusso proveniente da sud più come una minaccia. Il Segretario degli Affari Esteri, Moussa Kusa ha dichiarato che il “vero problema in Libia in tema d'immigrazione illegale” sono i 4.000 km “incontrollabili” di frontiera al sud.[24]

Il numero di migranti irregolari che arrivano in Italia su barconi dal Nord Africa è passato da 19.900 nel 2007 a 36.000 nel 2008, con un incremento del dell’89,4 percento.[25] L'Italia ha inoltre ricevuto 31.164 nuove richieste di asilo nel 2008, con un incremento del 122 percento rispetto alle 14.053 richieste del 2007.[26] Nel 2008 l’Italia si collocava come quarto paese ospitante con il più alto numero di rifugiati nel mondo industrializzato, preceduta solo da Stati Uniti, Canada e Francia.[27]

Il primo ministro italiano, Silvio Berlusconi, che riceve parte del suo appoggio politico da alcuni partiti anti-immigrazione, ha sfruttato politicamente la questione dei migranti irregolari a proprio vantaggio e per contrastare l’idea che l’Italia sia una società multietnica e multiculturale.[28] “L’idea della sinistra” ha dichiarato “è quella di un’Italia multietnica. La nostra idea non è così”.[29]Berlusconi ha anche detto: “Noi vogliamo un'Italia che non diventi un paese plurietnico, pluriculturale, siamo fieri della nostra cultura e delle nostre tradizioni.”[30]

 

VI.  L’intercettamento e il principio di nonrefoulement

Quando il primo ministro Berlusconi dichiarò di non aderire all’idea che l’Italia fosse o dovesse essere uno stato multietnico, riconobbe un’eccezione per i rifugiati a rischio di persecuzione. Puntualizzò, tuttavia, di considerare tale eccezione solo come un’eventualità remota, quasi teorica. Disse: “Su questi barconi, come dicono le statistiche, persone che hanno il diritto d’asilo non ce ne è praticamente nessuna. Solo casi eccezionalissimi.”[31]

Di fatto, il 75 percento di coloro che sono arrivati in Italia via mare ha fatto richiesta d’asilo nel 2008, e al 50 percento di questi è stata concessa qualche forma di protezione.[32]

Berlusconi ha affermato che i casi d’asilo eccezionali sarebbero limitati a coloro i quali l’Italia è tenuta a non respingere dal diritto internazionale. L’obbligo, secondo Berlusconi, “è di accogliere solo quei cittadini che sono nelle condizioni per chiedere l’asilo politico e che dobbiamo accogliere qui come dicono gli accordi e i trattati internazionali” e cioè “coloro che mettono piede sul nostro suolo, intendendo come piede sul nostro suolo anche le entrate nelle acque territoriali.”[33]

La lettura di Berlusconi degli obblighi legali dell’Italia circa il principio di nonrefoulement è scorretta. La Convenzione sui Rifugiati del 1951,[34] di cui l’Italia è stato parte,[35] stabilisce che uno stato contraente non possa respingere “in nessun modo” un individuo verso le frontiere dei luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche.[36] La nozione per cui l’Italia possa inviare la Marina o la guardia costiera in alto mare, per impedire l’entrata a dei potenziali rifugiati e rinviarli con la forza, capovolge il senso della Convenzione sui Rifugiati. Il suo obiettivo è quello di proteggere i rifugiati dal respingimento verso la persecuzione; la sua lettera impone agli Stati di non “respingere”. La Convenzione non distingue (né affronta il problema) da dove vengano respinti i rifugiati. A destare preoccupazione è dove essi vengano respinti.

Berlusconi sostiene che l’obbligo di nonrefoulement non si applichi in alto mare. L’Alto Commissariato per i Rifugiati dell’Onu (Unhcr),[37] il suo Comitato esecutivo,[38] la Commissione Interamericana sui Diritti Umani,[39] così come certa dottrina e organizzazioni non governative (Ong),[40] hanno ritenuto che l’obbligo di nonrefoulement non è limitato dai confini territoriali e che la Convenzione sui Rifugiati proibisca agli Stati di respingere dei rifugiati via dai propri territori verso la persecuzione.[41]

L’Unhcr, unitamente ad un ampio insieme di altre fonti legali, ha chiarito che il principio di nonrefoulement si applica ovunque uno stato eserciti controllo o giurisdizione, anche in altro mare o nel territorio di un altro stato.  Nel fissare una cornice internazionale sull’intercettamento di richiedenti asilo e rifugiati, l’agenzia Onu per i rifugiati ha dichiarato:

Il principio di non-refoulment non implica alcuna limitazione geografica. Secondo l’Unhcr, gli obblighi da esso risultanti si estendono a tutti gli agenti del governo che agiscano in veste ufficiale, dentro o fuori dal territorio nazionale. Data la pratica degli Stati di intercettare persone a grande distanza dal proprio territorio, il regime internazionale di protezione del rifugiato verrebbe reso inefficace se gli agenti dello Stato fossero liberi di agire in disaccordo con gli obblighi imposti dal diritto internazionale dei rifugiati e dai diritti umani.[42]

Per l’Unhcr non si tratta di un principio astratto. Dopo aver intervistato 82 individui respinti forzatamente verso la Libia dalla Marina italiana il 1° luglio, l’Unhcr ha rilasciato un comunicato in cui ha espresso “forte preoccupazione” che la politica dell’Italia, “in assenza di adeguate garanzie, impedisce l’accesso all’asilo e mina il principio internazionale del nonrefoulement”.[43]

L’Unhcr ha affermato che nel gruppo di 82 persone vi erano 76 Eritrei, ma che la Marina italiana non ha fatto alcuno sforzo per stabilire le nazionalità delle persone coinvolte né le motivazioni che le hanno spinte a fuggire dai propri Paesi. L’agenzia per i rifugiati ha anche affermato che nel gruppo vi erano nove donne e almeno sei bambini. Pur avendo passato quattro giorni in mare, gli Italiani non hanno offerto cibo ai migranti durante l’operazione di intercettamento e respingimento durata 12 ore. I funzionari italiani hanno anche confiscato gli effetti personali dei migranti, compresi soldi, telefoni cellulari, passaporti, e certificati di riconoscimento dello status di rifugiato.[44] Tutti i migranti sono stati arrestati al loro arrivo.[45]

L’Unhcr ha anche riportato di aver raccolto “resoconti sconcertanti” sull’uso della forza, da parte della Marina italiana, nel trasferimento dei migranti dalla nave italiana all’imbarcazione libica, e su come questo abbia comportato il ricovero di sei persone.[46] Human Rights Watch ha appreso da un’altra fonte che l’equipaggio della Marina italiana ha usato manganelli elettrici e mazze per cacciare i migranti dalla nave e che alcuni passeggeri hanno avuto bisogno di punti di sutura in testa addirittura prima di lasciare la nave italiana.[47]

L’obbligo di nonrefoulement vale non solo nell’ambito del diritto internazionale dei rifugiati, ma anche nel diritto internazionale dei diritti umani, il  quale impone che nessuno venga inviato in posti dove si troverebbe nel rischio reale di essere soggetto a tortura o trattamento crudele, inumano, o degradante (compreso il rischio di essere inviato verso un Paese terzo). Ciò è esplicitamente inteso nell’articolo 3 della Convenzione contro la Tortura.[48] La giurisprudenza ha anche chiarito che gli Stati sono tenuti dall’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu)[49] e dall’articolo 7.1 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (Pidcp) a rispettare il principio di nonrefoulement.[50] Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha chiarito che la Cedu si applica alle azioni di uno Stato membro in acque internazionali.[51] Nel 2004, il Comitato per i Diritti Umani, l’organismo responsabile per la vigilanza sull’attuazione del Pidcp, ha rilasciato il commento 31, per chiarire che sotto il Patto la responsabilità attiene a qualunque situazione in cui lo Stato parte eserciti controllo effettivo:

Gli Stati parte sono tenuti dall’articolo 2, paragrafo 1, a rispettare ed assicurare i diritti del Patto a tutti gli individui che possano essere entro il territorio e a tutti gli individui soggetti alla loro giurisdizione. Questo significa che uno Stato parte deve rispettare ed assicurare i diritti stabiliti nel Patto a chiunque si trovi sotto la giurisdizione o l’effettivo controllo dello Stato parte, anche quando non si trovi all’interno del territorio dello Stato parte.[52]

VII.  L’approccio dell’Unione europea verso la Libia

A lungo l’Ue ha considerato la Libia come uno stato emarginato e con il quale fosse impossibile cooperare. Difatti, tra 1992 e l’ottobre del 2004 l’Europa ha imposto alla Libia sanzioni economiche e un embargo sulle armi. Ciononostante, il giorno stesso in cui ha revocato le sanzioni, il Consiglio dell’Unione europea ha acconsentito a coinvolgere la Libia su questioni migratorie.[53] Vi inviò una missione tecnica tra il novembre e il dicembre del 2004 “per esaminare piani per combattere l’immigrazione illegale”.[54]

Nel giugno del 2005, il Consiglio Giustizia e Affari Interni dell’Ue adottò una conclusione sulla cooperazione con la Libia su questioni migratorie, che includeva il rafforzamento “della cooperazione operativa sistematica tra i rispettivi servizi nazionali responsabili dei confini marittimi,” e lo sviluppo di operazioni comuni nel Mar Mediterraneo implicanti lo spiegamento temporaneo di imbarcazioni e velivoli di stati membri dell’Ue.[55] Le misure ad hoc prevedevano anche l’invio di ufficiali di collegamento per l’immigrazione in porti libici e all’aeroporto di Tripoli a fini d’intercettamento.[56] L’Ue si impegnava a formare funzionari libici sui controlli all’immigrazione e sulle “migliori pratiche” per l’allontanamento di immigrati illegali.[57]

La conclusione del Consiglio sollecitava anche delle discussioni esplorative con la Libia per “affrontare l’immigrazione illegale in aree come formazione, rafforzamento delle istituzioni, questioni d’asilo, e pubblica consapevolezza dei pericoli della migrazione illegale”.[58] Tra i suggerimenti elencati per tali discussioni vi erano l’assistenza al rimpatrio di individui cui era stata rifiutata la richiesta d’asilo “a seguito di una procedura d’asilo indipendente in conformità agli standard internazionali”, e una maggiore cooperazione e potenziamento nella “gestione della migrazione e protezione dei rifugiati” in cooperazione con l’Unhcr.[59]

Nel luglio del 2007, Benita Ferrero-Waldner, Commissario europeo per le Relazioni Esterne e la Politica Europea di Vicinato, e il ministro libico per gli Affari europei Adbulati Elobeidi, hanno firmato un memorandum d’intesa che evidenziava l’immigrazione come area di interesse comune.[60] L’anno dopo, la Commissione europea e la Libia hanno lanciato dei negoziati per un vasto accordo (l’accordo quadro Ue-Libia) che sollecitava dialogo politico e cooperazione in politica estera, questioni di sicurezza e migrazione.

Nel luglio 2009 Jacques Barrot, il vicepresidente della Commissione europea per la Giustizia, la Libertà e la Sicurezza, ha detto che l’Ue avrebbe presentato un pacchetto di 80 milioni di euro nel corso della visita in Libia prevista per il settembre 2009, del quale 20 milioni sarebbero stati destinati alla costruzione di centri d’alloggio per richiedenti asilo e 60 milioni per progetti di gestione della migrazione sulla frontiera meridionale della Libia.[61] A quanto pare, Gheddafi sta ancora insistendo su un pacchetto di €300 milioni dall’Ue per combattere flussi migratori irregolari in Libia.[62] Al momento della stesura di questo rapporto, l’accordo quadro Ue-Libia è ancora oggetto di negoziati.[63]

L’outsourcing della politica di migrazione e asilo dell’Ue

Il 27 maggio 2009, dopo l’inaugurazione delle operazioni navali congiunte italo-libiche, Barrot ha inviato una lettera al presidente del Consiglio europeo sollecitando un approccio comunitario doppio su asilo e protezione umanitaria. Sul fronte interno, suggeriva uno “sforzo volontario” tra gli stati membri dell’Unione per una “risistemazione di persone sotto protezione internazionale.”[64] Sul fronte esterno proponeva:

La costituzione di relazioni tra l’Unhcr e la Libia in previsione della creazione in Libia di un piano per la ricezione e la protezione di richiedenti asilo che soddisfi i più alti standard internazionali. In particolare, il piano renderebbe possibile la determinazione dello status degli individui rinviati in Libia, ai quali potrebbe essere poi offerta una risistemazione.[65]

In una fase in cui l’Unhcr, il Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammerberg,[66] nonché diverse Ong, tra cui Human Rights Watch,[67] criticavano l’Italia per burlarsi del diritto internazionale e degli standard europei, neanche uno stato membro dell’Ue criticava l’Italia pubblicamente.[68]  Barrot ha finito per esprimere preoccupazione per i respingimenti, dicendo che non erano “la risposta” ed indicando che “i soccoritori, compresa Frontex, possono salvare ma non possono negare l’entrata.”[69] Ma la sua proposta ravviva un concetto, profondamente sbagliato, consistente nel portare all’esterno le procedure dell’Ue per i rifugiati e tale da sostituire, con un piano volontario e discrezionale, standard e procedure d’asilo legalmente applicabili su suolo europeo. Essenzialmente, si tratta della stessa proposta che, a fasi alterne, è circolata nel dibattito dell’Ue per più di vent’anni.[70]

All’inizio della guerra in Iraq, nel 2003, il primo ministro britannico Tony Blair propose l’idea di “centri di smistamento” in paesi extra-comunitari ai quali gli stati membri dell’Unione avrebbero rinviato i richiedenti asilo e dove l’Unhcr avrebbe esaminato le loro domande di riconoscimento di status di rifugiato.[71] Un summit dell’Ue del giugno 2003 sollecitava la Commissione perché riferisse, entro un anno, su misure “per un’entrata nell’Ue più ordinata e meglio organizzata di persone bisognose di protezione internazionale”.[72] Un anno dopo, la Commissione rifiutò di definire una procedura dell’Ue per regolare l’entrata di richiedenti asilo, ma promosse l’idea di un programma di risistemazione di rifugiati che coinvolgesse l’Unhcr.[73] In una riunione in Olanda dei ministri dell’interno dell’ottobre 2004, i ministri si divisero sulla proposta di Blair.[74] Nel dicembre di quell’anno, il Comitato sulle Libertà Civili, Giustizia e Affari Interni del parlamento europeo votò contro l’idea di una soluzione “offshore” alle responsabilità sui i richiedenti asilo.[75] Nel frattempo, nessun governo nord africano si era offerto di mettere a disposizione degli spazi per i futuri centri di accoglienza dell’Ue. Già nel gennaio del 2005, i ministri dell’interno ammettevano, in un incontro a Lussemburgo, che l’idea era ormai decaduta.[76]

Ciò che è particolarmente degno di nota non è tanto l’idea in sé, quanto il tempismo della lettera di Barrot, in un momento storico in cui uno stato europeo, per la prima volta, infrangeva apertamente il suo obbilgo di nonrefoulement stabilito, tra l’altro, sia dalla Convenzione sui Rifugiati che dalla Convenzione europea sui Diritti dell’Uomo. Persino nella proposta di Blair del 2003 vi era l’avvertenza che i richiedenti, nell’ambito del piano, non avrebbero dovuto essere esposti a un trattamento inumano e degradante. “Sia i centri di transito che le decisioni ivi prese dovrebbero naturalmente conformarsi a tale principio, sia per una scelta politica, che  per evitare ricorsi giudiziari efficaci”, scrisse. La proposta di Barrot della fine di maggio del 2009 è giunta a fronte di rapporti di trattamento inumano e degradante dei respinti in Libia.[77]

La proposta di Barrot di arruolare l’Unhcr in un “piano” per stabilire lo status “degli indivudui rimandati in Libia” ai quali poi “si potrebbe” offrire una risistemazione, accettava l’intercettamento dell’Italia e un regime di rinvio sommario come dati di fatto. La sua proposta rimpiazzerebbe l’attuale sistema d’asilo dell’Ue, che crea doveri vincolanti per gli stati membri, con un piano volontario e discrezionale che potrebbe offrire o non ad individui in Libia, riconosciuti come rifugiati dall’Unhcr, una risistemazione in Europa.

Il risultato inevitabile di un tale piano sarebbe di “depositare” i rifugiati in Libia, supponendo che la Libia avrebbe tollererebbe la loro presenza. I rifugiati sarebbero lasciati in Libia ad aspettare le offerte di risistemazione in Europa oppure, in maniera altrettanto prevedibile, diventerebbero una comunità di troppo, scartata per la risistemazione, pur essendo riconosciuti come rifugiati da parte dell’Unhcr.

Questo problema è evidente nello scarto attualmente presente tra il numero di rifugiati che l’Unhcr ha identificato come bisognosi di risistemazione, ed il numero di posti messi a disposizione da Paesi potenzialmente ospiti. Nel 2008, i Paesi di risistemazione hanno ammesso soltanto la metà dei rifugiati di cui l’Unhcr aveva raccomandato la risistemazione. Di 121.000 rifugiati che l’Unhcr ha presentato per una risistemazione, solo 66.000 sono stati ammessi. Di questi, gli Stati Uniti ne hanno accolti 49.000, mentre gli stati membri dell’Ue solo 4.500.[78] È possibile vedere chiaramente tale deficit nel caso dei rifugiati risistemati dalla Turchia, cui l’Unhcr aveva indirizzato 7.500 rifugiati per risistemazione nel 2008, di cui circa una metà, 3.800, fu accettata. I Paesi dell’Ue hanno accettato solo 200 di tali rifugiati.[79]

Il ruolo di Frontex

Nell’ottobre del 2004 il Consiglio d’Europa ha adottato una risoluzione al fine di creare un’agenzia di coordinamento degli sforzi degli stati membri per la tutela dei confini esterni. L’agenzia, Frontex, è diventata operativa nell’ottobre del 2005 fin da allora e si è ampliata costantemente.[80]

Frontex ha lavorato attivamente per arginare il flusso di barconi di irregolari provenienti dall’Africa e diretti verso l’Ue tramite il coordinamento dei suoi stati membri, ma è stata efficace più nel contenere il numero di arrivi in Spagna che nel ridurre gli arrivi nel Mediterraneo centrale. Con il sostegno di Frontex, gli arrivi dei barconi di irregolari nelle isole Canarie, territorio spagnolo al largo della costa dell’Africa occidentale, sono scesi del 74 percento dal 2006 al 2008.[81] Nel frattempo, in Italia, gli arrivi su barconi sono salito del 64 percento nello stesso periodo.[82] È difficile valutare tutte le variabili nei cambiamenti dei flussi di migrazione irregolare, ma il relatore del Comitato per la Migrazione, Rifugiati e Popolazione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, nel commentare il calo di arrivi in Spagna nel 2007, ha notato che “gli accresciuti controlli marittimi, compresi quelli di Frontex, (...) hanno avuto quasi certamente un impatto, in particolare nei periodi in cui tali operazioni hanno avuto luogo.”[83]

Nel 2008, al largo della costa africana nordoccidentale, Frontex ha portato ufficiali mauritani e senegalesi a bordo di navi degli stati membri dell’Ue nel contesto dell’operazione “Hera”, la quale, nel corso di quell’anno, ha deviato 5.965 migranti indietro verso la costa africana.[84] Frontex sostiene che le deviazioni erano responsabilità dei funzionari mauritani e senegalesi a bordo delle navi.[85]

Nel Mediterraneo centrale, fino al giugno del 2009, Frontex è stata meno efficace nel far cooperare gli stati membri dell’Ue gli uni con gli altri, tanto meno con gli stati nordafricani. Nel 2008, l’operazione “Nautilus” si è concentrata sul flusso migratorio tra il Nord Africa e l’Italia e Malta ma non ha deviato alcun barcone indietro verso il Nord Africa. Tale fallimento veniva attribuito alle “differenze di opinione riguardanti la responsabilità dei migranti salvati in mare.”[86] Nel 2009, la fase successiva dell’operazione “Nautilus” fu rimandata perché Malta e Italia non erano in grado di mettersi d’accordo su quale Paese fosse responsabile dello sbarco delle persone salvate in mare.[87]

Il 18 giugno 2009, per la prima volta nella sua storia, un’operazione di Frontex ha portato all’intercettamento e respingimento verso la Libia di migranti nel Mediterraneo centrale. Un elicottero “Puma” tedesco, intervenuto nell’ambito dell’operazione “Nautilus IV” ha coordinato l’intercettamento, da parte della guardia costiera italiana, 29 miglia a sud di Lampedusa, di un barcone che trasportava circa 75 migranti. Stando ai resoconti, la guardia costiera italiana ha consegnato i migranti ad una motovedetta libica la quale li ha portati a Tripoli, dove, secondo quanto riportato, sono stati “consegnati ad un’unità militare libica”.[88]

Il vicedirettore di Frontex, Gil Arias-Fernandez, si è pronunciato a favore di questa e altre operazioni affini: “Stando alle nostre statistiche, siamo in grado di dire che gli accordi [tra la Libia e l’Italia] hanno avuto un impatto positivo. A livello umanitario, meno vite sono state messe a repentaglio, per via di un minor numero di partenze. Ma la nostra agenzia non ha la capacità di confermare se il diritto d’asilo, così come altri diritti umani, venga rispettato in Libia.”[89]

Al di là del problema, evidente, di dire che una politica di rinvio ha avuto un impatto positivo senza sapere se i diritti umani dei respinti siano stati violati o meno, Arias-Fernandez esprime la nozione, scorretta, secondo cui un potenziale vantaggio umanitario (impedire perdite umane in mare) prevalga su un diritto umano (il diritto di partire e il diritto di cercare asilo). La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo garantisce a chiunque di lasciare qualsiasi Paese così come il diritto di cercare asilo, in un altro Paese, per sottrarsi alle persecuzioni.[90] Gli individui hanno il diritto di scegliere di rischiare la vita nell’esercizio dei propri diritti umani. E spesso lo fanno, tragicamente, perchè sono in fuga da un pericolo persino peggiore dei rischi che hanno davanti. La loro scelta, per quanto possa mettere in pericolo la loro vita, non dovrebbe essere frustrata né da un governo che gli impedisce di partire, né da un trafficante che li obbliga a salire su un barcone.

A prescindere dal diritto di partire e quello di cercare asilo, i governi hanno comunque il dovere di imporre alle navi battenti la propria bandiera di recuperare individui in difficoltà in mare, adempiendo così all’imperativo umanitario.[91]I governi mantengono i propri diritti, stabiliti dal diritto internazionale, di controllare i propri confini, comprese le proprie acque territoriali, a condizione di rispettare i propri doveri, anch’essi stabiliti dal diritto internazionale, che include i diritti dei rifugiati e i diritti umani.

VIII. Intercettamenti maltesi e libici precedenti al maggio 2009

Nonostante i primi atti di aperto intercettamento e rinvio sommario in quanto procedura e linea politica del governo italiano siano cominciati nel maggio del 2009, i migranti hanno riferito ad Human Rights di altri episodi di intercettamento e rinvio sommario, precedenti ai rinvii del 2009, che riguardano la Marina militare e la guardia costiera maltese e libica.

Daniel, un Eritreo di 26 anni, ha raccontato ad Human Rights Watch come la Guardia Costiera maltese, nel luglio del 2005, abbia trainato il suo barcone fuori uso fino ad un peschereccio libico che li ha poi riportati in Libia. Il suo resoconto illustra non solo come gli intercettamenti venissero portati a compimento prima del 2009, ma restituisce anche la brutalità dei trafficanti, la pericolosità del viaggio, e il maltrattamento delle autorità libiche al ritorno. Inizia con il racconto di come i trafficanti li fecero salire sulla barca con la forza:

I trafficanti ci colpivano con un bastone per farci salire sulla barca. Stiparono 264 di noi sulla barca. C’erano donne incinte, neonati, bambini. Il capitano disse che eravamo in troppi, ma i trafficanti non lo ascoltarono. Dopo dieci ore si ruppe il motore. Non avevamo né cibo né acqua. Andammo alla deriva per cinque giorni. Si scaricò la batteria del nostro Thuraya (telefono satellitare). Stavamo aspettando di morire.
Il quinto giorno arrivò una barca della guardia costiera di Malta. Ci diedero dell’acqua. Un’anziana disse: “Vedrò mio figlio a Malta”. La barca quasi si capovolse perché la gente si era alzata in piedi per prendere l’acqua. Arrivò un’altra imbarcazione maltese, una nave di comando, e ci scattò delle foto. La nave maltese portò una corda. La legarono al nostro barcone e iniziarono a trainarci. Dopo due ore, al calare del sole, l’imbarcazione maltese cambiò rotta e ci portò in Libia. Vedemmo che stavamo andando nella direzione sbagliata. Tutti dissero: “Per favore, no”. Implorammo i maltesi. Loro agitarono le mani facendo segno di no.
Vedemmo uno stendardo verde della Libia su un peschereccio. I maltesi gli dettero la corda. Tutti piangevano. Entrava acqua nella barca. Le onde erano alte. La nostra barca si stava inclinando. Per una ventina di minuti sembrò che si stesse davvero per capovolgere. Poi i maltesi tagliarono la corda e se ne andarono. Il peschereccio ci portò in Libia.
Eravamo veramente stanchi e disidratati quando arrivammo in Libia. Io pensai: “Se mi picchiano, non sentirò niente.” Quando arrivammo non c’erano dottori, nessun aiuto, solo polizia militare. Iniziarono a prenderci a pugni. Ci dicevano, “Credevate di andare in Italia, eh?”. Ci prendevano in giro. Eravamo assetati e loro ci picchiavano con bastoni e ci tiravano calci. Per circa un’ora picchiarono tutti quelli che erano sulla barca. Ci misero in un camion che aveva solo due finestrelle, a malapena si respirava. C’erano 40 gradi centigradi fuori, ma nel camion sembrava ce ne fossero 80. Io pensavo che saremmo morti tutti in quel camion, ma in qualche modo ce la facemmo tutti. Prima ci portarono alla prigione di Al Fellah, ma era piena, quindi ci portarono alla prigione di Misurata.[92]

Nell’aprile del 2006, una  nave maltese respinse con la forza in Tunisia Ezekiel, un Eritreo di 24 anni, e le autorità tunisine, a loro volta, lo abbandonarono lungo il confine in Libia:

           

Delle onde enormi capovolsero la nostra barca. Venti persone morirono. Io ero uno dei cinque sopravvissuti che si aggrapparono alla barca che galleggiava al contrario. Non avevamo né cibo né acqua. Avevamo dei giubbotti salvagente ma l’acqua era gelida.
Arrivò una grande nave. Credo fosse maltese. Caricarono noi cinque sulla loro barca. Gli altri erano morti.  Eravamo semi-coscienti. Ci dissero che non eravamo in acque maltesi. La nave ci portò in Tunisia. La polizia tunisina ci portò al confine libico e diede a ciascuno di noi cinque dinari per il taxi.[93]

Dopo che i tunisini lo scaricarono lungo il confine, la polizia libica catturò Ezekiel, lo picchiò pesantemente, gli rubò i soldi e lo trattenne in una stazione di polizia di frontiera per due mesi.[94]

Prove e testimonianze indicano che le forze di guardia costiera libica sono state coinvolte anche nell’intercettamento e nel rinvio di barconi. Alcuni video hanno ripreso forze di polizia e sicurezza libiche mentre intercettavano barconi di immigrati irregolari in mare,[95] così come mentre fermavano barconi irregolari e arrestavano i migranti che cercavano di lasciare la costa libica.[96] Quest’ultimo video contiene spezzoni particolarmente inquietanti di quella che sembra essere polizia libica, che impugna e apre il fuoco con fucili Kalashnikov Akms mentre arresta i migranti.

A differenza di quanto avviene per i migranti che s’imbattono in polizia e autorità militari libiche nell’entroterra e nelle zone di confine, i migranti intercettati in mare solitamente non sono stati in grado di identificare per Human Rights Watch quale tra le autorità libiche fosse responsabile del loro intercettamento. Pastor Paul, un trentaduenne nigeriano, riferisce di un incidente avvenuto il 20 ottobre 2008:

Eravamo in una barca di legno e dei libici in uno Zodiac [gommone a motore] iniziarono a spararci. Ci dissero di tornare a riva. Continuarono a spararci finchè presero il nostro motore. Una persona fu colpita a morte. Non so chi ci sparò, ma erano civili, non in uniforme. In seguito arrivò una nave della Marina libica, ci raggiunsero e iniziarono a picchiarci.  Si presero i nostri soldi e telefoni cellulari. Credo che quelli del gommone Zodiac lavorassero insieme alla Marina libica.
La Marina libica ci riportò indietro con la loro grande nave e ci spedirono al campo di deportazione di Bin Gashir. Quando arrivammo lì iniziarono subito a picchiare sia me che gli altri. Alcuni dei ragazzi furono picchiati al punto da non poter più camminare.[97]

IX. Mancato soccorso ad imbarcazioni in difficoltà

Spesso, l’intercettamento nel Mediterraneo viene definito come “soccorso marittimo.” In molti casi, effettivamente, si tratta di soccorso, e migliaia di vite sono state salvate da marina militare e guardia costiera sia dell’Italia che di Malta, così come da capitani di navi private. Ma anche le imbarcazioni che non sono in difficoltà vengono intercettate, ed in altre occasioni, secondo i resoconti dei migranti, imbarcazioni che lo sono vengono ignorate o respinte.

Il mancato soccorso è confermato dalle affermazioni di funzionari italiani. Nell’aprile del 2009, il ministro degli Interni Roberto Maroni ha accusato Malta di mandare, di fatto, 40.000 migranti in Italia attraverso la mancata partecipazione al loro salvataggio.[98] In effetti, dei migranti hanno riferito ad Human Rights Watch che delle imbarcazioni maltesi hanno fermato dei barconi alla deriva, gli hanno dato cibo e carburante, per poi dirigerli verso l’Italia e scomparire. Abdi Hassan, un Somalo di 23 anni che parla diverse lingue, tra cui l’Inglese, ha descritto le accortezze usate dalla marina maltese per evitare di prendere lui o altri passeggeri, e di come invece essa avesse riapprovvigionato e spinto l’imbarcazione verso l’Italia:

Già al secondo giorno di viaggio avevamo finito cibo ed acqua. Il terzo non avevamo più carburante e il quarto eravamo alla deriva. Credevamo che saremmo morti. Un peschereccio ci trovò e comunicò via radio alla marina maltese di rimorchiarci. Il quinto giorno la nave della marina maltese arrivò, ma dissero di non poterci prendere. Presero solo due donne incinte e me come interprete. Diedero al resto delle persone sulla nostra barca cibo e carburante, e gli dissero di andare in Sicilia. Dopodichè mi dissero che non potevano prendere me, ma solo le due donne incinte, e mi misero su un motoscafo veloce per tornare alla barca. Poi abbiamo continuato il viaggio verso la Sicilia.[99]

La loro imbarcazione finì per trovarsi nuovamente in difficoltà, e alla fine la marina maltese dovette prestar loro soccorso e portarli a Malta. Abdi Hassan ha affermato di essere stato trattato bene dalla marina maltese, anche se il posto di detenzione dove fu portato, il braccio Hermes della caserma Lyster, era vecchio, sporco, e così sovraffollato che dovette dormire sul pavimento. (È stato chiuso poco prima della visita di Human Rights Watch). Ha detto: “Dopo essere stato nelle prigioni libiche, questo posto sembrava il paradiso, ma allo stesso tempo avevo la sensazione di essere privato di diritti di cui avrei goduto in Europa.”[100]

A volta le navi mancano di reagire tempestivamente, o non reagiscono affatto, di fronte a migranti in barconi dalle condizioni fatiscenti e le cui vite sembrano in pericolo. Abassi, un Nigeriano di 21 anni, si trovava su un gommone Zodiac nell’agosto del 2008 quando sentì uno scoppio:

Sembrò uno sparo, ma non era una pistola. Avevamo un problema. C’era una falla. Eravamo ancora nelle acque territoriali libiche e tutti piangevano perchè sapevamo che non ci avrebbero soccorsi in acque libiche. Credevamo che saremmo morti.  Credevamo che ci avrebbero salvati solo in acque internazionali.
Andammo alla deriva, per cinque giorni con il gommone fuori uso, e pensammo di essere giunti, finalmente, in acque internazionali. Pregavamo e cercavamo di mantenere la calma. Un lato del gommone era affondato e l’altro ancora galleggiava. Eravamo in 85 lì, aggrappati. Non c’era niente da mangiare e già il secondo giorno era finita l’acqua. La gente beveva l’acqua del mare, e si sentiva male. Morirono tre persone.
Il quarto giorno vedemmo un elicottero. Dall’elicottero ci videro e ci fecero un cenno. Non ci buttarono cibo né acqua, e nessuna nave venne a recuperarci. Cinque ore dopo vedemmo una nave. Ma non era venuta per soccorrerci. Si fermò e se ne stette lì per qualche ora, solo a guardare.
La gente sul nostro gommone aveva cominciato a discutere e litigare. Alla fine, intorno a mezzanotte, vedemmo la luce di un’altra nave. Ci tirò una corda e provò a rimorchiarci, ma il nostro gommone ormai era inservibile. Ci caricarono sulla loro nave e ci portarono direttamente a Malta. Ci presero le impronte digitali e ci portarono all’ospedale, solo per un controllo, non per curarci. Poi ci portarono al centro di detenzione di Safi. Ci faceva effetto essere imprigionati in Europa.[101]

Chiaramente, i capitani delle navi, talvolta riflettendo il comportamento della marina militare, s’impegnano a valutare la gravità delle difficoltà, spesso intervenendo al minimo per impedire la perdita di vite, ma evitando di assumersi la responsabilità dei migranti attraverso un effettivo soccorso. Al di là del dovere che gli stati hanno di far in modo che le navi battenti la propria bandiera prestino soccorso, la ‘Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare’ prevede, nello specifico, che “il capitano di una nave, in posizione tale da poter offrire assistenza, al ricevere informazione da qualunque fonte che delle persone sono in difficoltà in mare, dovrà procedere a tutta velocità in loro aiuto.”[102]

I migranti riportano che spesso, una volta effettuati i salvataggi, i soccorritori tramano per appiopparsi a vicenda la responsabilità. Jonas, un Eritreo di 39 anni, era su una nave con circa 300 passeggeri che avevano passato quattro giorni senza cibo né acqua quando apparvero i soccorritori il 18 aprile 2009:

Un’imbarcazione della polizia maltese si fermò, ma non ci diede cibo né acqua. Quando incontrammo la barca maltese, ci dissero che ci avrebbero aiutato, ma se ne andarono quando videro avvicinarsi una nave italiana. La nave italiana ci diede acqua e ci trattò con gentilezza.[103]

Queste testimonianze danno voce ad un’orrenda cronaca di vergogna, insufficientemente riportata perché queste storie si svolgono nella vastità del mare aperto e perché chi muore affogato non può più parlare. Voci siffatte si levarono dai mortiil 21 maggio 2007, quando un barcone a metà tra Libia e Malta, stracolmo con 53 Eritrei, iniziò ad affondare. Dei passeggeri con telefoni satellitari fecero chiamate disperate a parenti in Italia, Malta, e addirittura Londra implorando di essere soccorsi. Un elicottero militare maltese, quel mattino, fotografò l’imbarcazione che affondava, ma ci vollero altre nove ore prima dell’arrivo di una nave, quando ormai il barcone e tutti i suoi passeggeri erano svaniti in mare.[104]

In seguito, quello stesso mese, un barcone di migranti che andava a fondo vagò alla deriva per sei giorni, mentre diverse imbarcazioni gli passarono vicino prima che andasse a picco.  Un peschereccio maltese s’imbattè  nei sopravvissuti al naufragio, ma non volle caricarli a bordo. Invece, 27 naufraghi furono lasciati aggrappati alla rete del peschereccio per tre giorni e tre notti mentre Libia, Malta e Italia, litigavano su chi avesse la responsabilità di prenderli. Alla fine, li recuperò un’imbarcazione italiana.[105]

Innocent ha dipinto su un pezzo di lenzuolo il suo salvataggio. Alla destra della E Pinar ha scritto: “Dio benedica il popolo turco”. © 2009 Bill Frelick/Human Rights Watch

Le controversie sulle responsabilità, che causano ritardi nei soccorsi e nuove difficoltà e pericoli, sono esemplificate dalla disputa di alto profilo, avvenuta tra Malta e Italia nell’aprile del 2009, riguardo la responsabilità dei 140 migranti a bordo della nave da carico turca Pinar E. Tra i passeggeri vi erano almeno una donna incinta, dei bambini, e circa 22 persone che, troppo ammalate per essere portate con il resto dei passeggeri in Sicilia,  rimasero a Lampedusa. Il capitano della Pinar E prelevò i migranti in risposta ad una richiesta di aiuto. L’Italia sosteneva che i migranti, essendo stati intercettati nella zona di ricerca e soccorso (Sar, “search and rescue”) amministrata da Malta, sarebbero dovuti sbarcare su territorio maltese e negarono alla nave il permesso di entrare nelle acque italiane. Malta sosteneva che il diritto internazionale imponeva che i migranti sbarcassero nel porto più vicino, che in questo caso era quello di Lampedusa. Dopo un confronto di quattro giorni e gli appelli del presidente della Commissione europea, l’Italia acconsentì di accettare i migranti.

Innocent, un giovane Nigeriano di 19 anni che fu soccorso dala Pinar E, il cui quadro raffigurante la sua esperienza è qui riprodotto, ha raccontato ad Human Rights Watch come il suo gommone Zodiac, stracolmo e fuori uso, fu prima ignorato dalle navi di passaggio e poi come i passeggeri che stavano male dovettero aspettare mentre Italia e Malta litigavano su dove li avrebbero  fatti sbarcare:[106]

Ci portammo solo dell’acqua, niente cibo o giubbotti di salvataggio. Ci  perdemmo, e l’acqua e il carburante finirono. Gridavamo affinché venissero a salvarci. Agitavamo le nostre camicie alle navi di passaggio. Alcune passarono oltre. Altre ci diedero acqua e viveri, ma non ci prestarono soccorso. Non avevamo carburante ed eravamo in balia delle onde. La gente piangeva. Pregavamo Dio affinché ci salvasse. Vedemmo un delfino urtare il gommone, aprendo una falla. Buttavamo l’acqua fuori dal gommone. Nessuno morì, ma stavamo male e c’era chi sveniva. Dopo quattro giorni arrivò una grossa nave turca e ci gettò una fune. Salimmo sulla loro grande nave. Ci diedero da bere. Ci diedero cibo, anche se non era abbastanza. Passammo altri tre giorni sulla nave turca [sic – in realtà furono quattro].[107]

Se da un lato Innocent esprime una sentita gratitudine all’Italia, dall’altra gli Italiani hanno nondimeno prolungato la sua sofferenza di quattro giorni mentre discutevano con i Maltesi per esimersi dal prenderlo.

Le dispute tra Italia e Malta rivelano una considerevole debolezza nel regime legale marittimo internazionale. L’implicazione pratica della disputa è che alle navi commerciali che prestano soccorso a migranti in difficoltà nella Sar controllata da Malta al largo di Lampedusa, vengono date istruzioni contrastanti su dove far sbarcare i sopravvissuti. Gli emendamenti del 2004 allaConvenzione internazionale sulla ricerca ed il soccorso in mare (Sar) e alla Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare (Solas) sembrerebbero favorire la posizione italiana, secondo la quale la responsabilità di offrire un posto sicuro cade sullo stato responsabile della zona Sar in cui i sopravvissuti sono stati soccorsi.[108] L’Organizzazione Marittima Internazionale ha anche rilasciato una circolare sulla questione, spiegando: se “lo sbarco dalla nave che ha presto soccorso non può essere effettuato rapidamente altrove, il governo responsabile dell’area Sar dovrebbe accettare lo sbarco degli individui portati in salvo in un posto sicuro sotto il suo controllo”.[109]

Tuttavia, Malta ha posto un’obiezione formale agli emendamenti del 2004 sia della Sar che della Solas, così come alla circolare dell’Organizzazione Marittima Internazionale, e pertanto non è vincolata da essi.[110] Malta continua a sostenere che lo sbarco dovrebbe aver luogo nel porto più vicino al sito del salvataggio ed esso, rispetto alla zona Sar maltese, è spesso un porto italiano. Giuridicamente, entrambi i Paesi sono nel giusto, poiché Malta non ha acconsentito ad essere vincolata dagli emendamenti Sar e Solas del 2004 che invece vincolano l’Italia. Sono necessarie più riforme per raggiungere uno standard legale uniforme sullo sbarco di sopravvissuti.

X. Libia: impossibile richiedere asilo politico

La Libia non ha una legislazione interna o procedure disciplinanti l’asilo politico.[111] Sebbene la Libia sia uno stato parte della Convenzione sui Rifugiati del 1969 dell’Oau, che sposa il diritto d’asilo,[112] ed abbia adottato la Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981 che stabilisce che tutti i popoli “hanno diritto, se perseguitati, di cercare ed ottenere asilo in altri Paesi,”[113] non ha, fino ad ora, stabilito alcun meccanismo formale per la protezione di individui in fuga da persecuzioni.

Il generale di brigata Mohamed Bashir Al Shabbani, direttore dell’ufficio immigrazione, ha dichiarato ad Human Rights Watch che “non ci sono rifugiati in Libia. Ci sono individui che si intrufolano illegalmente nel Paese e non possono essere descritti come rifugiati. Chiunque entri nel Paese senza documenti e permessi formali viene arrestato.”[114] Quando Human Rights Watch ha chiesto ad Al Shabbani come facesse a sapere che nessuno di essi fosse un rifugiato, o se tra di essi potessero trovarsi uno o due rifugiati, e come potesse distinguerli dagli altri, ha risposto: “Non mi sono mai trovato di fronte ad una simile eventualità.”

La sua risposta è coerente con le espressioni in merito del leader libico Muammar Gheddafi, che nega categoricamente che i migranti in Libia, o diretti in Europa attraverso la Libia, siano in cerca di asilo. Ha definito la questione come una “menzogna diffusa”. Nella sua prima visita in Italia l’11 giugno 2009, ha detto: “Pensiamo davvero che milioni di persone siano in cerca d’asilo? È una cosa che fa davvero ridere”. Ha definito i migranti africani come persone  che “vivono nel deserto, nelle foreste, privi di qualunque identità, tanto meno politica. Credono che il Nord abbia tutta la ricchezza, i soldi, per cui tentano di raggiungerlo.”[115]

Prima di recarsi in Italia nel luglio 2009, Gheddafi rispose alla domanda se si potesse concedere asilo ai migranti respinti in Libia dall’Italia. Rispose, “Non è assolutamente una questione d’asilo. L’asilo riguarda un numero ristretto di individui per motivazioni politiche, oppure dopo una guerra o dopo disastri naturali. Qui, invece, siamo di fronte ad ondate di immigrazione che si susseguono verso l’ Europa a causa della povertà imperante in Africa.”[116]

In realtà, pochi dei migranti intervistati da Human Rights Watch, compresi molti dei quali hanno poi richiesto asilo in Italia o a Malta o a cui sia stato riconosciuto lo status di rifugiato in tali Paesi, hanno espresso la convinzione che vi fosse alcuna possibilità di richiedere asilo in Libia. Ad eccezione dei detenuti nel centro di detenzione di Misurata, al quale l’Unhcr e le sue organizzazioni partner nongovernative (Ong) hanno accesso, nessuno degli ex-detenuti intervistati per il presente rapporto ha detto di aver visto o incontrato l’Unhcr durante la permanenza in una qualsiasi delle altre prigioni o centri di detenzione in Libia. Considerato il gran numero di ex-detenuti che ha riportato di essere stato picchiato per qualunque richiesta fatta alle guardie, non sorprende che solo uno abbia detto ad Human Rights Watch di aver chiesto di incontrare l’Unhcr nel periodo di detenzione.

La proclamazione costituzionale della Libia del 1969 afferma che “l’estradizione dei rifugiati politici è proibita.”[117] Inoltre, la legge 20 del 1991, “Sull’Accrescimento della Libertà”, afferma che “la Giamahiria sostiene gli oppressi e (...) non deve abbandonare i rifugiati e rinunciare alla loro protezione.”[118]

Il Segretario della Giustizia Mostafa Abdeljalil del Comitato Generale del Popolo per la Giustizia ha dichiarato ad Human Rights Watch che è possibile fare richiesta d’asilo presentando la documentazione al ministero degli Affari esteri,[119] ma non siamo stati in grado di trovare una legge che stabilisca tale procedura. Il generale di brigata Al Shabbani ha detto ad Human Rights Watch che una “nuova legge sui rifugiati sarà presto presentata al Congresso di Base del Popolo.”[120] Human Rights Watch ha richiesto copie della bozza di legge sull’asilo sia all’epoca della visita del 2005, in preparazione del  rapporto “Arginare i Flussi” del 2006, e nuovamente nella visita dell’Aprile 2009 e in successive comunicazioni con il governo in preparazione del presente rapporto. Non ci è stata fornita alcuna copia della bozza di legge.

La Libia non ha firmato né la Convenzione sui Rifugiati del 1951[121] né, tanto meno, il suo Protocollo del 1967,[122] ma sia la Convenzione contro la Tortura che la Convenzione africana sui rifugiati[123] le vietano di inviare individui in Paesi dove corrono un serio rischio di persecuzione o tortura. La Libia è anche uno stato parte del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (Pidcp)[124] il quale, all’articolo 13, proibisce l’espulsione arbitraria e dà agli stranieri diritto ad una decisione individuale sul loro allontanamento o espulsione. Il Comitato per i Diritti Umani ha interpretato l’articolo 7 del Pidcp come un divieto di refoulement di individui verso posti dove corrono il rischio di trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti.[125] Secondo il diritto internazionale consuetudinario, inoltre, la Libia è tenuta a non rinviare alcun individuo verso luoghi dove potrebbe essere perseguitato o dove la sua vita o libertà siano a rischio.[126]

Il Segretario della Giustizia Abdeljalil ha suggerito un riconoscimento, de facto,del principio di nonrefoulement quando ha detto ad Human Rights Watch che la Libia non può deportare Eritrei o Somali.[127] Sebbene la sospensione delle deportazioni in Somalia ed Eritrea sia benvenuta, questa non può essere sostitutiva di un procedimento legale teso ad identificare rifugiati di qualsiasi nazionalità che non possano essere respinti.

 

XI. L’Unhcr in Libia

La presenza di un ufficio dell’Unhcr in Libia risale al 1991, ma nel corso degli anni vi sono state numerose occasioni  in cui il governo libico non ha onorato gli attestati rilasciati dall’Unhcr ad individui riconosciuti come rifugiati sotto il suo mandato.[128] Sebbene le relazioni con l’Unhcr siano migliorate negli ultimi anni, la Libia continua a rifiutare di firmare un memorandum d’intesa con l’agenzia, una procedura standard nella maggior parte dei Paesi in cui l’Unhcr ha degli uffici. Dato che la Libia non distingue ufficialmente tra rifugiati, richiedenti asilo, e migranti irregolari, i funzionari libici ancora non riconoscono i certificati di riconoscimento dello status di rifugiato e gli attestati rilasciati dall’Unhcr.

Nel luglio 2008, l’Unhcr ha firmato una accordo con una Ong libica, la International Organization for Peace, Care and Support (Iopcr), l’International Center for Migration Policy Development (una Ong con base a Vienna) e il Consiglio italiano per i rifugiati.[129]

Dalla pubblicazione del nostro ultimo rapporto su migranti e richiedenti asilo in Libia, quando l’Unhcr aveva accesso solo ad un centro di detenzione a Tripoli, il governo Libico ha concesso all’Unhcr di accedere a sette centri di detenzione in parti diverse del Paese.[130] Tuttavia, al momento della visita di Human Rights Watch, il grosso dei casi di detenuti riconosciuti come rifugiati era raggruppato attorno alle strutture detentive di Misurata.[131] Le lunghe distanze da percorrere per raggiungere i numerosi centri di detenzione in Libia rendono difficile allo staff dell’Unhcr di compiere visite regolari, persino allo stesso campo di Misurata, che si trova a circa 280 chilometri dall’ufficio Unhcr di Tripoli. L’Unhcr ha cominciato a condurre la determinazione dello status di rifugiato per degli Eritrei detenuti a Misurata nel 2007, quando ve ne erano circa 400 tenuti in quel centro. Gli interventi dell’Unhcr, comprese alcune risistemazioni in Paesi terzi, hanno contribuito, alla fine del 2008, a ridurre la popolazione carceraria di 200 unità.[132]

 L’Unhcr è in grado di fornire assistenza dal suo ufficio di Tripoli a 3000 rifugiati, anche nella forma di aiuto finanziario, orientamento professionale, e assistenza medica. Nonostante la mancanza di un accordo formale, l’agenzia è stato in contatto con il governo con regolarità ed è riuscita a liberare dei detenuti con attestati Unhcr, dunque impedendo la loro espulsione. Nel luglio del 2008, l’Unhcr è intervenuta con successo per impedire il refoulement di 230 Eritrei.[133] L’agenzia afferma di non aver documentato, dal 2007, alcun caso di refoulement dalla Libia.[134]

Nel 2009, l’ufficio di Tripoli dell’Unhcr contava un organico di 28 persone di cui 12 autorizzate ad effettuare la determinazione dello status di rifugiato. Senza un adeguato status legale, i loro poteri sono limitati. Nonostante ciò, l’agenzia continua a condurre tale determinazione per i richiedenti asilo che, in media tra i 40 e i 50 a settimana, hanno contattato l’ufficio nel corso del 2009.[135]

Malgrado le restrizioni alla propria azione, l’Unhcr di Tripoli, al 31 luglio del 2009, ha registrato 8.506 individui riconosciuti come rifugiati sotto il proprio mandato. Di questi, 3.635 erano Palestinesi a lungo residenti in Libia, e 2.653 Iracheni. Il resto comprendeva 781 Sudanesi, 597 Somali, 451 Eritrei, 144 Liberiani e 245 di altre nazionalità. L’Unhcr ha assistito ad una crescita costante, negli ultimi cinque anni, delle richieste d’asilo (ci sono state 676 domande nel 2005, 1.058 nel 2006, 2.779 nel 2007, 4825 nel 2008 e 2256 nei primi sei mesi del 2009). Nel 2008, l’Unhcr ha rinviato alla Libia 227 rifugiati per una risistemazione. Di questi 145, perlopiù Eritrei, sono stati accettati da altri Paesi.[136]

In seguito ai rinvii di migranti in Libia del maggio 2009, l’Unhcr ha fatto appello alle autorità maltesi ed italiane affinché “continuino ad assicurare che le persone portate in salvo in mare e bisognose di protezione internazionale siano ammesse pienamente al territorio e alle procedure per fare richiesta d’asilo.”[137] L’Unhcr ha sottolineato che “che non c’è garanzia che individui bisognosi di protezione internazionale la trovino in Libia.”

Oltre a richiedere al governo italiano di rispettare il principio di nonrefoulement, l’Unhcr si è anche sforzata di fornire assistenza umanitaria e protezione di base a chi è stato rinviato e detenuto in Libia. Tra maggio e luglio 2009, l’Unhcr ha esaminato 632 migranti dei barconi respinti e ha riscontrato che 97 di essi erano in cerca di protezione internazionale.[138] L’Unhcr ha chiesto al governo italiano di riammettere gli individui in cerca di protezione internazionale e di determinare le loro istanze in ottemperanza alla legge italiana.[139]

XII. Connessioni tra trafficanti e funzionari di sicurezza e delle forze dell’ordine

In molti casi, i migranti in viaggio attraverso la Libia non sanno se i loro aguzzini siano poliziotti o criminali, ma esprimono spesso il convincimento che i due gruppi siano in combutta dato che entrambi sfruttano migranti vulnerabili e ne abusano. Le percezioni dei migranti circa la polizia e i trafficanti sono connotate dalla loro prospettiva sul controllo che il regime esercita attraverso l’intera società libica e sull’atteggiamento dei Libici nei confronti degli stranieri, in particolare degli Africani sub-sahariani. Habtom, un Eritreo di 28 anni, arrivato in Libia nel giugno del 2008, ha spiegato:

La polizia è a conoscenza di tutto quello che succede in Libia. Sanno cosa succede con i barconi. Si prendono la loro parte di soldi. L’unico problema è quando la polizia non prende la sua parte di soldi o no ne prende abbastanza. Se al governo non piacesse [il traffico di migranti] non lo lascerebbero fare.[140]   

I migranti hanno espresso in modo pressoché unanime ad Human Rights Watch il convincimento che i trafficanti abbiano strette relazioni con funzionari libici. Dai resoconti dei migranti, i trafficanti che organizzano le partenze con i barconi talvolta sono collegati alle stesse forze investite del compito di impedire la migrazione marittima irregolare. Tomas, un Eritreo di 24 anni, faceva parte di un gruppo di 108 migranti che si rifiutò di salire, nell’ottobre 2008, su un barcone inadeguato a prendere il mare. Dopo che i migranti cominciarono ad opporre resistenza ai trafficanti, intervennero degli ufficiali della marina, indirizzando la propria azione non nei confronti dei criminali libici, organizzatori di un viaggio che avrebbe fatto rischiare loro la vita, ma contro i migranti che rifiutavano di imbarcarsi:

Appena vidi la barca mi resi conto che sarei morto se ci fossi salito.  Imposero a due persone di salire e il resto del gruppo cominciò a battersi.  Arrivarono molti soldati e ci catturarono.
I trafficanti avevano un accordo con la marina per prenderci i soldi. Ci misero direttamente nell’ufficio portuale della marina militare. Quelli che pretendevano soldi da noi portavano uniformi della marina. Erano in buona forma fisica. Erano chiaramente della marina. Non erano della guardia costiera, ma della marina. Un alto ufficiale ci parlò.
Ciò che mi sorprende è che la persona che ci disse che ci avrebbe portati in Italia è la stessa che ci arrestò. Quelli che ci arrestarono erano in borghese. Quelli che dicevano che ci avrebbero portati erano in uniforme. Ma furono tutti loro insieme ad arrestarci.[141]

Il gruppo di Tomas tentò di sparpagliarsi, ma la maggior parte, Tomas compreso, fu catturata e messa in detenzione. Tomas aveva tentato di partire per mare dalla Libia quattro volte. Era stato arrestato e detenuto più volte in diversi centri di detenzione, e rinviato nella regione di confine per essere deportato.[142] La sua ampia esperienza con trafficanti e forze di sicurezza e polizia gli ha lasciato pochi dubbi sulle loro connessioni:

Credo che i trafficanti fossero legati al cento per cento alla polizia e all’esercito. Vidi gli ufficiali in uniforme con le stelle sulle spalline parlare ai trasportatori. E gli autisti ci dicevano “nessun problema” quando vedevamo la polizia o i militari. I trafficanti ci dicevano anche che saremmo finiti in prigione se non avessimo pagato.[143]

Dei migranti somali hanno anche parlato ad Human Rights Watch del coinvolgimento dell’ambasciata somala in operazioni di traffico. Abdi Hassan, un somalo di 23 anni, ha raccontato di essersi recato all’ambasciata somala per pagare per il suo viaggio in barca verso l’Europa, e di essere stato trasportato dall’ambasciata direttamente a Garabulli, il punto di sbarco:

Il capo delle operazioni di traffico, [nome omesso] lavora all’ambasciata somala a Tripoli. Ha un grande ufficio nell’ambasciata e controlla il 90 percento dei barconi. Il suo ufficio è ben equipaggiato con computer e quant’altro. Noi abbiamo pagato quest’uomo dell’ambasciata somala, dove accettano trasferimenti di denaro tramite Western Union. Mia zia gli ha mandato 500 dollari. Ha buone connessioni con il governo libico. È tutto collegato da Khartum a Kufra, da Bengasi a Tripoli fino ai barconi. È tutto collegato. Con un viaggio di circa un’ora e mezza ci hanno portati dall’ambasciata a Garabulli, dove abbiamo aspettato la barca.[144]

Polizia e trafficanti: corruzione, estorsione, e rapina

Che sia o meno coinvolta in più ampie operazioni di traffico, la polizia stradale, specialmente sulle strade provenienti dai confini, così come la polizia di guardia nei centri di detenzione per migranti, trae regolarmente profitto esigendo ed accettando tangenti per il rilascio dalla propria custodia.[145] Nel caso dei migranti detenuti, ciò di solito implica che si stabilisca un contatto con le famiglie dei detenuti nei loro Paesi d’origine per effettuare trasferimenti di denaro. Spesso, implica anche che la polizia stabilisca contatti con i trafficanti per il viaggio che segue il rilascio.

Aron, un Eritreo di 36 anni che era stato detenuto nella prigione aeroportuale di Tripoli nel 2007, ha detto che il costo della tangente era di 500 dollari in contanti oppure di 800 dollari tramite bonifico. Dopo aver pagato la tangente, Aron racconta che un poliziotto in uniforme lo prese dalla prigione, lo mise su un’auto della polizia, e lo lasciò per strada a Tripoli. In seguito raggiunse un accordo con il poliziotto e “gli diedi soldi per rilasciare anche i miei amici”. Secondo Aron “è un’attività che si rinnova sempre. Portano la gente in città, prendono i soldi, e rimpiazzano i detenuti con altri Africani.”[146]

In più, i trafficanti raramente prestano il proprio servizio per la tariffa stabilita all’inizio del viaggio. Al contrario, la loro tattica, solitamente, è di esigere più soldi a metà del viaggio, trattenendo i migranti contro la loro volontà a scopo di estorsione e minacciandoli di morte.

Habtom, l’Eritreo sopra citato, ha viaggiato attraverso il deserto del Sahara con un gruppo di 95 persone, di cui 19 hanno perso la vita lungo il percorso. Ha detto che i trafficanti lo hanno rinchiuso, contro la sua volontà, in un’abitazione chiusa a Misurata, non al centro di detenzione, e che i trafficanti lo minacciavano di mandarlo al centro di detenzione ufficiale a meno che lui e gli altri migranti avessero pagato di più:

Gli uomini di guardia nella casa avevano bastoni e coltelli. Pretendevano che le nostre famiglie mandassero soldi. I Libici [i trafficanti] dicevano che se non avessimo pagato ci avrebbero mandato in prigione. Trafficanti e polizia erano collegati. Quando ci portavano da città a città, la polizia ci vedeva e ci lasciava passare. Conoscevano i trasportatori.[147]

Un altro Eritreo, Iggi, pagò i trafficanti 700 dollari per essere portato da Khartum a Tripoli. Invece, fu portato solo fino a Kufra, dove i trafficanti tennero lui ed altre 78 persone per dieci giorni in una stanza chiusa di 10 metri per 20 senza finestre, pretendendo più soldi:

Un Somalo morì in quella stanza. Non so il suo nome. Non riuscivamo a comunicare con lui, ma facemmo tutto il possibile per salvarlo. Nei 13 giorni di viaggio nel deserto i trasportatori avevano mischiato l’acqua con del benzene per farci bere di meno, e lui si era sentito male. Le guardie sapevano che stava male, ma non vollero portarlo all’ospedale né aiutarlo in alcun modo.
Non c’era comunicazione con i guardiani [i trafficanti]. Sapevano solo chiederci soldi. Non gli importava un accidenti se avevamo braccia e gambe rotte o se ci sentivamo male. Ci picchiavano spesso. Ci picchiavano per urinare senza permesso o senza ragione, solo per passargli accanto, quando pareva a loro. Ti colpiscono sugli occhi, sulle gambe, dappertutto.[148]

Iggi ha detto che polizia e trafficanti erano strettamente collegati:

I trasportatori che ci tenevano nella stanza a Kufra ci dissero di avere un aggancio con il governo. Lo vedemmo con i nostri occhi. Due auto della polizia ci fermarono nel Sahara. Uno dei nostri autisti scese a parlare con la polizia, e ci lasciarono passare. All’arrivo a Kufra fummo tutti presi dalla polizia. Passammo due giorni con la polizia e poi ci dissero che potevamo andare. Ma l’autista delle polizia lavorava anche per i trasportatori e ci riportò da loro lì dove passammo 13 giorni nella stanza chiusa.[149]

Mahmoud, un Tunisino di 20 anni, passò tre mesi a Tripoli nella casa di un trafficante dove era rinchiuso, in condizioni precarie, contro la sua volontà. Credeva che il trafficante che lo teneva sotto controllo fosse connesso alla polizia.

Quando ci spostammo da Al-Zawiya a Tripoli era evidente che i trafficanti erano amici della polizia. La polizia aiutava i trafficanti ad organizzare il viaggio. Dopo essere arrivati alla casa dove ci tenevano a Tripoli non potevamo più andarcene. Non solo il cibo e l’acqua erano cattivi, ma venivamo anche picchiati. Non ci permettevano di parlare. Gli chiesi indietro i miei soldi, ma non accettarono.[150]

Ghedi, un Somalo di 27 anni, ha avuto problemi con i trafficanti non appena arrivato in Libia nel febbraio del 2009. Fece il nome del capo dell’operazione di traffico e disse che membri delle forze di polizia lavoravano per lui. Fu minacciato di morte e rinchiuso contro la sua volontà a scopo d’estorsione:

[Nome omesso] è uno dei grandi trafficanti. Lui stesso non fa parte della polizia, ma parte della polizia lavora per lui. [Nome omesso] mi sequestrò, mi torturò e mi picchiò. Mi disse: “se non mi dai questi soldi, ti ammazzo.” Pretese che la mia famiglia gli mandasse 700 dollari. Le circostanze mi imposero di chiamare mio padre per fargli mandare i soldi, o sarei stato ucciso. Mio padre vendette la casa e pagò affinché non mi uccidessero.
Mi portarono in una casa ad Agedabia. Era come una prigione. C’erano quattro guardie con quattro cani. Vi erano rinchiuse 24 persone. Ci rimanemmo per sei giorni. I trafficanti mi picchiavano ogni giorno. Mi portavano in una stanza a parte per picchiarmi. Mi colpivano con una mazza su tutto il corpo, dicendo se non ci dai 700 dollari ti uccidiamo. Le percosse durarono dieci minuti. Il giorno dopo mi picchiarono per 12 minuti.
L’uomo che mi picchiava era collegato alla polizia. Non indossava l’uniforme, ma mi mostrò il suo distintivo. Diceva che se non avessi obbedito mi avrebbe portato in prigione.[151]

Non solo i trafficanti trattano brutalmente i migranti nei posti dove li tengono reclusi contro la loro volontà, ma anche il modo in cui ne effettuano il trasporto è spesso di una crudeltà ineffabile. Un video de La repubblica del 26 giugno 2009 contiene delle immagini scioccanti, apparentemente di un gruppo di migranti mentre viene tirato fuori da un container, completamente chiuso e di forma cilindrica, su di un’autocisterna normalmente usata per trasportare liquidi come carburante.[152]

XIII. Abusi su gruppi di migranti deboli

I migranti che hanno viaggiato attraverso la Libia, o che vi hanno risieduto, hanno riferito ripetutamente ad Human Rights Watch di aver vissuto nel timore di essere rapinati, picchiati, e di subire estorsioni da parte i poliziotti e criminali. Hanno anche parlato del timore di trattamento xenofobo e discriminatorio sul posto di lavoro e in altre circostanze, nonché degli episodi, frequenti, di bambini che gli tiravano pietre addosso. Queste esperienze fanno sì che i migranti evitino di camminare per strada.

Molti migranti hanno riferito ad Human Rights Watch di essersi nascosti praticamente per tutto il tempo in cui hanno vissuto a Tripoli o Bengasi. In alcuni casi ciò accadeva perché venivano tenuti come veri e propri prigionieri dai trafficanti. In altri casi, però, ciò era dovuto al loro timore di essere arrestati o aggrediti per strada. Come poi è risultato, non erano al sicuro né per strada né nei loro nascondigli, dato che poliziotti e anche delinquenti entravano nelle case dei migranti per aggredirli o estorcer loro denaro.

Essere rapinati è un’esperienza comune per i migranti, in particolare per gli Africani sub-sahariani, a Tripoli ed in altre città, così come essere aggrediti con lancio di pietre da ragazzini. Ermi, un Eritreo di 25 anni, ha espresso esperienze e sentimenti condivisi da altri migranti nelle interviste con Human Rights Watch:

Persino i bambini mi prendevano i soldi. I Libici potevano picchiarmi ed io non potevo difendermi. Persino i loro genitori li lasciavano fare. La polizia gli dava sostegno. La maggior parte di loro non sa che siamo esseri umani. Ho vissuto a Tripoli per un mese. Se prendevo un caffè, la polizia veniva a perquisirmi. Mi prendevano i soldi e se non avevo soldi mi portavano in prigione. Io scappai dalla prigione dopo una settimana, ma portarono molti dei miei amici a Kufra, al confine con il Sudan.[153]

Benché tutti i migranti corrano dei rischi in Libia, alcuni gruppi sono particolarmente vulnerabili.

Abuso di donne migranti

Le donne migranti che intraprendono il viaggio attraverso la Libia sono particolarmente esposte ai trafficanti e alla polizia che ne abusano impunemente. Sebbene Human Rights Watch non sia stata in grado di documentare specifici casi di stupro e violenza carnale, sia uomini che donne ci hanno riferito di aver visto spesso le donne venir separate dai gruppi di migranti. Hanno detto ad Human Rights Watch di credere che le donne fossero portate via per essere violentate. Oltre agli abusi sessuali, le donne intervistate da Human Rights Watch hanno descritto anche altre infrazioni, tra cui pestaggi, condizioni igieniche precarie, ed estorsione.

Gli abusi sessuali possono verificarsi non solo ad opera dei trafficanti ma anche a danno delle migranti nelle mani della polizia. Madihah, una donna Eritrea di 24 anni che è stata rinchiusa in entrambe le strutture detentive per migranti di Al Fellah e Misurata, ha detto ad Human Rights Watch che mentre ad Al Fellah uomini e donne erano separati, a Misurata non era così. A Misurata, ha detto, “tutte le donne avevano problemi con la polizia. La polizia arrivava di notte per scegliere le ragazze da violentare.”[154] Secondo l’Unhcr, a partire dal 2007 uomini e donne sono stati separati al centro di Misurata, e da allora non sono stati riportati casi di stupro.[155]

I trafficanti sequestrarono a scopo di estorsione Nadifa, una diciannovenne somala, per 20 giorni a Kufra. Nadifa ha descritto la stanza che condivideva con altre 25 donne come molto angusta e sporca, in un brutto edificio diroccato con un solo bagno che tutti dovevano condividere. Ha raccontato ad Human Rights Watch di come le guardie trattassero lei e le altre detenute:

Ci picchiavano. Picchiavano tutti, uomini e donne. Di solito ci picchiavano nella stessa stanza in cui ci tenevano. Ma portavano alcune persone fuori dalla stanza. A me non è successo, ma portavano altre donne fuori dalla stanza.[156]

Amina, un’altra diciannovenne somala, amica di Nadifa, e rinchiusa con Nadifa nello stesso posto di Kufra, ha descritto gli abusi in termini simili. Ha anche parlato di maltrattamento fisico, ma non sessuale:

Ci tenevano rinchiuse a scopo di estorsione. Picchiavano me come le altre. Ci colpivano con un bastone speciale fatto apposta per picchiare. Ogni volta che il trafficante di guardia entrava nella stanza ci picchiava. Diceva che dovevamo pagarlo. Siamo rimaste nella stessa stanza per dieci giorni. Noi donne stavamo insieme, ma rifiutavamo di essere prese singolarmente al di fuori della stanza.
I trafficanti usavano manette da poliziotto, quindi pensavamo che fossero con la polizia, ma non indossavano uniformi. Ammanettarono due o tre persone per spaventarci. Il trafficante diceva sempre “ti ammazzo se non mi dai i soldi”. Diceva anche “ti porto in prigione”. Io pagai gli 800 dollari.
Ci consegnò ad un altro trafficante che ci portò ad Agedabia, dove fummo rinchiusi per un mese e dove, di nuovo, ci rinchiusero a scopo di estorsione, esigendo altri soldi. Lì i pestaggi erano ancora più violenti, perché non eravamo in grado di pagare. Portarono fuori alcuni ragazzi per picchiarli con mazze e scariche elettriche. Ma le donne non furono portate fuori.[157]

Sebbene nessuna delle donne intervistate da Human Rights Watch abbia affermato di essere stata stuprata, i racconti di alcuni uomini lasciano pochi dubbi su cosa accada alle migranti in Libia. Un ventenne somalo ha raccontato ad Human Rights Watch di una “casa speciale” fuori Tripoli dove i migranti vengono rinchiusi e dove le donne vengono stuprate:

I trafficanti erano in combutta con i soldati. Lavorano con il governo per mantenere la casa speciale fuori Tripoli. Eravamo in 32 in questa casa, 25 uomini e 7 donne. Non rispettavano le donne. Videro una ragazza e fecero degli apprezzamenti. La obbligarono ad andare in un’altra stanza. Mi disse per tre volte, “Perché non mi hai salvata?”. Io risposi, “Che potevo fare?”, e lei disse “Mi hanno obbligata”. Io piansi. Non c’era niente che potessi fare.[158]

Daniel, un Eritreo di 26 anni, ha visto una ragazza cadere in preda ai trafficanti a Kufra:

C’era una bella ragazza nel nostro gruppo, di circa 16 anni. Quando arrivammo a Kufra ci misero in una casa. Ci dissero di chiamare le nostre famiglie per mandar loro i soldi. Ci tennero in quella casa per due giorni. Se gli parlavamo, ci picchiavano. Portarono fuori la minorenne. Allora cominciammo a crear loro problemi, e riuscimmo ad aiutarla il primo giorno. Il secondo giorno, la ragazza non aveva soldi per proseguire il viaggio con noi. I Libici la fecero rimanere indietro. C’erano 68 persone in due vetture, e lei era l’unica donna rimasta indietro. I Libici cercavano sempre di prendersi le donne.[159]

Successivamente, Daniel fu rinchiuso in una casa di trafficanti a Tripoli dove le donne venivano sfruttate in modo simile:

Ci portarono in una grande casa dove tenevano molti Eritrei e Somali. C’erano circa 190 persone lì. Le porte erano chiuse a chiave. Non potevamo uscire. Passammo una settimana in quella stanza. Ogni giorno, i Libici venivano e si prendevano le donne per farci quello che volevano. Nessuno poteva dormire bene. Eravamo preoccupati che ci avrebbero consegnati alla polizia. Nessuno aveva diritto di fare alcuna domanda.[160]

I problemi per le migranti non si limitano alla fase di viaggio e a quella di detenzione effettiva da parte dei trafficanti; le migranti che passano un periodo vivendo in Libia incontrano problemi per strada o sul posto di lavoro, dove la loro mancanza di uno status giuridico le rende vulnerabili. Iskinder, un Etiope di 40 anni che ora si trova a Malta, ha parlato ad Human Rights Watch di sua moglie, che si trova ancora in Libia. L’Unhcr le ha riconosciuto lo status di rifugiata, ha detto, e lui stesso aveva fatto un’intervista per la determinazione dello status di rifugiato con l’Unhcr, ma lasciò il Paese prima di avere il risultato. La sua testimonianza è inoltre indicativa della reticenza che questi individui hanno nel parlare del trattamento delle migranti in Libia durante la detenzione:

Mia moglie fu catturata nel giugno del 2006 quando il nostro tentativo di partire in barca non andò a buon fine. Era incinta e non poteva correre, e fu presa dalla polizia. Fu arrestata altre tre volte, sempre quando era da sola. Io non uscivo. Stavo con nostro figlio e lei andava a lavorare. La maggior parte dei problemi capitava a lei. Dopo ogni arresto veniva rinchiusa per circa due mesi. Non andavo mai dalla polizia per controllare come stesse. Non mi hai mai detto nulla sul trattamento ricevuto in prigione. Ma anche io sono stato arrestato. So cosa succede alle donne.[161]

Abuso di minori non accompagnati

Le autorità libiche che amministrano la detenzione di migranti non sembrano fare distinzioni tra adulti e minori non accompagnati. Solitamente non detengono i minori non accompagnati in strutture separate e la loro detenzione insieme a degli adulti li mette a rischio di abuso e violenza. I minori non accompagnati sono anche esposti ad altre forme di violenza nel corso della migrazione. Un minore non accompagnato, Kofi, un orfano proveniente dal Ghana, aveva 16 anni quando si trovava in Libia da un anno nel 2007. Kofi afferma sia di essere stato imprigionato e obbligato a lavori forzati in Libia, sia di essere stato obbligato, alla fine, di salire sulla barca che lo ha portato in Europa. Come succede solitamente, la linea di confine tra autorità di polizia e trafficanti è confusa:

Ero l’unico ragazzo in viaggio con un gruppo di 24 adulti. Fummo catturati e portati alla prigione di Zanzur per 12 giorni. Per tutto il tempo passato lì, mangiammo solo pane, pasta ed acqua. Mi ammalai e chiesi assistenza medica, ma me la negarono. Una volta mi spinsero con la faccia al muro.
Le guardie facevano l’appello ogni mattina alle 4:30. Non ero in grado di distinguere la polizia dai militari. Era una grande prigione con detenuti libici, palestinesi, afgani, e bengalesi. Uomini e ragazzi erano in un’area e le donne in un’altra.
La guardia mi portò fuori per lavorare a casa sua. Non facevo che lavorare, tutti i giorni, ma non mi pagò mai. Poi mi diede ad una donna egiziana. Lavorai nella sua fattoria per sette mesi. Neanche lei mi pagò, ma almeno mi dava cibo e vestiti.
Dopo sette mesi la guardia tornò a prendermi. Mi mise con un grande gruppo di 200 persone appena rilasciato dalla prigione. Ci controllava. I suoi uomini urlavano e ci mise su un barcone con la forza. Avevo paura. Piangevo. Mi dissero di stare zitto. Mi controllavano.[162]

Jonatan, un Eritreo di 18 anni, viaggiò attraverso la Libia come minore non accompagnato e passò due mesi in una regolare prigione libica con dei criminali poiché Misurata, il centro di detenzione dove è tenuto un gran numero di Eritrei, era pieno:

Misurata era al completo, quindi mi misero in un’altra prigione con criminali e tossicodipendenti. Non differenziavano tra minorenni e adulti. La prigione era tremenda e la polizia libica è razzista. Se sapevano che eri un cristiano ti facevano cose brutte, come picchiarti. Quando ci catturarono ci presero a pugni come animali. Uno cercò di scappare per quanto erano brutti i pestaggi. Corse via e fu investito da una macchina. Non ci furono indagini. Nessuno si prese la responsabilità della sua morte.[163]

XIV. Abusi all’entrata in Libia

Gli abusi più frequenti, e spesso i più gravi, hanno luogo all’entrata (o al tentativo di entrare) in Libia, o al rientro dopo un tentativo fallito di partenza su barconi, o al momento di espulsione dal Paese. Gli abusi al confine hanno luogo su ogni fronte: est, ovest, e sud. L’identità dell’autorità che commette gli abusi, sia essa la polizia o l’esercito, non è chiara e c’è anche un forte coinvolgimento tra funzionari di sicurezza e trafficanti coinvolti nel trasporto di persone.[164]

I migranti hanno spesso affermato di non avere problemi ad entrare in Libia, e di aver visto i loro autisti e accompagnatori parlare con la polizia. Tuttavia, , se il prezzo non era quello giusto, di solito scaturivano dei problemi.

In alcuni casi, i problemi al confine nascono dal fatto che i migranti vengono abbandonati dai trafficanti, così che non c’è nessuno a negoziare il loro passaggio e a corrompere i funzionari giusti. Fethawi, un Eritreo di 30 anni che ha passato un anno e mezzo in Eritrea come prigioniero politico, entrò in Libia nel 2007 con un gruppo misto di 59 persone tra Somali, Eritrei e Sudanesi. L’accordo tra trafficanti sudanesi e libici nel deserto fallì, e i trafficanti libici abbandonarono il gruppo nel deserto per tre giorni, durante i quali morirono sei persone. Un camionista gli diede un passaggio fino a Kufra:

Ci lasciammo i morti alle spalle. Il camionista ci diede un passaggio e ci lasciò vicino a Kufra. Ci fermarono dei soldati. Chi aveva soldi pagò delle tangenti, ma chi non ne aveva, come me, fu picchiato. Tre soldati mi picchiarono con le loro armi. Mi perquisirono in cerca di soldi e del mio cellulare. Presero uno dei Somali. Pretesero dei soldi da lui, e siccome non pagava, lo gettarono a terra e lo picchiarono con il piede di porco di metallo dell’auto. Ero lì mentre accadeva. Temevo per la mia vita. La testa gli sanguinava. Lo colpirono alle costole. Lo prendemmo con noi. Dovemmo caricarcelo perché non era in grado di camminare. Lo portammo ad Agedabia e lo lasciammo lì. Picchiarono anche me, ma non posso lamentarmi perché ridussero il Somalo in condizioni ben più gravi delle mie.[165]

Mentre alcuni, come Fethawi, hanno riportato di essere stati picchiati e rapinati da polizia o soldati nella zona di confine, altri, come Tomas, un Eritreo di 24 anni, hanno detto che i trafficanti sono i principali responsabili di questo tipo di abusi vicino al confine. Tomas fu abbandonato nel deserto dai suoi trafficanti dopo essere entrato in Libia nel luglio del 2006. Aveva passato i 21 giorni precedenti attraversando il deserto da Khartum. Dopo aver pagato più soldi, i trafficanti li rinchiusero fuori Kufra, dove pretesero altri soldi e li minacciarono di morte:

I trafficanti si drogavano. Non avevano portato pezzi di ricambio per il mezzo. Rimanemmo bloccati nel deserto senza cibo né acqua. L’accordo originario era di pagare250 dollari per andare da Khartum a Kufra. Ma nel mezzo del deserto, i Sudanesi ci consegnarono ai Libici, i quali ci dissero che dovevamo pagare altri 300 dollari altrimenti ci avrebbero abbandonato nel Sahara prima di raggiungere la Libia. Circa il 75 percento di noi fu in grado di pagare, ma pagammo anche per gli altri così che nessuno rimanesse escluso.
Da Kufra, dovemmo pagare altri 300 dollari per andare a Bengasi. Usarono la forza e ci minacciarono con coltelli. Ci picchiarono (...) Secondo gli accordi ci dovevano portare direttamente, ma ci tennero per due giorni in una casa fuori Kufra, dove pretesero altri soldi e ci costrinsero a pagare.[166]

Altri videro i corpi dei migranti che erano stati lasciati nel deserto a putrefare. Madihah, una donna eritrea di 24 anni, era stata abbandonata nel deserto, e vide che cosa era successo ad altri che erano stati abbandonati in modo simile:

Andai a piedi verso la Libia dopo essere stata abbandonata nel deserto. Vidi i corpi di Eritrei e le loro carte d’identità lì nel deserto: due donne e un ragazzo dall’aspetto eritreo. Ci vollero 24 giorni per farcela attraverso il deserto. Si va su un vecchio land cruiser Toyota e normalmente mettono benzene nell’acqua così non ne bevi troppa. Quando è troppo sabbioso, si scende e ci si arrampica sulle dune. Ci sono banditi armati nel deserto che ti chiedono denaro. I soldati esigono tangenti al confine.[167]

Abusi nella zona di confine ovest della Libia

I migranti provenienti dall’Africa occidentale descrivono problemi simili all’entrata dalla frontiera sudoccidentale. Affermano che la polizia di frontiera apre il fuoco su di loro. Innocent, un Nigeriano di 19 anni, ha detto: “la polizia ci fermò al confine con la Libia. Scappammo, di corsa. Ci sparavano.”[168]

In altri casi, la polizia di confine ha rapinato apertamente i migranti, comportandosi non molto diversamente da criminali. Abassi, un Nigeriano diciannovenne, ha descritto il suo primo incontro con la polizia libica dopo un viaggio di dieci giorni attraverso il deserto per entrare in Libia da ovest:

Quando arrivai in Libia, la polizia mi fermò e prese tutti i soldi dalle mie tasche. Strapparono i passaporti delle persone del mio gruppo. Ci picchiarono con dei bastoni e ci presero a calci, ma non ci mandarono in prigione.[169]

In realtà, non sembra esservi una grande differenza tra polizia e rapinatori. Samuel, un Nigeriano di 21 anni, ha detto ad Human Rights Watch di essere stato rapinato sia da civili che dalla polizia quando è entrato in Libia da Tummo nel dicembre del 2007:

Non appena attraversato il confine, mi presero dei ragazzi libici, mi minacciarono con un coltello. Mi dissero di dar loro i miei soldi altrimenti mi avrebbero accoltellato. Questo mi successe appena arrivato in Libia. Camminavo per strada. Mi picchiarono.
Poi la polizia mi prese a Gharyan. Mi chiesero i documenti. Mi fecero svuotare le tasche per prendere quanti più soldi o oggetti di valore fosse possibile. Mi presero i soldi e mi spinsero via. Non mi portarono in prigione. Non era una tangente, era più come una rapina.
Avendo la pelle nera, ti nascondi. Se ti prendono, ti picchiano, ti perquisiscono, e ti rapinano. Devi tenere i tuoi soldi nascosti. Se non glieli dai, ti perquisiscono per trovarli.[170]

Emanuel, un Togolese di 34 anni, si è trovato di fronte ad una serie di problemi sia con civili che con funzionari non appena varcato il confine occidentale della Libia:       

Dei rapinatori ci aggredirono appena entrati in Libia. Accadde nel deserto, al confine con l’Algeria. Questi erano rapinatori, non poliziotti. Uccisero delle persone, presero i nostri soldi, e lasciarono 32 di noi nel deserto senza cibo né acqua. Altri sei morirono di sete. Ci caricò una macchina, portandoci ad Al-Qatrun. Dopo una settimana passata lì, andammo con un'altra auto a Sabha. C’erano posti di blocco per strada. Ti fermano per soldi. Se non hai soldi ti picchiano e ti minacciano di rimandarti nel deserto a morire. La gente rimase senza più nulla, senza cibo né acqua.
Mi arrestarono lungo la strada versoAl-Qatrun. Era il 22 novembre 2005. Mi misero nella prigione di Hun. Fu terribile. Ci davano un po’ di pane e fagioli una volta al giorno. Non sapevamo quando ci avrebbero rilasciati. Lavoravo per il direttore della prigione nella sua fattoria. Non avevamo diritti. Nessuno ti parla, neanche se stai male. Non avevamo alcun contatto con le guardie. Ci tenevano tutti in una stanza. C’erano tre gabinetti nella stessa stanza. C’erano molte, molte persone nella stanza. Non facevano uscire nessuno. Alcuni ci rimasero per più di un anno.[171]

Gowon, un Nigeriano di 21 anni, è entrato in Libia dal Niger nel 2007. Fu arrestato e passò tre mesi in un centro di detenzione nella Libia occidentale. Human Rights Watch lo ha intervistato nel braccio C del centro di detenzione di Safi a Malta. Ha detto che “era una prigione come questa, solamente peggiore”. Ha proseguito:

Il cibo e l’acqua erano cattivi. Cinque persone si dovevano dividere una ciotola di cibo. Ci picchiavano tutti i giorni. Venivano a ispezionarci e ci punivano. Ci prendevano uno alla volta e usavano bastoni per picchiarci e le gambe per prenderci a calci.[172]

Kwesi, un Ghanese di 28 anni, entrò in Libia nel 2007 dal sudovest. Fu arrestato a Sabha ed imprigionato lì per due mesi:

Non si stava bene. Dormivamo nello stesso posto dove facevamo i nostri bisogni. Il cibo era pane e fagioli. Ci picchiavano ogni giorno. Succedeva soprattutto quando non c’era il direttore. Ci colpivano con dei bastoni, di solito due guardie percuotevano una persona. Ti gettavano a terra e ti picchiavano. E non c’era motivo per le botte. Ci mettevano tutti nella stessa stanza, circa 50 o 70 persone con un solo gabinetto. Non c’erano materassi. Dormivamo sul pavimento. Non c’era sapone, non c’era doccia. Alcuni sono impazziti in quella prigione. Alcuni li tennero lì per un lungo periodo. Mio fratello mi mandò dei soldi per farmi uscire.[173]

A volte, i migranti entrano in Libia, senza volerlo, quando le autorità tunisine li scaricano al di là del confine libico nordoccidentale. I Tunisini hanno portato Ezekiel, un Eritreo di 24 anni, al confine con la Libia nell’aprile del 2006 e lo hanno piantato in Libia, lasciandogli i soldi per un taxi così da poter scomparire in Libia. Ma non ha avuto tale fortuna:

La polizia libica ci catturò mentre ci dirigevamo a prendere il taxi. I soldati libici ci picchiarono. Ci colpivano con pugni e ci davano calci con i loro scarponi. Le botte durarono a lungo. Mi sbatterono la testa contro un muro. Ci presero i soldi. Ci portarono alla stazione di polizia di An Nuqat Al Hums. Passammo due mesi in quella stazione di polizia insieme ad altri stranieri detenuti lì.
So l’arabo e parlai con [nome omesso], che era il responsabile alla stazione di polizia. Gli dissi che era duro, che avevmo patito grandi sofferenze per mare e che i soldati non avrebbero dovuto prenderci i soldi. Pretese di sapere quale soldato ci avesse preso i soldi. Quando glielo indicai, [nome omesso] ordinò al soldato di farsi dare una parte dei soldi.[174]

XV. Refoulement dalla Libia e abbandono di persone nel deserto vicino al confine

Sebbene non sembri che la pratica di abbandonare migranti nel deserto nella zona di confine sia insolita, dal 2007 non ci sono stati casi chiaramente documentati di rifugiati o richiedenti asilo rinviati con la forza nei loro Paesi d’orgine o in luoghi da dove sarebbero stati rinviati con la forza.[175] Human Rights Watch ha avuto l’opportunità di intervistare Mili ed Aron, due dei rifugiati che le autorità libiche rinviarono con la forza in Eritrea nel 2004. Da allora sono scappati nuovamente dall’Ertitrea, sono tornati in Libia, questa volta riuscendo a lasciare la Libia ed andare a Malta, dove adesso vivono. Human Rights Watch riferì della realtà del refoulement nel rapporto del 2006, Stemming the Flow ma, chiaramente, all’epoca non fu in grado di intervistare i respinti, i quali furono messi in prigione al loro arrivo in Eritrea. Gli Eritrei continuano ad essere respinti da altri Paesi della regione.[176]

Per Mili ed Aron il dramma del respingimento iniziò il 21 maggio 2004 quando il barcone su cui viaggiavano affondò al largo della costa libica. Sette dei loro compagni di viaggio affogarono. Il resto del gruppo fu catturato sulla costa vicino al villaggio di Kums.

Mili ha riferito ad Human Rights Watch cosa accadde al ritorno sulla costa libica (Aron ha raccontato sostanzialmente la stessa storia in separata sede). È una storia di pestaggi quasi ininterrotti dal momento della loro cattura dopo lo sbarco, fino a quello del decollo, due mesi dopo, dell’aereo che li ha deportati in Eritrea dove furono immediatamente messi in prigione dal loro governo:

C’era la polizia e quasi tutti furono catturati ed arrestati. Quello che mi prese mi minacciò con un coltello. Eravamo stanchi. La polizia ci picchiò e ci chiuse nel bagagliaio. Ci portarono in un’abitazione normale, non una stazione di polizia, e ci tennero lì per una notte.
Il giorno dopo ci portarono a Misurata. Lì ci tenevano 172 persone, tutte dello stesso barcone. Misurata è una prigione grande. C’erano anche altri prigionieri africani. Mi tennero lì per un mese. Mi picchiavano tutti i giorni.
Cercai di scappare corrompendo una guardia. Gli diedi 150 dollari. Gli diedi i soldi, ma altri soldati mi aspettavano fuori e mi catturarono. Ero con un amico. Ci portarono entrambi in una stanza. Ci picchiarono così tanto che vomitai. Usavano l’elettricità. Poi mi diedero botte sulla pianta del piede. Ho ancora delle ferite al piede e problemi a camminare. Mi picchiarono in quattro o cinque. Non fui in grado di camminare per tre settimane. Il mio piede era troppo ferito.
Il pestaggio peggiore fu il primo giorno dopo la cattura seguita al mio tentativo di fuga. Dopo di allora, si trattò di pestaggi normali, per tre giorni nella stanzetta, a me e al mio amico, poi ci fecero tornare nella stanza grande. Il giorno dopo ci mandarono nella prigione di Jawazat, dove c’erano detenuti di varie nazionalità. Ci rimasi quasi un mese. In questa prigione non si stava tanto male quanto a Misurata. I pestaggi erano normali quando contavano la gente al mattino e alla sera; era allora che ci picchiavano. Fui trasferito alla prigione di Al Fellah, dove passai due giorni. Da lì ci portarono ad un aereo. L’ambasciatore eritreo era all’aeroporto. Era il 22 luglio 2004. C’erano 79 uomini e 30 donne sull’aereo.
Una volta atterrati in Eritrea fui arrestato e passai i nove mesi successivi in prigione, e i sei mesi seguenti in un programma speciale di addestramento militare per prigionieri. Sembrava un’altra prigione più che un normale addestramento militare. Dopo l’addestramento, mi rimandarono in prigione. Scappai dalla prigione e andai in Sudan il 1° maggio 2007. Ci passai solo un paio di giorni e poi giunsi in Libia per una seconda volta.[177]

La Libia mandò un altro volo a noleggio per la deportazione di 75 eritrei nell’agosto del 2004, ma i passeggeri sequestrarono il velivolo durante il volo e lo ridiressero verso Khartum, dove l’Unhcr riconobbe a 60 persone lo status di rifugiato.[178] Non si è a conoscenza, dopo questo incidente, di altri voli di deportazione diretti in Eritrea noleggiati dalla Libia, sebbene vi sia stato un tentativo di noleggio di un volo nel luglio 2008 per rinviare 280 Eritrei.[179] L’Unhcr, dalla Libia, fu in grado di intervenire e impedire la loro deportazione.[180]

Permane tuttavia la convinzione, tra alcuni Eritrei, che la Libia continui a mandare indietro degli Eritrei. Gabriel, un ventottenne eritreo che ha passato un mese in Libia nel 2008, era convinto che in caso di cattura sarebbe stato rimandato in Eritrea ad affrontare i suoi persecutori:

Se ti prende la polizia libica durante il viaggio verso la Libia, allora temi di essere rimandato in Eritrea. Ci sono così tante persone arrestate in Libia, così tante prigioni. Se ti rimandano in Eritrea, già si sa che tipo di punizione ti aspetta. Ti possono arrestare per due o tre mesi, o persino ucciderti. Conoscevo delle persone che sono state mandate indietro ma non so dove si trovino. Persino le loro famiglie non lo sanno.[181]

Tra il 2003 e il 2006 la Libia ha rimpatriato circa 200.000 persone.[182] Sebbene la maggior parte di questi migranti fosse entrata irregolarmente per ragioni economiche, alcuni di essi erano individui in cerca d’asilo o rifugiati che rischiavano persecuzione e maltrattamento al ritorno.

Il governo libico sostiene che le persone che rimpatria, nella maggioranza dei casi, ritorna di buon grado;[183] ma considerando le condizioni detentive descritte nel presente rapporto, la mancanza di alternative, e l’assenza di limpide procedure in materia di deportazione, il confine tra rinvii volontari e coatti non è del tutto chiaro.

Abbandoni nel deserto

Le autorità libiche dell’area costiera mettono i migranti (in particolare quelli del Corno d’Africa) su dei camion e li mandano a Kufra allo scopo di deportarli attraverso il confine di terra con il Sudan, ma spesso non vengono effettivamente deportati, piuttosto vengono semplicemente lasciati nel deserto. Forse è per questo che le guardie di frontiera sudanesi non sono disposte ad accettarli (i migranti provengono non solo dal Sudan, ma dalla Somalia, dall’Eritrea ed altri Paesi). Invece, secondo le testimonianze dei migranti, vengono lasciati nel deserto all’interno del territorio libico. In pratica, questo significa che i migranti non hanno altra scelta che mettersi, ancora una volta, nelle mani dei trafficanti che in principio li avevano portati da Kufra verso Bengasi o Tripoli.

Gli stessi viaggi su camion sono estremamente pericolosi e degradanti. I migranti hanno riferito ad Human Rights Watch di venir stipati in veicoli sigillati e quasi privi d’aria. I passeggeri vengono lasciati in piedi per un viaggio di due giorni, senza nemmeno il permesso di urinare o evacuare. Daniel, l’Eritreo di 26 anni che abbiamo anche citato circa l’intercettamento della sua nave da parte della guardia costiera maltese e delle sue esperienze a Misurata,[184] ci ha riferito cosa accadde dopo aver lasciato Misurata. Il suo racconto comincia con lo straziante viaggio sul camion verso il centro di detenzione di Kufra e prosegue con l’ordine del direttore del campo di gettarlo nel deserto a morire:

Dopo tre mesi [di detenzione a Misurata] i Libici portarono un camion e dissero che ci avrebbero riportati nei nostri Paesi. Mi dichiarai Sudanese. Il camion ci portò a Kufra. Era stracolmo, con 200 persone, e mancava l’aria. All’interno del camion si bolliva. Era fatto di metallo. Se dovevamo urinare o evacuare dovevamo farlo in piedi dentro il camion. Durante le soste gli autisti non ci facevano scendere. Arrivammo a Kufra. Era una prigione pessima. Avevo una croce al collo, che mi strapparono via. Dovemmo metterci in fila con la faccia contro il muro. Ci colpivano con un bastone.
Non presero nomi o impronte digitali. Semplicemente, ci ammassarono in 78 dentro una stanzetta. C’erano forse otto stanze di questo tipo. Non c’erano letti, e solo un gabinetto dentro la stanza, ed era rotto. Non c’erano finestre. Non si respirava. Era sporchissimo. Non c’era sapone, non c’era acqua, nessuna possibilità di lavarsi. Dormivamo ammucchiati sul pavimento. Non c’era spazio. Se alzavo una gamba, un altro avrebbe preso lo spazio. Per cibo, ci davano un pugno di riso per sette persone. Solo riso e un po’ d’acqua.
Se facevi rumore, la polizia ti colpiva con una sbarra di metallo. Ci colpivano ovunque. Alcuni avevano le braccia rotte e le guardie non li portavano all’ospedale.
Non c’era un medico. A un certo punto mi sono sentito molto male; avevo la febbre. Cominciarono a sbattere sulla porta per attirare l’attenzione delle guardie per come stavo. Le guardie mi portarono fuori. Il direttore del campo arrivò e disse, “prendetelo e buttatelo nel deserto.”
Un poliziotto mi prese, ma ebbe pietà di me e invece mi portò all’ospedale. Comprò delle medicine con i suoi soldi e mi fecero un’iniezione. Chiese il permesso di lasciarmi dormire fuori. Alla fine, quando mi ripresi, la polizia mi lasciò rientrare.
Ogni due o tre giorni, il capo del campo di Kufra prendeva 25 o 30 persone di notte e le vendeva ai trasportatori libici così da poterci prendere soldi. Altri venivano buttati nel deserto e basta. A volte portavano gente nel deserto e passavano sulle loro gambe in macchina e li lasciavano lì. Mi vendette insieme a un gruppo di 25 o 30 persone ad un Libico che ci mise in una grande casa a Kufra e ci disse che dovevamo farci dare 200 dollari dalle nostre famiglie per farci rilasciare da Kufra e portare a Bengasi. Era troppo, troppo deserto ed alcune persone persero la speranza dopo tre, quattro, o cinque tentativi. Ho sentito che tanti si suicidarono.”[185]

La “deportazione” da Kufra spesso seguiva le traumatiche esperienze di un tentativo fallito di partenza su barcone, di un arresto, o di detenzione nelle prigioni del nord. Benché le autorità trasportino i migranti a Kufra per il presunto scopo di espellerli via terra in Egitto o Sudan, di fatto le autorità di Kufra non li portavano effettivamente al confine ma piuttosto li lasciavano fuori Kufra, nel deserto, o concludevano accordi con i trafficanti che li prendevano per ricominciare tutto daccapo. Tomas, un Eritreo di 24 anni citato sopra, fu mandato a Kufra dopo un tentativo fallito di partire per mare e una detenzione di due mesi nella prigione d Jawazat a Tripoli:

Dopo due mesi, ci misero con un altro gruppo di Eritrei, 150 persone in tutto. Ci misero su un grosso camion. Era talmente pieno che nessuno aveva lo spazio di sedersi. La sola aria che entrava proveniva da dei fori sul tetto del camion; altrimenti era completamente chiuso. Il camion ci portò da Tripoli a Kufra. Partimmo alle sei del mattino, e viaggiammo tutto il giorno e la notte successiva. Il camion rimase chiuso per tutto il viaggio. C’erano delle fessure nel pavimento, e orinavamo da lì. Mi facevano male gli occhi dalla puzza.
Li pregammo di farci prendere aria. Il camion sostava così che gli autisti potessero fare pausa e mangiare, ma a noi non aprivano gli sportelli. Temevano che scappassimo. Il peggio fu quando arrivammo a Kufra. Quando ci muovevamo almeno l’aria circolava. A Kufra, ci fermammo per due ore con un caldo a 45 gradi [centigradi] e si respirava a fatica. Il camion era fatto di metallo. Ci tennero lì due ore per punizione perché avevamo urlato durante il viaggio. Dio è grande! Siamo sopravvissuti tutti.
Quando ci fecero scendere dal camion, eravamo alla prigione di Kufra. Ci passammo una settimana. Ci davano da mangiare soltanto una volta al giorno. Solo riso. Il Ramadan era finito. Avevo già patito due mesi di fame in prigione. Adesso eravamo 800 prigionieri ammucchiati in diverse stanze. Dormivamo su pezzi di cartone. Non c’erano materassi. Era sporco. Le guardie non ci parlavano. Aprivano e chiudevano le porte, e basta.
Kufra è il posto di confine per la deportazione. Da lì ti lasciano, perché non c’è alcun altro posto dove andare. Ci sono sempre tre nazionalità lì – Sudanesi, Eritrei, ed Etiopi. A Kufra, ti ributtano nel tuo Paese. Non ti accompagnano al confine vero e proprio, ti lasciano solo andar via.
Ma i trafficanti sono d’accordo con il comandante della prigione. Quando ci lasciano andare, siamo pronti per il mercato. Gli autisti ci aspettano fuori dalla prigione di Kufra e contrattano per portarci a Tripoli. Cidicono di aver pagato per tirarci fuori di prigione. Poi ci portano fuori città in un luogo in piena campagna.
Gli autisti ci dissero che eravamo in debito con loro perché avevano pagato per tirarci fuori di prigione. Dovevamo dargli la tangente di 40 dinari per averci liberati oppure 400 dollari per arrivare a Tripoli. L’unico modo per far ciò è chiamare la tua famiglia e farti mandare i soldi. La mia famiglia mandò i soldi e tornai a Tripoli.[186]

XVI. Centri di detenzione per migranti: condizioni e abusi

Ex-detenuti di tutti i centri di detenzione per migranti in Libia hanno dichiarato ad Human Rights Watch che le condizioni di detenzione sono pessime. I centri di detenzione sono sovraffollati e sporchi, il cibo è inadeguato e le cure mediche pressoché inesistenti. Non vi è quasi comunicazione con le autorità ed è impossibile persino considerare di impugnare la propria detenzione di fronte alla giustizia. Il contatto con difensori legali è tra minimo e nullo, così come le informazioni sulle ragionio sulla durata della detenzione. Il trattamento delle guardie va dal negligente al brutale, e la corruzione è endemica.

Dal punto di vista amministrativo, le autorità possono detenere i migranti irregolari indefinitamente per via della presunta ragione di organizzare la loro deportazione, anche se non ci sono prospettive immediate per effettuare il loro allontanamento. Una fonte diplomatica in Libia ha riferito ad Human Rights Watch che i migranti possono essere detenuti per un periodo di tempo che va “da qualche settimana fino a 20 anni”.[187] Ci ha dichiarato che la decisione sul rilascio si basa prevalentemente sul sovraffollamento e che gli individui vengono rilasciati nelle fasi in cui i centri di detenzione diventano troppo pieni per contenere altri detenuti.

La Libia è Stato parte del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (Pidcp), il cui articolo 9 stabilisce che “Nessuno può essere arbitrariamente arrestato o detenuto [o] esser privato della propria libertà, se non per i motivi e secondo la procedura previsti dalla legge.” La detenzione è considerata “arbitraria” se non è autorizzata dalla legge o in conformità alla legge. È arbitraria anche quando è casuale, imprevedibile, o non accompagnata da procedure eque per un esame legale.[188]

La detenzione arbitraria è stata definita non solo come contraria alla legge, ma anche comprensiva di elementi di ingiustizia e mancanza di prevedibilità. Dato il crescente fenomeno della detenzione indeterminata di migranti e rifugiati, il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite ha elaborato dei criteri per determinare se la privazione di libertà di migranti e richiedenti asilo sia arbitraria. Il ‘principio tre’ stabilisce che un migrante o richiedente asilo in detenzione preventiva sia “portato tempestivamente di fronte a un giudice o altra autorità,” e il ‘principio sette’ impone che “un periodo massimo dovrebbe essere deciso per legge e che il carcere preventivo  non può essere, in alcun caso, illimitato o di durata eccessiva.”[189]

Sono molti i centri di detenzione e le prigioni in Libia in cui si trovano dei migranti.[190] A seguire, vi sono i resoconti dei centri di detenzione più frequentemente menzionati da ex-detenuti che si trovano ora a Malta o in Italia.

Kufra

Kufra, situato in una remota località sudorientale della Libia, è il posto di detenzione più frequentemente menzionato dai migranti che Human Rights Watch ha intervistato a Malta e in Italia. In questo luogo vengono detenuti sia migranti alla loro entrata nel Paese, sia quando stanno per essere deportati al di là dei confini di terra con il Sudan e l’Egitto. Ma “Kufra” non denota un singolo centro di detenzione. Sebbene a Kufra ci sia un centro di detenzione per migranti gestito dal governo, anche i trafficanti vi tengono le proprie strutture detentive. Talora, i migranti sono incerti nel distinguerli: alcuni descrivono il centro gestito dal governo come “all’apparenza più simile a una casa che a una prigione”;[191] altri descrivono i guardiani delle strutture private come talvolta abbigliati con uniformi dell’esercito. La maggior parte dei migranti ritiene che i trafficanti e la polizia lavorino insieme, per cui, dal loro punto di vista, la distinzione tra strutture detentive ufficiali e private fa poca differenza. In entrambi i casi, i migranti vengono detenuti per un periodo indefinito, hanno una comunicazione minima con i loro carcerieri (che perlopiù ha luogo nella forma di botte e percosse), e non vengono rilasciati fino a che pagano tangenti. Tutti temono di venir scaricati nel deserto.

Nonostante questa sezione si concentri su Kufra, questi resoconti andrebbero letti come un’istantanea di un viaggio continuo e traumatico. La descrizione di abusi a Kufra non andrebbe letta come a se stante, ma come parte di un continuum di sofferenze e abusi. Andrebbe anche notato che diversi migranti hanno raccontato ad Human Rights Watch di essere stati reclusi a Kufra più volte, all’entrata in Libia così come durante il processo di deportazione, sebbene, almeno per quanto riguarda i nostri intervistati, le deportazioni non venivano completate. Piuttosto, i migranti venivano rilasciati dalla prigione di Kufra, spesso direttamente nelle mani di trafficanti che li prendevano in custodia, esigendo più soldi dalle loro famiglie, per portarli, nuovamente, nelle città costiere.

Il centro di detenzione di Kufra

Tra i migranti, il posto del centro di detenzione ufficiale di Kufra solleva paure di deportazione o di abbandono nel deserto. Il centro è  costituito da un cortile centrale e sei stanzoni per la detenzione, ciascuno dei quali può contenere più di cento persone. A seconda del numero di detenuti, alcune stanze a volte rimangono vuote, anche se ciò può creare delle condizioni, non necessarie, di sovraffollamento nelle stanze in uso. La struttura è circondata da mura con prese d’aria vicino al soffitto così che i detenuti non possano vedere nulla all’esterno. Non ci sono medici o infermieri disponibili sul luogo. Al massimo, i detenuti possono andare all’aperto una volta al giorno quando le guardie li contano. Sebbene questa sia un’opportunità per respirare aria fresca, è anche il momento in cui si verifica la maggior parte dei pestaggi.

Ghedi, un Somalo di 29 anni, ha descritto così il periodo trascorso nel centro di detenzione di Kufra nell’aprile del 2008:

Fui catturato entrando nel Paese, e la polizia ci portò alla prigione di Kufra. Era una prigione davvero brutta. C’erano circa 600 persone tenute lì. Dormivamo tutti sul pavimento. Non c’erano materassi. C’era un bagno ogni 100 persone. Ci davano del sapone una volta la  settimana.
Le guardie ci picchiavano senza motivo. Ci schiaffeggiavano in continuazione. Una volta fui colpito con il calcio di un fucile. Le guardie ci picchiavano specialmente di notte, quando erano sotto l’effetto dell’hashish. Alcune guardie ci prendevano a calci con i loro scarponi, altre con le mani o con un’arma. Dormivamo solo prima dei pestaggi. Non chiedevamo nulla. Non facevamo nulla. Venivo colpito su tutto il corpo.
La prima volta pagai 300 dollari e non fui rilasciato. Poi pagai altri 500 dollari e mi rilasciarono. Era notte. I trafficanti, la polizia o l’esercito, erano la stessa cosa. Erano tutti uguali.[192]

Abdul, un Somalo di 22 anni che abbandonò la Somalia per il clima di violenza politica, passò due mesi a Kufra, il marzo e l’aprile del 2008, dove rimase in una stanza priva di finestre con 45 persone. Secondo Abdul il centro di detenzione di Kufra conteneva 300 persone in totale. Ha detto che il centro operava sotto l’autorità della polizia di Kufra. Ci ha spiegato che non c’era abbastanza cibo, che sei persone dovevano ripartirsi una manciata di riso e che doveva condividere uno sporco materasso sul pavimento. Abdul condivideva anche un bagno con le 45 persone nella stessa stanza in cui tutti dormivano e mangiavano. “Era davvero sporco, e dal bagno arrivava cattivo odore quando si mangiava”. Faceva parte di un gruppo famigliare, all’interno del quale vi era anche una donna: 

Le guardie cercavano di approfittarne sessualmente. Provai a fermarli. Mi colpirono. Mi diedero un pugno nell’occhio e mi colpirono con bastoni. Mi portarono in un'altra stanza e mi diedero delle scariche elettriche. Mi tirarnono su per le gambe e mi appesero a testa in giù, tra i 15 e i 20 minuti, e mi sottoposero a scariche alle braccia e alla pancia.[193]

Abdul ha anche riferito di aver visto le guardie di Kufra passare un attizzatoio di metallo bollente attraverso l’orecchio di un detenuto colto in un tentativo di evasione. “Riscaldarono l’attizzatoio fino a farlo diventare incandescente e gli squagliarono l’orecchio”, ha detto.

Iskinder, un Etiope di 40 anni, ha raccontato che fu arrestato dalla polizia Libica e di aver passato un mese nella prigione di Kufra dove, ha dichiarato, i pestaggi erano diffusi:

Non eravamo in grado di capire le guardie, né loro di capire noi. Ci parlavano con dei bastoni. Se volevo aprire la porta, la guardia mi prendeva a calci per farmi spostare. Ho visto gente ridursi con le gambe rotte per le botte.
La polizia diceva che ci avrebbe deportati, ma poi ci portavano dai trafficanti per pagare più soldi per farci riportare a Tripoli. Chi era senza soldi rimaneva a Kufra. Io pagai. Dipende tutto dai soldi.[194]

Abdi Hassan, un Somalo di 23 anni, fu arrestato il 22 gennaio 2008, non appena entrato nella cittadina di Kufra, e passò i tre mesi successivi nel centro di detenzione di Kufra. Ha descritto come “normale” il livello di pestaggi e abusi:

Ci colpivano a casaccio ogni giorno con manganelli da poliziotto. A volte ci prendevano a pugni o a calci con i loro scarponi. I pestaggi si verificano prevalentemente durante il conteggio dei detenuti ai cambi turno alle 6 del mattino e alle 6 del pomeriggio, ma potevano capitare in qualsiasi momento del giorno o della notte. C’erano in tutto dieci guardie, cinque per ogni turno, e un paio erano responsabili della maggior parte dei pestaggi.
La gente si lamentava della mancanza di cibo e si prendeva le botte. C’erano molti contrasti. C’era un gran sacco di gente in una stanzetta, e penuria di viveri. Una vota passammo due giorni senza cibo. Di solito mangiavamo una volta o due ogni due giorni. Il cibo non era mai abbastanza. C’erano perdite nei bagni e gli scarichi fuoriuscivano nel dormitorio. Le condizioni erano tremende.[195]

Centri di detenzione privati a Kufra

Sebbene alcuni degli edifici dove i migranti sono tenuti contro la loro volontà siano chiaramente di proprietà e gestione di trafficanti libici civili, in molti casi i trafficanti si comportano come polizia o esercito, esibendo credenziali di forze dell’ordine o usando equipaggiamento dall’aspetto ufficiale, così che ai migranti, spesso, rimane la chiara impressione che i trafficanti siano legati alle autorità.

Tra i migranti, i centri privati sono conosciuti con diversi nomi: “La casa popolare”, “la fattoria”, e “la casa di [nome omesso]”. In alcuni di questi posti, la gente viene tenuta in delle stanze chiuse; altrove, si tratta di complessi deserti dove i detenuti dormono all’aperto.

La paura che scaturisce dai centri di detenzione di Kufra non deriva solo dalle terribili condizioni e maltrattamenti, ma anche dal fatto che il destino dei migranti è completamente nelle mani dei loro rapitori, e tutti temono di essere lasciati a morire nel deserto. Berihu, un Eritreo di 32 anni, ha raccontato come dopo 18 giorni di attraversamento del deserto del Sahara il suo gruppo di 65 persone fu imprigionato in una casa di Kufra per due settimane, dove i trafficanti pretendevano che i detenuti si facessero trasferire dei soldi dalle proprie famiglie:

Non avevamo nulla. Avevamo sofferto nel viaggio attraverso il Sahara. Eravamo pronti a morire. Era tutto buio, il futuro era buio. Non ci aspettavamo nulla. Se provavi ad uscire dalla porta, ti colpivano con un bastone. Si comportavano come la polizia. Avevano divise dell’esercito ed usavano manganelli della polizia. Ci dicevano di essere dell’esercito e che ci eravamo introdotti illegalmente nel loro paese. Ma non erano veramente dell’esercito.
Li vidi portar via delle donne. Presero una donna col marito. Li fecero uscire insieme, ma una volta fuori dalla stanza, li separarono. Separarono la moglie dal marito e la stuprarono.
Parlo un po’ d’arabo, quindi provai a parlargli, ma mi rispondevano con le botte, quindi dovetti rimanere zitto.
Tutti dovettero pagare per uscire di lì. Dopo aver pagato, ci consegnarono ad un altro criminale che ci portò a Bengasi.[196]

Strutture detentive per migranti nell’area di Tripoli

I migranti hanno riferito ad Human Rights Watch di venir chiusi in centri a Tripoli o nei dintorni, a volte per mesi, ma di non conoscere in nomi effettivi o le specifiche ubicazioni dei posti di detenzione. In particolare a partire dalla chiusura di uno dei centri di detenzione più utilizzati, Al Fellah, non è certo che i migranti facciano effettivamente riferimento allo stesso posto. Non di meno, la descrizione delle condizioni e del trattamento è degna di documentazione anche se le ubicazioni esatte non possono essere specificate con certezza.

Zuls, un Eritreo di 28 anni intervistato a Roma da Human Rights Watch, ha passato tre mesi in una prigione di Tripoli nel 2006. Non sapeva, o non ricordava, il nome del posto, ma era in grado di ricordare come fosse:

Era davvero sovraffollata. Non c’era spazio. Avevamo tutti problemi alla pelle. Non eravamo in grado lavarci, di tenerci puliti. C’era caldo. C’erano solo delle finestrelle in cima alla stanza. Mancava l’aria. Non ci era permesso di andare all’aperto.[197]

Ermi, un Eritreo di 25 anni, ha descritto in termini simili le condizioni di sovraffollamento nel centro di detenzione di Tripoli nel 2006, ma è andato oltre nel parlare della brutalità delle guardie:

Le guardie non ci dicevano niente. L’unico contatto era al momento del conteggio, una volta al giorno. Se dicevi qualcosa, ti colpivano con un manganello nero. Li ho visti colpire un sacco di gente. I colpi non venivano dati solo per far spostare la gente, ma per far loro male. Rompevano braccia. Ferivano la gente. Era normale. Anche la violenza sulle donne era diffusa. Minacciavano di portare le donne in un’altra stanza per abusarne. Avevamo tutti paura che ci avrebbero portati a Kufra. Scappai dopo una settimana. Uno dei miei migliori amici si ruppe una gamba arrampicandosi sul muro. Portarono molti dei miei amici a Kufra, in modo da portarli al confine tra Sudan e Libia.[198]

L’aeroporto

Vi è un nuovo centro di detenzione a Towisha vicino all’aeroporto di Tripoli che sembra, al momento, il più grande centro di detenzione per migranti in Libia, e che contiene, ogni giorno, circa 900 persone. Alcuni ci sono rimasti per due anni, sebbene si tratti, in teoria, di un centro per detenzioni di breve periodo. Raramente è permesso ai detenuti di uscire dalle celle prive di finestre e dai muri elevati, e quando in effetti escono è solo per entrare in un cortiletto senza alcuna vista se non quella, sopra di loro, del cielo. Ironicamente, a Towisha vi è un giardino ben tenuto oltre le mura, che i detenuti non vedono mai. Il centro di Towisha viene utilizzato prevalentemente per migranti che sono in procinto di essere deportati via aria dalla Libia, che è la modalità più diffusa di deportazione.

Human Rights Watch non avuto modo di intervistare nessuno degli ex-detenuti di Towisha, forse perché è un centro relativamente nuovo o forse perchè la maggior parte dei suoi detenuti viene rinviata nei Paesi d’origine. Ciononostante, abbiamo intervistato Aron, un Eritreo di 26 anni che ha detto di essere stato detenuto all’aeroporto per un mese nel 2007, sebbene non fosse sicuro che si trattasse o meno di una struttura detentiva legittima vera e propria:

Fui tenuto nella prigione dell’aeroporto per un mese, e venivo picchiato regolarmente. Non sono sicuro che si trattasse di un posto legale. Era fatto di metallo, era bollente di giorno e freddo di notte. Pagai una tangente di 500 dollari per uscire. Sono dei ladri. Tengono la gente solo per far soldi. Fanno affari (...) mettono la gente in cattive condizioni così che la gente contatti le famiglie per avere soldi.[199]

Centro di detenzione di Jawazat

Aman, un Eritreo di 26 anni, ha descritto il centro di Jawazat a Tripoli come una prigione:

Mancavano materassi, coperte, lenzuola. C’erano 32 nazionalità e 75 persone in una stanza, circa 300 in tutta la struttura. Il cibo era inadeguato. Per 300 persone c’era un solo bagno. Era sporchissimo. Non c’era assistenza medica.
Le guardie erano come quelle di Misurata. Era normale per loro picchiarci. Ci picchiavano vicino all’ufficio del capo. Usavano scariche elettriche, ma non colpivano sulla pianta del piede.[200]

Tomas, un Eritreo già citato in precedenza, fu tenuto a Jawazat per due mesi alla fine del 2006:

Eravamo nella stessa stanza con altri 160. Tutti in una stanza. Era come un garage per auto con solo dei buchetti in alto come finestre. Dovevamo urinare in bottiglie di plastica da buttare via la sera. Ci permettevano di andare in bagno solo una volta al giorno. In molti avevano problemi alla pelle. Non c’era sapone. Ci davano acqua da bere in un barattolo. In molti avevamo problemi di stomaco. Dovevamo supplicare le guardie di portare al bagno chi stava male.
Le guardie erano crudeli. Si drogavano. Li vedevamo fumare hashish tutti i giorni. E scherzavano, “Dove sono i Cristiani che non stanno digiunando?” [era Ramadan] Si vedeva come ci discriminassero e ci dicevano che non gli piacevano i Cristiani.
Un giorno, stavamo cantando. Arrivarono le guardie e ci dissero, “Chi sta facendo chiasso?” Gli altri dissero, “Sono i Cristiani”. Tirarono fuori noi sei e ci picchiarono. Ci percossero i piedi con una mazza di legno. Picchiarono sulle piante dei piedi tra i cinque e i 10 minuti. Due guardie sistemarono un’asse di legno sotto le nostre gambe, e poi legarono le gambe al legno. Cademmo all’indietro, e poi colpirono sui piedi. Ce lo fecero a tutti e sei. Ci colpirono solo sui piedi. Sanno che dopo le percosse è impossibile camminare, ma ci fecero correre intorno al cortile dopo averci colpito i piedi. Questo accadde a mezzanotte.
Il capo del campo non era lì quando questo accadde, ma tutte le guardie sapevano che stava succedendo.
Ora sto bene. Non ci sono stati danni permanenti, ma la prigione è stata molta rigida per me. Condiziona la tua identità, chi sei. Ti vedono come inferiore e ti senti inferiore a loro, fisicamente e spiritualmente.[201]

I centri di detenzione lungo la costa nord-occidentale della Libia (fuori Tripoli)

Al-Zawiya

Al-Zawiya, una cittadina a sud-ovest di Tripoli, ha uno dei centri di detenzione più grandi di tutta la Libia. Viene utilizzato, generalmente, per i migranti che vengono rinviati in Libia in seguito a un tentativo fallito di partenza con barconi, comprese la maggior parte delle donne che sono state intercettate dall’inizio della politica di respingimento dell’Italia dal maggio 2009. Quella di Al-Zawiya è una struttura notoriamente sporca e sovraffollata. Le testimonianze raccolte da Human Rights Watch riportano che le dimensioni delle celle erano di circa 8 metri per 8, e che vi si trovano, spesso, fino a 150 persone alla volta. Le celle femminili non sono altrettanto sovraffollate per la semplice ragione che ci sono meno donne in uno spazio simile.

Abdul, il Somalo di 22 anni che viene anche citato nel resoconto della sua permanenza di due mesi nel centro di Kufra, fu arrestato e portato ad Al-Zawiya dopo che il suo barcone fu intercettato dalla marina libica. “Non era una buona prigione,” ha dichiarato. “Era come a Kufra. Era sporchissimo. Era gestito dalla polizia, non dall’esercito.” Abdul ha anche detto di aver corrotto una guardia per fuggire da Zawiya.[202]

Adeban, un Ghanese di 27 anni che fu detenuto per tre mesi nel centro di Al-Zawiya, ha detto di essere stato picchiato ogni mattino con dieci frustate durante il conteggio. Alla fine, fu rilasciato dopo aver pagato una tangente di 200 dollari.

Innocent, un Nigeriano di 19 anni, fu detenuto ad Al-Zawiya del 2007. Ha raccontato che era un campo di deportazione, ma che per lui essere deportato non significava necessariamente un ritorno in Nigeria; poteva significare, allo stesso modo, una morte nel deserto.

La gente veniva picchiata tutti i giorni. Veniva colpita duramente con mazze di legno. Se dicevi di essere cristiano, ti picchiavano e ti buttavano nel deserto. Ho scordato i nomi delle persone che morirono. Davano loro le benedizione, dicendo “Allah gali”, allora sapevamo che erano morti.[203]

Misurata

Misurata, una struttura detentiva sulla costa a circa 200 chilometri a est di Tripoli, è di fatto divenuta, in anni recenti, un centro specializzato prevalentemente per rifugiati e richiedenti asilo eritrei ed altri individui di interesse per l’Unhcr. Raccoglie di solito tra le 600 e le 700 persone, alcune per due o tre anni.

A causa del coinvolgimento dell’Unhcr a Misurata e della presenza delle Ong sue partner che vi prestano i propri servizi, il centro di Misurata è considerato come il centro di detenzione modello della Libia, ed è stato relativamente  aperto a giornalisti ed Ong. Ciononostante, i migranti hanno raccontato ad Human Rights Watch di venire picchiati regolarmente a Misurata. A volte i pestaggi cominciavano all’arrivo. Dopo essere arrivati esausti, disidratati, e spaventati, le forze dell’ordine libiche e i funzionari di polizia li accoglievano, nel migliore dei casi, con un’insensibilità indifferente e, nel peggiore, con netta brutalità. Secondo l’Unchr, tali pestaggi ed altri abusi sono terminati nel 2007 con la presenza dell’Unhcr e le Ong sue partner.[204]

Daniel, un Eritreo di 26 anni, precedentemente citato circa il suo intercettamento e rinvio da parte della Guardia costiera maltese nel luglio del 2005,[205]  fu picchiato al porto una volta tornato a Tripoli, stipato insime a molte altre persone su di un camion chiuso, e trasportato a Misurata. La sua storia continua:

Poi arrivammo a Misurata, e aprirono gli sportelli del camion. Non appena si aprirono le porte, le guardie erano lì ad aspettarci e cominciarono a picchiarci immediatamente. Ci colpivano con bastoni per farci scendere dal camion.
Ci trattarono male a Misurata. C’erano Eritrei, Etiopi, Sudanesi, ed alcuni Somali. Le stanze non erano pulite. Ci concedevano solo mezz’ora d’aria al giorno e l’unico motivo per cui ci facevano uscire era per contarci. Ci sedevamo al sole. Chiunque parlasse veniva colpito. Mi colpivano con un tubo di plastica nero.
Non c’era l’Unhcr. Nessuno veniva a trovarci. Persino la polizia non ci interrogava. Non ci dicevano mai niente. C’era un’altra stanza per le donne e i bambini. Ogni notte le guardie prendevano le donne per soddisfare le proprie voglie. Conobbi una donna incinta pronta a dare alla luce il figlio. Gli diede luce lì, in prigione con noi.[206]

Secondo Daniel, alcune persone sono state detenute a Misurata per nove mesi. Aman, un Eritreo di 26 anni, che passò un mese a Misurata dopo che la sua barca fuori uso, con a bordo 172 persone, tornò in Libia il 21 maggio 2004, ha riferito che i pestaggi erano più frequenti di venerdì, quando i supervisori erano più noncuranti e assumevano droghe:

Fui arrestato durante un tentativo di lasciare la Libia. Quando facemmo partire la barca, il timone e la bussola si ruppero, quindi tornammo dopo un’ora. Allo sbarco la polizia era già lì. Mi colpirono sulle mani e sulle braccia. Ci portarono prima alla stazione di polizia di Kumas, vicino al mare, dove passammo un giorno. Da lì, ci portarono a Misurata, dove passammo un mese. A Misurata tutti venivano picchiati. Non ci trattavano bene.
Di notte, i pestaggi erano la regola. I pestaggi peggiori erano di venerdì. Le guardie si drogavano soprattutto di venerdì e picchiavano i prigioneri. Ci portavano in una stanzetta per dei pestaggi più estesi. A volte ci colpivano con un bastone, un manganello da poliziotto, altre con una sbarra di metallo. Ci colpivano soprattutto sull’interno del piede. A volte usavano scariche elettriche. La corrente passava per un filo con il quale toccavano la pelle. A volte ci frustavano con un cavo elettrico dove non passava elettricità.
Non mangiavamo a sufficienza a Misurata. I detenuti si suddividevano tra un 80 percento di Eritrei ed un 20 percento di Etiopi.[207]

Altri venivano portati a Misurata dopo la cattura sulla strada tra Kufra e la costa. Jonas, un Eritreo di 39 anni, fu arrestato poco dopo il suo arrivo in Libia il 12 ottobre 2008:

Ci arrestarono sulla strada per Tripoli e ci portarono a Misurata. Si stava così male lì. Non c’era alcun rispetto per i diritti. Nessuno sapeva quanti mesi ci sarebbe stato recluso. Rimasi per tutto il tempo in una stanza chiusa con altre 25 persone. Era sporco. Dormivamo nella stessa stanza dove c’era il bagno. Ci picchaivano con manganelli. Picchiavano una persona in tre o quattro alla volta. Non c’era alcuna comunicazione con loro. Dopo tre mesi scappai.[208]

Alcuni ex-detenuti hanno fatto cenno alla presenza dell’Unhcr a Misurata, ma riferiscono che nella struttura gli abusi continuavano nonostante una attenzione internazionale maggiore che in altri siti. Teame, un Eirtreo di 28 anni, aveva passato 10 mesi di detenzione a Misurata nell’estate del 2007. Ha detto che erano tutti Eritrei e che l’Unhcr veniva in visita ogni paio di mesi e portava via dei rifugiati, ma che questo non lo faceva sentire in alcun modo più sicuro con le guardie:

Il trattamento era davvero cattivo, anche se i pestaggi non erano tanto gravi quanto quelli che avevo subito in altri posti. Mi picchiavano con un bastone ed il calcio dell’arma. Eravamo in tanti e ci picchiavano tutti. Ogni giorno, botte. La lingua con la quale ci parlavano erano le botte. Quando chiedevano da mangiare ci colpivano.
Le donne, di solito, venivano trattate un po’ meglio, ma so di una donna che fu presa a botte fino a che le si paralizzò la gamba. C’era un’altra ragazza che fu copita al rene e stava malissimo. Non c’era rispetto per le donne.
Due del nostro gruppo morirono a Misurata, erano malati e non ricevettero cure. Non sapevamo che malattia avessero. Uno aveva 26 e l’altro 20 anni. Nessun medico venne a Misurata.
Le guardie erano disumane. Ci contavano uno per uno e ci facevano stare in piedi sotto un sole cocente per ore. Se uno qualsiasi di noi avesse fatto obiezioni o parlato ci avrebbero preso a botte. Non c’è modo di spiegare i pestaggi, perchè fui picchiato ovunque. Se una qualunque delle guardie aveva un problema a casa, si sfogava su di noi picchiandoci.
Pagai 700 dìnari [circa 360 dollari] alle guardie per rilasciarmi dopo 10 mesi di detenzione. Pagai la tangente a due guardie: una per aprire il cancello, l’altra per aspettarmi dall’altro lato e lasciarmi uscire. Riuscimmo ad andarcene in questo modo con un gruppo di 50-60.[209]

Nonostante l’Unhcr e la sua Ong partner, la Iopcr, abbiano recentemente introdotto una clinica a Misurata con tre medici a tempo pieno, gli ex-detenuti hanno riportato che, ancora fino a tutto il 2007, non vi erano cure mediche dipsonibili neanche per detenuti gravemente ammalati.

Madihah, un’Eritrea di 24 anni, ha descritto così la precarietà delle condizioni sanitarie:

Non c’erano cure per i prigionieri, nessuna attenzione medica. Alcuni impazzivano, altre hanno avuto figli in prigione. Tutti soffrivano di allergie. Ho sentito che un uomo è morto lì due mesi fa per la mancanza di cure. Si vedevano gli insetti sopra le ferite.[210]

Sebbene il centro di Misurata sia stato più aperto all’esterno di altri centri per migranti in Libia, le visite di Ong e giornalisti hanno rivelato un substrato di minacce e intimidazioni. Il giornalista italiano Gabriele del Grande e il giornalista televisivo tedesco Roman Herzog, ottennero il permesso di visitare Misurata il 20 novembre 2008 ma non gli fu permesso di intervistare privatamente i detenuti. Il direttore del campo, il colonnello, ‘Ali Abu ‘Ud, si aggirava nei paraggi ascoltanto le lamentele dei detenuti  fino a che non è più riuscito a trattenersi. Scrive del Grande:

Il colonnello Abu ‘Ud segue la conversazione grazie alla traduzione in arabo dell’interprete, finché non riesce più a trattenersi. “Vuoi ritornare in Eritrea?” chiede a J. interrompendo bruscamente l’intervista. “Preferisco morire – gli risponde – tutti preferirebbero morire. “Se vuoi andare in Eritrea ti rimpatriamo in un solo giorno” minaccia il direttore.
“Ci vietano di parlare con te” dice J. a Roman. Il direttore diventa furioso. Gli grida in faccia “Dite loro che li rimpatrieremo tutti!”. Poi si avvicina a Roman e con un urlo secco ordina: “Finito!”. Roman cerca di protestare, “abbiamo finito” gli ripette Abu ‘Ud mentre gli agenti lo tirano per le braccia verso l’uscita. Intanto il colonnello sale sui gradini e si rivolge a gran voce a tutti i rifugiati che nel frattempo si sono avvicinati per vedere cosa stia accadendo. “Se vi sentite maltrattati qui, organizzeremo il vostro rimpatrio immediatamente. Avete già rifiutato di ritornare nel vostro paese, ecco perchè siete in questo posto. Ma ognuno di voi è libero di ritornare in Eritrea! Chi vuole andare in Eritrea?” chiede alla folla. “Nessuno!” gli fanno eco i presenti. Scende e grida al mio collega “Hai visto! Adesso abbiamo veramente finito.”[211]

Zuwara

Dall’esterno Zuwara ha più l’aspetto di una casa che di un centro di detenzione, ma le porte sono murate all’interno e chiuse. I detenuti dormono sul pavimento. Ex-detenuti riferiscono che gli venivano dati acqua e cibo e niente più. È uno dei posti dove vengono portati i migranti dei barconi respinti dagli Italiani a partire dal maggio 2009.

Abdikarim , un Somalo di 21 anni, era su di un barcone intercettato dalla marina libica nel marzo del 2008. Fu riportato in Libia e mandato al centro di dentenzione di Zuwara, dove passò i tre mesi successivi.

Le condizioni erano terribili ma non ebbi problemi personali con nessuna delle guardie, quindi non mi successe niente. Se una guardia ti diceva di fare qualcosa, e non lo facevi immediatamente, ti picchaivano. Eravamo in 20. Dormivamo sul pavimento. Ci lasciavano uscire all’aperto pr una decina di minuti al giorno.[212]

Abdikarim ha riferito che le guardie dicevano ai detenuti che potevano pagare per uscire. Per ottenere il proprio rilascio pagò 700 dollari.

Zleitan

Alcuni migranti che falliscono nel tentativo di partire via mare vengono portati in un centro di detenzione a Zleitan, una città portuale ad est di Tripoli. Mohammed Hassan, un Somalo di 27 anni con ecchimosi sul petto e le gambe, ha riferito ad Human Rights Watch delle sue recenti esperienze nel centro di detenzione di Zleitan, dopo una partenza non riuscita con un barcone:

Il motore non funzionava. Rimanemmo per  quattro giorni sulla barca senza acqua né viveri. Morirono tre persone. Quando tornammo a riva, la polizia ci aspettava sulla spiaggia. Provarono a farsi dare tangenti ma del nostro gruppo di 56 persone solo uno aveva abbastanza soldi per per una tangente. Portarono tutti noi altri alla prigione di Zleitan, dove passammo i successivi 24 giorni.
Non c’era abbastanza da mangiare. Ci davano zuppa con riso. Era piena di sale e mi faceva male allo stomaco. Lì avevano tutti la scabbia e malattie alla pelle. Mi ammalai. Mi venne un foruncolo sul petto. Non c’erano medicine. Te le potevi scordare.
Quando gli dissi che stavo male, mi portarono fuori e mi picchiarono. Mi colpirono per circa mezz’ora con barre di metallo e cavi elettrci. Fui picchiato piu di cinque volte a Zleitan. Il direttore della prigione non picchiava la gente, solo le guardie. Ho ancora lividi sul petto e sulle gambe per i pestaggi.
Poi mi trasferirorno in un’altra prigione, a Garabulli. Era meglio che a Zleitan perchè lì non mi picchiavano. Il direttore a Garabulli prende tangenti. Scrissi a mia madre di mandarmi i soldi. Quando li ricevette, mi liberò. Passai quattro mesi in detenzione.[213]

Molti dei migranti che sono stati intercettati e rinviati in Libia dagli italiani sono stati portati anche a Garabulli.

Abdi Hassan, un Somalo di 23 anni, era su un barcone che affondò e fu salvato da una barca privata che lo portò a Zleitan. All’arrivo, dei soldati lo catturarono e misero lui ed altri 25 in una vettura chiusa, e li trasportarono a quella che lui descrive come la “prigione della guardia costiera” di Zleitan. Fu tenuto lì, insieme agli altri 25 compagni di viaggio, in una cella di 10 metri per 10 dove, racconta, “i giovani soldati libici si divertivano picchiandoci e maltrattandoci.” Fu tenuto in questa cella per un mese.

Abdi Hassan fu rilasciato da Zleitan il 7 luglio 2008. Ha descritto così il suo rilascio:

Il capo della prigione mi usò come interprete per tradurre un annuncio a tutti i prigionieri. Disse: “È arrivato il momento di fare affari. Mi dovete pagare tutti 1000 dollari per il salvataggio in mare. Chi paga sarà mandato dai trafficanti per essere aiutato ad andare in Europa.” La maggior parte di noi pagò. Ci rilasciarono tutti e ci portarono con auto della polizia al quartiere di Abu Salim, e ci lasciarono alla porta di casa di un trafficante, dove tutto era cominciato prima che la nostra barca affondasse.[214]

Sabratha

Un altro posto dove i migranti hanno riferito di maltrattamenti da parte delle guardie è il centro per migranti di Sabratha, situato sulla costa, ad ovest di Tripoli, a metà strada verso Zuwara. Tomas, un Eritreo di 26 anni, ha riferito ad Human Rights Watch di essere stato torturato dalle guardie del centro, nel giugno del 2007, come punizione per un tentativo di evasione:

Alle porte della prigione, cominciammo tutti a correre. Circa 32 persone corsero in tutte le direzioni; 18 furono presi. Io ero tra questi. Quando mi catturarono, i comandanti sapevano che ero quello che aveva organizzato la fuga. Mi presi la punizione per tutti quelli che erano riusciti a scappare. 
Mi picchiarono tre guardie con sbarre di legno e di metallo.  Mi picchiarono per più di dieci minuti. Mi chiamavano “negro” mentre mi picchiavano. Quando caddi a terra, mi presero a calci. Mi colpirono in testa con una sbarra di metallo. Ho cicatrici e dolori alla testa. Ho ancora dolori alle spalle, le sbarre di metallo erano sottili, ma non si piegavano. 
Mi picchiarono non appena mi presero. Quelli di noi che erano scappati, li legarono in un modo speciale. Per due giorni, ci tennero separati dagli altri. Ci buttavano acqua addosso. Non potevo camminare per i dolori all’inguine. Temevo davvero di avere un’emorragia interna alla testa. Non potevamo neanche sognarci di vedere un dottore o un infermiere. 
Mi tennero a Sabratha per due settimane. Lì tenevano circa cento persone. C’erano Eritrei, Africani occidentali, ed Etiopi. Era un posto davvero sporco. Dovevamo urinare in bottiglie di plastica. Alcune delle persone che mi picchiarono all’inizio furono le mie guardie per le due settimane successive. Continuarono a trattarmi duramente. Continuarono a picchiarmi. 
Quando c’era l’amministratore della prigione, il trattamento migliorava. Non ti picchiavano di fronte all’amministratore. Chiaramente, le guardie si drogavano. Quando erano sotto l’effetto di droghe, si sentivano superiori e ci trattavano come cani. È in quei momenti che ci prendono fisicamente a calci come cani.[215]

Ganfuda

Ganfuda è un centro di detenzione fuori Bengasi che, al momento della stesura del presente rapporto, contiene 450 detenuti, prevalentemente Somali ed Eritrei. Alcuni dei detenuti sono stati a Ganfuda per cinque anni, secondo resoconti dei migranti. I migranti lo descrivono come una prigione. Abdi Hassan, il Somalo che è  stato menzionato nella descrizione del centro di Kufra, vi fu tenuto per sei mesi. Diversamente dalla maggior parte dei centri di detenzione, dove i contatti tra le guardie e i detenuti sono minimi, a Ganfuda, secondo Abdi Hassan, ogni detenuto veniva interrogato (e picchiato) individualmente:

C’erano circa 100 prigionieri somali lì. Ognuno di noi veniva convovcato in una stanza a parte per gli interrogatori. Quando entrai nella stanza, il figlio del direttore della prigione mi interrogò e mi picchiò. Le altre guardie stavano a lato, ma lui mi picchiava con una mazza di legno. Passò tre o quattro minuti a percuotermi la pianta dei piedi. Colpiva ciascun piede per cinque o sei volte.[216]

Abukar, un Somalo di 25 anni, era stato a Ganfuda per più di un anno all’epoca dell’intervista con Human Rights Watch. Veniva tenuto in una cella con altri 70 Somali. Racconta: “Le guardie ci tengono chiusi qua dentro e basta. Ci umiliano. Ci picchiano. Se gli parliamo, ci puniscono con molta durezza. Ci fanno del male con l’elettricità.”[217] Abukar ha riferito ad Human Rights Watch di un incidente accaduto il 10 agosto 2009:

Ieri notte un gruppo di Somali e Nigeriani ha visto che il cancello esterno era aperto e ha provato a fuggire. Le guardie hanno aperto il fuoco su di loro. C’erano circa 30 guardie, ma sono stati in cinque a sparare. Sono riuscito a vedere che la maggior parte dei miei amici è stata ferita, e che alcuni sono caduti a terra. Sono riuscito a vedere che qualcuno è stato colpito da tre pallottole. Non so se qualcuno di loro sia stato ucciso. Tra i 30 e 50 sono riusciti a scappare, ma le guardie li hanno riportati indietro, compresi due che avevano perso i sensi. Un’ora più tardi, altre guardie sono arrivate e hanno cominciato a picchiarci.[218]

Voice of America ha riportato l’incidente, e con esso la smentita dell’Ambasciatore libico in Somalia che si fosse verificata un’evasione dalla prigione o che qualcuno fosse stato ucciso.[219] Secondo fonti Somale, 20 detenuti sarebbero stati uccisi a colpi d’arma da fuoco.[220]

Riconoscimenti e ringraziamenti

Questo rapporto è stato scritto e documentato da Bill Frelick, direttore delle Politiche per Rifugiati ad Human Rights Watch. Il rapporto è stato anche documentato e curato da Heba Morayef, ricercatrice per Medio Oriente e Nord Africa. Leslie Lefkow e Ben Rawlence, ricercatori nella divisione Africa ad Human Rights Watch, hanno compiuto ulteriori ricerche sul campo. Helen Butcher ha effettuato ricerca legale e assistenza nella revisione. Il rapporto è stato curato da Iain Levine, direttore dell’Ufficio Programmi. Clive Baldwin, consigliere legale esperto, ha effettuato la revisione legale. SarahLeah Whitson, direttrice della Divisione Medio Oriente e Nord Africa, Ben Ward, co-direttore della Divisione di Europa e Asia Centrale, Judith Sunderland, ricercatrice nella Divisione di Europa e Asia Centrale, Liesl Gerntholtz della Divisione per i Diritti delle Donne, Simone Troller della Divisione Diritti dell’Infanzia, e Lefkow della Divisione Africa, hanno fornito commenti, così come l’Unhcr e i rappresentanti di Ong ed enti che prestano assistenza legale in Libia, Italia e Malta. Valerie Kirkpatrick del Programma Rifugiati ha assistito la fase di revisione. Grace Choi dell’Ufficio Programmi ha dato assistenza di produzione. Hanno fatto da interpreti sul campo Adil Mohammed Ahmed e Muhammed Ismail a Malta, e Manfred Bergmann e Michael Ghebregherghis in Italia. Tino Camarda della Divisione Medio Oriente e Nord Africa ha eseguito ricerche aggiuntive e traduzioni. Janna Rearick ha eseguito ulteriori ricerche legali.

Human Rights Watch esprime il suo ringraziamento agli enti che promuovono ed effettuano assistenza legale e sociale in Libia, Italia e Malta, in particolare agli staff della Fondazione Gheddafi, del Servizio dei Gesuiti per i rifugiati, di Medici Senza Frontiere, del Consiglio italiano per rifugiati, di Save the Children, e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Siamo particolarmente grati ai governi italiano e maltese per averci concesso di accedere ai centri di detenzione per migranti a Malta, in Sicilia e a Lampedusa.

[1] Convention relating to the Status of Refugees, 189 U.N.T.S. 150, entrata in vigore il 22 aprile 1954

[2] International Convention on the Protection of the Rights of All Migrant Workers and Members of Their Families (Migrant Workers Convention) adottata il 18 dicembre 1990, G.A. Res. 45/158, annex, 45 U.N. GAOR Supp. (No. 49A) at 262, U.N. Doc. A/45/49 (1990), entrata in vigore il  1°luglio 2003.

[3] Protocol to Prevent, Suppress and Punish Trafficking in Persons, Especially Women and Children, Supplementing the United Nations Convention on Transnational Organized Crime (Trafficking Protocol), adottato il 15 Novembre 2000, G.A. Res. 55/25, annex II, 55 U.N. GAOR Supp. (No. 49) at 60, U.N. Doc. A/45/49 (Vol. I) (2001), entrato in vigore il 25 dicembre 2003.

[4] Protocol Against the Smuggling of Migrants by Land, Sea and Air, Supplementing the United Nations Convention Against Transnational Crime (Smuggling Protocol), adottato il 15 Novembre 2000, G.A. Res. 55/25, annex III, U.N. GAOR, 55th Sess., Supp. No. 49, at 65, UN Doc. A/45/49 (Vol. I) (2001); 40 ILM 384 (2001), entrato in vigore il 28 Gennaio 2004.

[5] Il “Trafficking in Persons Report 2009” del Dipartimento di Stato degli Usa classifica la Libia come un Paese “tier 2, Watch List” per il traffico umano. “Benchè non siano disponibili cifre precise, osservatori stranieri stimano che tra lo 0.5 e l’un percento di stranieri (cioè fino a 20.000 persone) siano vittime di traffico umano. In alcuni casi, i debiti legati al traffico e lo status di illegalità lasciano i migranti esposti a una coercizione che può sfociare in prostituzione o lavoro forzato; chi impiega i migranti irregolari, a volte, trattiene i pagamenti o i documenti di viaggio.” U.S. Department of State, Trafficking in Persons Report 2009.

http://www.state.gov/documents/organization/123357.pdf (consultato il 6 luglio 2009).

[6] Human Rights Watch, Libya - Stemming the Flow: Abuses Against Migrants, Asylum Seekers and Refugees, Vol. 18, No 5 (E), settembre 2006, http://www.hrw.org/en/node/11164/section/1. Estratti in italiano dal rapporto sono disponibili all’indirizzo web http://www.hrw.org/reports/2006/Libya0906/Libya0906itweb.pdf (Da qui in poi, Stemming the Flow)

[7]“UNHCR deeply concerned over returns from Italy to Libia”, comunicato stampa dell’Unchr  del 7 maggio 2009, http://www.unhcr.org/4a02d4546.html (consultato il 26 giugno 2009).

[8]La Guardia di Finanza (GdF) è uno speciale corpo di polizia del Ministero dell'Economia e delle Finanze che svolge funzioni di pubblica sicurezza, polizia giudiziaria e tributaria in stretta collaborazione con il Ministero della Difesa, compreso il controllo delle frontiere italiane sia terrestri che marittime. La guardia costiera italiana è affidata al Corpo delle capitanerie di porto - Guardia Costiera (comunemente detto Guardia Costiera), che opera in quanto corpo tecnico della Marina Militare sotto il Ministero della Difesa. Alla Guardia Costiera è affidata la salvaguardia della vita umana in mare.

[9]“Consegnate alla Libia tre motovedette della Guardia di Finanza per il pattugliamento nel Mar Mediterraneo,”  Ministero dell’Interno – Notizie, 14 maggio 2009, http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/notizie/immigrazione/0193_2009_05_14_gaeta_consegna_motovedette.html_1084908904.html (aperto il 23 luglio 2009). Vedi anche “Italy gives Libya Three Patrol Boats,” Ansa, 14 maggio 2009, http://74.125.95.132/search?q=cache:AMgxcojSgTAJ:www.ansa.it/notiziari/engmediaservice/2009-05-14_114357642.html+Italy+gives+Libya+Three+Patrol+Boats&cd=1&hl=it&ct=clnk&gl=it (aperto il 27 luglio 2009). L’Italia ha accettato di consegnare alla Libia sei navi della Guardia di Finanza (tre guardacoste della classe “Bigliani” e tre vedette veloci classe V.5000) che verranno controllate sia da equipaggi italiani che libici.

[10] Ibid.

[11]Ibid.

[12]Nick Squires, “Concentration camps for immigrants’ admission by Silvio Berlusconi,” Telegraph.co.uk, 20 maggio 2009, http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/italy/5355280/Concentration-camps-for-immigrants-admission-by-Silvio-Berlusconi.html, (consultato il 17 luglio 2009).  Vedi anche:  Herman Grech, “Where have all the immigrants gone?” Times of Malta, 28 giugno 2009, http://www.timesofmalta.com/articles/view/20090628/local/where-have-all-the-immigrants-gone? (consultato il 29 giugno 2009).

[13]UNHCR Briefing Note, “UNHCR interviews asylum seekers pushed back to Libya,” 14 luglio 2009, http://www.unhcr.org/4a5c638b6.html (consultato il 17 luglio 2009).

[14]“Immigration: Illegal Arrivals from Sea Halved in Italy,” ANSAmed, citazione di Frontex, 9 luglio 2009, http://www.ansamed.info/en/news/ME03.@AM50679.html (consultato il 17 luglio, 2009).

[15]“UNHCR concerned over humanitarian situation in Lampedusa, Italy,” Unhcr, comunicato stampa, 23 gennaio 2009, http://www.unhcr.org/497991064.html (consultato il 26 giugno 2009).

[16]“Migration News Sheet: l’assessore comunale all’immigrazione di Lampedusa Buccarello informa ‘i media che dal 6 maggio 2009, quando il governo ha iniziato la sua nuova politica di rinvio in Libia dei migranti/richiedenti asilo clandestini da lì partiti, ne sono arrivati più di 170.’” “Irregular migrants/asylum seekers are still arriving on the Italian island of Lampedusa,” Migration News Sheet, luglio 2009.

[17]Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, “Molti immigranti illegali sono stati scoraggiati dall’intraprendere il viaggio via mare a causa della nuova linea di condotta adottata dall’Italia”.  Citato in: 'Outsourcing' asylum seekers the Italian way,' NRC Handelsblad, 24 luglio 2009, http://www.nrc.nl/international/article2309813.ece/Outsourcing_asylum_seekers_the_Italian_way 

(consultato il 24 luglio 2009). 

[18]“Gaddafi, Berlusconi sign accord worth billions,” Reuters, 30 Agosto 2008, http://www.reuters.com/article/worldNews/idUSLU29214620080830 (consultato il 26 giugno 2009). Vedi anche “Firma per risarcimento Italia-Libia, ‘Saremo uniti sull'immigrazione,’” La Repubblica.it, 30 agosto 2008. http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/esteri/libia-italia/berlusconi-gheddafi/berlusconi-gheddafi.html  (aperto il 23 luglio 2009). Il Senato italiano ha ratificato l’accordo il 3 febbraio 2009, la Libia lo ha ratificato un mese dopo. “Italy-Libya: Tripoli Ratifies Friendship Treaty” ANSAmed, 2 marzo 2009, http://www.ansamed.info/en/news/ME01.@AM49114.html (consultato il 29 giugno 2009). Il trattato si fonda sull’accordo bilaterale del dicembre 2000 e sul Protocollo d’Intesa, del 30 dicembre 2007, con il quale i due Paesi hanno acconsentito a collaborare per interrompere il fenomeno dell’immigrazione clandestina, anche attraverso pattugliamenti congiunti delle coste. Vedi Ministero degli Affari Esteri, http://www.esteri.it/MAE/EN/Politica_Estera/Aree_Geografiche/Mediterr_MO/Rapporti%20bilaterali%20Paesi%20del%20Maghreb/Libia.htm?LANG=EN (consultato il 26 giugno 2009).

[19]“Libya okays pact with Italy to boost investment,” Reuters, 2 marzo 2009, http://uk.reuters.com/article/idUKL232117420090302 (consultato il 5 giugno 2009).

[20]“Ecco il testo dell’accordo, Va ratificato dal Parlamento,” La Repubblica.it, 23 ottobre 2008, http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/esteri/libia-italia/testo-accordo/testo-accordo.html  (aperto il 16 luglio 2009). Vedi Articolo 19. 

[21] Ibid.

[22] United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division, “International Migration Report 2006: A Global Assessment.” 2006, http://www.un.org/esa/population/publications/2006_MigrationRep/Profiles_country.pdf (consultato il 16 luglio 2009).

[23]Secondo Omran Abdusalam Sofrani e Hussein Saleh Jwan, che nell’'International Migration to Libya’ presentato a Tripoli citano le statistiche della Direzione Generale dei Passaporti e della Cittadinanza, nel 2004 vi erano 468.000 residenti che vivevano illegalmente in Libia su un totale di 536.324 cittadini stranieri. Omran Abdulsalam Sofrani e Hussein Saleh Jwan, “International Migration to Libya,” 2009. Archivio di Human Rights Watch.

[24]“Immigration: Libyan Minister, Southern Border Uncontrollable,” ANSAmed, 2 aprile 2009, http://www.ansamed.info/en/news/ME01.@AM50658.html (consultato il 9 luglio 2009).

[25]http://www.unhcr.org/pages/4a1d406060.html (consultato il 12 giugno 2009).

[26]E-mail da parte dell’Unhcr, 25 giugno 2009. Vedi anche, UNHCR Asylum Levels and Trends in Globalized Countries 2008. http://www.unhcr.org/49c796572.html.

[27]Ibid. p. 6

[28]La manipolazione politica della questione è diventata piuttosto sgradevole. Dopo che l’Unhcr ha criticato il rinvio di barconi di migranti a maggio, il ministro della Difesa italiano, Ignazio La Russa, ha dichiarato che l’Unhcr “non conta un fico secco”. Ha accusato la rappresentante in Italia dell’Unhcr, Laura Boldrini, di essere nota per essere un esponente di Rifondazione Comunista e una criminale”. Ha continuato: “La accuso di essere disumana perchè pretende che li (migranti irregolari) teniamo per mesi rinchiusi nei centri per poi espellerli oppure è criminale perché vuole eludere la legge e vuole che una volta in Italia scappino”. “La Russa contro l' Unhcr: ‘Non conta niente,’” Vincenzo Nigro, La Repubblica, 22 maggio 2009, p. 6, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/05/17/la-russa-contro-unhcr-non-conta.html (consultato il 23 luglio 2009). Il Ministro deli Affari Esteri Franco Frattini ha rimproverato La Russa, ma solo per esser stato sgarbato, dichiarando che “Le organizzazioni internazionali vanno sempre rispettate, anche quando sbagliano nel giudicare il comportamento di un governo”. Citato in “Migranti, Frattini frena La Russa: ‘L'Onu sbaglia, ma va rispettato,’” La Repubblica.it, 17 maggio 2009, http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/cronaca/immigrati-7/la-russa-boldrini/la-russa-boldrini.html. (consultato il 27 agosto 2009). In seguito La Russa si è scusato per le sue dichiarazioni.

[29]“Berlusconi: ‘Sì ai rimpatri, non apriremo le porte a tutti’”, Corriere della Sera, 9 maggio 2009 http://www.corriere.it/politica/09_maggio_09/maroni_immigrati_respinti_da84e542-3ca2-11de-a760-00144f02aabc.shtml (consultato il 15 luglio, 2009).

[30]“Non vogliamo un’Italia pluriculturale,” Corriere della Sera, 28 marzo 2006, http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2006/Notizie/Politiche2006/articoli/immigrati.shtml (consultato il 15 luglio 2009).

[31]“Fini: ‘Prima verificare diritto d’asilo’; Berlusconi: ‘Su quei barconi non c’è’,” La Repubblica.it, 11 maggio 2009, http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/cronaca/immigrati-7/fini-consiglio-europa/fini-consiglio-europa.html  (consultato il 15 luglio 2009).

[32]“UNHCR Deeply Concerned over Returns from Italy to Libya,” comunicato stampa dell’Unhcr, 7 maggio 2009. http://www.unhcr.org/4a02d4546.html (consultato il 23 luglio 2009). Dell’Unhcr, v. anche “2008 Global Trends: Refugees Asylum-seekers, Returnees, Internally Displaced and Stateless Persons,” Tavola 10, 16 giugno 2009, che nel 2008 dà un livello generale di accoglimento di domande d’asilo in Italia del 49 percento. http://www.unhcr.org/4a375c426.html (consultato il 23 luglio 2009). La Commissione Territoriale di Trapani (che comprende Lampedusa) ha preso in esame 1017 richieste d’asilo dal gennaio all’agosto 2008 con un tasso di riconoscimento di qualche forma di protezione internazionale del 78.35 percento. Fonte: Ministero dell’Interno. http://www.interno.it/mininterno/export/sites/default/it/assets/files/15/0336_domande_asilo_2008.pdf.

[33]“Berlusconi: ‘La nostra idea dell’Italia non è multietnica’”, Il Sole 24 Ore.com, 9 maggio 2009, http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Italia/2009/05/berlusconi-no-italia-multietnica.shtml?uuid=f34356f2-3cbd-11de-9448-2a21b45d727f&DocRulesView=Libero (consultato il 15 luglio 2009).

[34]Convention relating to the Status of Refugees (Convenzione relativa allo status dei rifugiati), 189 U.N.T.S 150, entrata in vigore il 22 Aprile 1954, ratificata dall’Italia il 15 Novembre 1954.

[35]L’Italia ha ratificato la Convenzione sui Rifugiati il 15 Novembre 1954 e il suo Protocollo il 26 Gennaio 1972.  È inoltre tenuta a rispettare il principio del non respingimento dalla Direttiva dell’UE 2004/83/CE (articolo 21(1)), che afferma “Gli Stati membri rispettano il principio di ‘non-refoulment’ in conformità dei propri obblighi internazionali.”

http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:32004L0083:EN:HTML. Questa disposizione della Direttiva è stata recepita nell’ordinamento Italiano con Decreto Legislativo numero 251 del 19 Novembre 2007, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale numero 3 del 4 gennaio 2008. Il testo della legge è disponibile su http://www.immigrazione.biz/legge.php?id=159 (consultato l’11 Agosto 2009).

[36]Il divieto di refoulement è comprensivo del rinvio verso posti dai quaIi il rifugiato corre il rischio di essere respinto in un luogo di persecuzione. Unhcr, “Advisory Opinion on the Extraterritorial Application of Non-Refoulement Obligations under the 1951 Convention Relating to the Status of Refugees and its 1967 Protocol,” 26 gennaio 2007, paragrafo 10.  http://www.unhcr.org/refworld/docid/45f17a1a4.html  (consultato il 16 luglio 2009).

[37]Unhcr, “Advisory Opinion on the Extraterritorial Application of Non-Refoulement Obligations under the 1951 Convention Relating to the Status of Refugees and its 1967 Protocol,” 26 gennaio 2007, paragrafo 24; Unhcr “Background Note on the Protection of Asylum-Seekers and Refugees Rescued at Sea”, 18 marzo 2002, paragrafo18; Unhcr, “The Principle of Non-Refoulement as a Norm of Customary International Law, Response to the Questions Posed to UNHCR by the Federal Constitutional Court of the Federal Republic of Germany in Cases 2 BvR 1938/93, 2 BvR 1953/93, 2 BvR 1954/93” 31 gennaio 1944, paragrafo 33; Unhcr “UN High Commissioner for Refugees responds to U.S. Supreme Court Decision in Sale v Haitian Centers Council,” International Legal Materials, 32, 1993, p. 1215. Unhcr, “Comments on the Communication from the Commission to the Council and the European Parliament on the Common Policy on Illegal Immigration” COM (2001) 672 Final, 15 novembre 2001, paragrafo 12; UNHCR Amicus Curiae Brief in Sale, 21 dicembre 1992.

[38]Executive Committee of the High Commissioner’s Programme, 18th Meeting of the Standing Committee “Interception of Asylum Seekers and Refugees: The International Framework and recommendations for a Comprehensive Approach,” EC/50/SC/CRP.17, 9 giugno, 2000, paragrafo 23; EXCOM Conclusion No. 82 (XLVIII) (1997); EXCOM Conclusion No. 85 (XLIX) (1988) ), EXCOM Conclusion No. 53 (XXXIX) (1981); EXCOM Conclusion No. 22 (XXXII), (1981).

[39]The Haitian Center for Human Rights et al. v. United States, Case 10.675, Report No. 51/96, Inter-AmCHR,OEA/Ser.L/V/II.95 Doc 7 rev. at 550, 1997

[40]E. Lauterpacht & D. Bethlehem, “The Scope and the Content of the Principle of Non-Refoulement: Opinion,” Refugee Protection in International Law, 2003, p. 87; B. Frelick, “’Abundantly Clear’ Refoulement,” Georgetown Immigration Law Journal, Vol. 19, No 2, 2005, 245; Human Rights Watch, By Invitation only: Australian Asylum Policy,  Vol. 14, No. 10(c), dicembre 2002, http://www.hrw.org/legacy/reports/2002/australia/australia1202.pdf (consultato l’11 agosto 2009).

[41] La prospettiva di Berlusconi riflette quella della Corte Suprema degli Usa nel caso Sale v. Haitian Centers Council, 509 US 155, 156 (USSC 1993).

[42]“Interception of Asylum-Seekers and Refugees: The International Framework and Recommendations for a Comprehensive Approach,” Executive Committee of the High Commissioner’s Programme, 18th Meeting of the Standing Committee (EC/50/SC/CPR.17) 9 giugno 2000, paragrafo 23.

[43]UNHCR Briefing Note, “UNHCR interviews asylum seekers pushed back to Libya,” 14 luglio 2009, http://www.unhcr.org/4a5c638b6.html (consultato il 17 luglio 2009).

[44]E-mail ad Human Rights Watch dall’Unhcr, 5 agosto 2009. Le autorità italiane affermano che i documenti furono consegnati ai funzionari libici a bordo dell’imbarcazione libica, ma i migranti sostengono che le autorità libiche non gli hanno mai restituito i propri effetti personali. 

[45] UNHCR Briefing Note, “UNHCR interviews asylum seekers pushed back to Libya,” 14 luglio 2009, http://www.unhcr.org/4a5c638b6.html (consultato il 17 luglio 2009).

[46]Ibid.

[47]Telefonata di Human Rights Watch con la Libia, 15 giugno 2009. La fonte non può essere rivelata.

[48]Convention against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (Convenzione contro la Tortura), adottata il 10 dicembre 1984, G.A. res. 39/46, annex, 39 U.N. GAOR Supp. (No. 51) at 197, U.N. Doc. A/39/51 (1984), entrata in vigore il 26 giugno 1987, ratificata dall’Italia il 12 gennaio 1989,  http://www2.ohchr.org/english/law/cat.htm

[49]V. Soering v United Kingdom, 11 EHRR 439, sentenza del 7 luglio 1989,

http://cmiskp.echr.coe.int/tkp197/view.asp?action=html&documentId=695496&portal=hbkm&source=externalbydocnumber&table=F69A27FD8FB86142BF01C1166DEA398649 (consultato l’11 agosto 2009);TI v UK (Application 43844/98), sentenza del 7 marzo 2000, reperibile inT.I. v United Kingdom [2000] INLR 211 http://cmiskp.echr.coe.int/tkp197/view.asp?action=html&documentId=669265&portal=hbkm&source=externalbydocnumber&table=F69A27FD8FB86142BF01C1166DEA398649 (consultato l’11 agosto

[50]International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR), adottata il 16 Dicembre 1966, G.A. Res. 2200A (XXI), 21 U.N. GAOR Supp. (No. 16) at 52, U.N. Doc. A/6316 (1966), 999 U.N.T.S.171, entrata in vigore il 23 marzo 1976, ratificata dall’Italia il 15 settembre 1978, http://www2.ohchr.org/english/law/ccpr.htm (accessed August 27, 2009). Il divieto nel Pidcp dei trattamenti o punizioni crudeli, inhumani o degradanti  vale per tutte le persone nel territorio o sotto la giurisdizione dello Stato parte, secondo l’articolo 2.1).

[51]Women on Waves and Others v Portugal (Application 31276/05), Judgment del 3 febbraio 2009.

[52] Human Rights Committee, General Comment 31, Nature of the General Legal Obligation on States Parties to the Covenant, adottato il 29 marzo 2004, http://www.ohchr.org/english/bodies/hrc/comments.htm.

[53] “2609th Council Meeting, General Affairs and External Relations, Luxembourg, October 11, 2004,” Council of the European Union, comunicato stampa, PRES/04/276, 11 ottobre 2004, http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=PRES/04/276&format=HTML&aged=0&language=EN&guiLanguage=en (consultato il 30 giugno 2009).

[54]In “Note from the Presidency to the Council. Subject: Draft Council Conclusions on initiating dialogue and cooperation with Libya on migration issues,” Council of the European Union, Doc no: 9413/1/05 REV 1, 27 maggio 2005, http://www.statewatch.org/news/2005/jun/eu-libya-draft-concl.pdf. “2609th Council Meeting, General Affairs and External Relations, Luxembourg, October 11, 2004,” Council of the European Union, comunicato stampa, PRES/04/276, 11 ottobre 2004, http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=PRES/04/276&format=HTML&aged=0&language=EN&guiLanguage=en (consultato il 30 giugno, 2009).

[55]“JHA Council adopts conclusions on the introduction of dialogue and cooperation with Libya on immigration issues,” Council of the European Union, comunicato stampa, 3 giugno 2005.

[56]Il Consiglio Giustizia e Affari Interni dell’Ue ha adottato, il 19 febbraio 2004, un regolamento sulla creazione di una rete di ufficiali di collegamento per l’immigrazione. Esso concerne la “prevenzione e la lotta all’immigrazione illegale, al rinvio di immgrati illegali e la gestione della migrazione legale” ma non contiene alcun riferimento al diritto di asilo. “2561st Council Meeting, Justice and Home Affairs”, Council of European Union, comunicato stampa, 58314/04 (Presse 37), 19 febbraio 2004, http://ue.eu.int/ueDocs/cms_Data/docs/pressData/en/jha/79117.pdf, pagina I, (consultato il 2 luglio 2009).

[57]“Draft Council Conclusions on initiating dialogue and cooperation with Libya on migration issues,” 9413/1/05 REV 1, 27 maggio 2005, http://www.statewatch.org/news/2005/jun/eu-libya-draft-concl.pdf (consultato il 2 luglio 2009).

[58]“2664th Council Meeting, Justice and Home Affairs, Luxembourg, June 2-3, 2005,” Council of the European Union, comunicato stampa, 8849/05 (Presse 114), 2 giugno 2005, http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=PRES/05/114&format=HTML&aged=0&lg=da&guiLanguage=en, (consultato il 7 luglio 2009).

[59]Ibid.

[60]“Commissioner Ferrero-Waldner visits Libya to reinforce EU-Libya relations,” European Commission, comunicato stampa, IP/09/227, 6 febbraio 2009, http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=IP/09/227&format=HTML&aged=0&language=EN&guiLanguage=en(consultato il 30 luglio 2009).Ferrero-Waldner ha visitato la Libia nel febbraio 2009 per condurre un secondo giro di negoziati. Si riporta che nel corso della visita abbia annunciato un pacchetto di assistenza per l’immigrazione di 20 milioni di euro. V. “Libya: EU agrees cash to combat illegal immigration,” Euronews, 11 febbraio 2009, http://www.euronews.net/2009/02/11/eu-agrees-cash-for-libya-to-combat-illegal-immigration/ (consultato il 16 luglio 2009).

[61] “EU wants Libya to host asylum seekers,” Afrique en Ligne, 22 luglio 2009, http://www.afriquejet.com/news/africa-news/eu-wants-libya-to-host-asylum-seekers-2009072332179.html (consultato il 12 agosto 2009).

[62] “EU urges Libya to work to stop illegal immigration,” Middle East Online, 8 Aprile 8 2009, http://www.middle-east-online.com/english/libya/?id=31384 (consultato il 9 luglio 2009).

[63] Secondo la Commissione europea l’obiettivo dei negoziati è, inter alia, quello di instaurare dialogo e cooperazione su sicurezza internazionale, sviluppo e diritti umani, per poter sviluppare ulteriormente commercio e relazioni economiche, e cooperare in aree di interesse comune, comprese migrazione ed energia. “Libya: Commission proposes negotiating mandate for a Framework Agreement,”European Commission, comunicato stampa, IP/08/308, 27 febbraio 2008, http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=IP/08/308&format=HTML&aged=0&language=EN&guiLanguage=en (consultato il 25 agosto 2009).

[64] Lettera di Jacques Barrot, vicepresidente della Commissione Europea, a Martin Pecina, ministro dell’Interno ceco e presidente del Consiglio europeo, 27 maggio 2009. Documento non pubblicato in archivio ad Human Rights Watch.

[65] Ibid.

[66]“I respingimenti in mare “Rendono impossibile l’accesso alla richiesta di asilo politico,” Il Commissario del Consiglio d’Europa torna ad accusare il Governo italiano,” Immigrazione Oggi,2 luglio 2009, http://immigrazioneoggi.it/daily_news/2009/luglio/02_2.html

[67]“Italy: Berlusconi Misstates Refugee Obligations,” comunicato stampa di Human Rights Watch, 12 maggio 2009, http://www.hrw.org/en/news/2009/05/12/italy-berlusconi-misstates-refugee-obligations,  e “Italy/Libya: Forced Return of Migrants Violates Rights,” comunicato stampa di Human Rights Watch, 7 maggio 2009, http://www.hrw.org/en/news/2009/05/07/italylibya-forced-return-migrants-violates-rights.

[68]Né le conclusioni della riunione del 4-5 giugno 2009 del Consiglio Giustizia e Affari Interni contengono alcuna critica dell’Italia.  “2946th Council Meeting, Justice and Home Affairs,” Council of the European Union, Press comunicato stampa, 10551/09 (Presse 164) 4-5 giugno 2009, http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/jha/108356.pdf (consultato il 16 luglio 2009).

[69]Eurpoean Council on Refugees and Exiles (ECRE), “Barrot wants reception points in Libya for asylum seekers,” Weekly Bulletin, 17 luglio 2009, http://www.ecre.org/files/ECRE_Weekly_Bulletin_17_July_2009.pdf (consultato il 27 agosto 2009).

[70]Vedi U.N. General Assembly, International procedures for the protection of refugees: draft resolution/Denmark, 12 Novembre 1986, U.N. Doc. A/C.3/41/L.51. Vedi anche , Secretariat of the IGC, Working Paper on the Reception in Region of Origin, Geneva 1994.  V. anche Human Rights Watch, EU – Managing Migration Means Potential EU Complicity in Neighboring State’s Abuse of Migrants and Refugees, Number 2, 15 ottobre 2006, http://www.hrw.org/legacy/backgrounder/eca/eu1006/eu1006web.pdf. Vedi anche “UK Asylum Proposal Denounced”,  Human Rights Watch, comunicato stampa, 8 febbraio 2001,  http://www.hrw.org/en/news/2001/02/08/uk-asylum-proposal-denounced.

[71] Lettera di Tony Blair, primo ministro del Regno Unito, a Costas Simitis, primo ministro greco, 10 marzo 2003, http://www.statewatch.org/news/2003/apr/blair-simitis-asile.pdf (consultato il 16 luglio 2009).

[72]The Council of the European Union, Thessaloniki European Council 19 e 20 giugno 2003, Conclusione 26, Conclusioni della Presidenza, 11638/03, 1 ottobre 2003, http://register.consilium.eu.int/pdf/en/03/st11/st11638en03.pdf (consultato il 10 luglio 2009).

[73]“Communication from the Commission to the Council and the European Parliament on the managed entry in the EU of persons in need of international protection and the enhancement of the protection capacity of the regions of origin. Improving access to durable solutions,” Bruxelles, com(2004) 410 final, 4 giugno 2004, http://www.unhcr.org/refworld/pdfid/4156e4ee4.pdf (consultato il 9 luglio 2009).

[74]L’Italia e la Germania sostennero la proposta di Blair, ma Svezia, Francia, e Belgio vi si opposero su motivazioni legali e umanitarie. Ambrose Evans-Pritcahrd, “EU to hold Asylum Seekers in North Africa,” Telegraph.co.uk, 2 ottobre 2009, http://www.telegraph.co.uk/news/1473177/EU-to-hold-asylum-seekers-in-N-Africa.html (consultato il 17 luglio 2009).

[75]Vedi: http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?type=REPORT&reference=A6-2004-0051&language=EN (consultato il 17 luglio 2004)

[76]“Determining an Approach for the External Dimension of the European Asylum Policy,” Riunione informale dei ministri della Giustizia e degli Affari Interni, 27 – 29 gennaio, 2005, http://www.eu2005.lu/en/actualites/documents_travail/2005/01/2701docstravailinfojai/infojaifr1.pdf (consultato il 17 luglio 2009).

[77]  “Lacrime, spinte e manganelli così l’Italia respinge i disperati; Tripoli, ecco l’arrivo dei migranti rifiutati da Roma, ”La Repubblica, 15 maggio 2009, pag. 9. Vedi anche, “Save the Children Italia: ''Minori tra i migranti rinviati in Libia,'' 22 giugno 2009.

[78] Email ad Human Rights Watch dall’UNHCR, 14 luglio 2009.

[79] Ibid.

[80] Il nome completo dell’agenzia è “Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell'Unione europea”. Il nome Frontex è una contrazione del francese Frontières extérieures, “frontiere esterne.” Il consiglio di amministrazione di Frontex, costituito da un rappresentante per ogni stato membro dell’Ue e due rappresentanti della Commissione europea, stabilisce, tra le altre funzioni, il programma di lavoro dell’Agenzia. 

[81] Unhcr, “Refugee Protection and international migration: A review of UNHCR’s role in the Canary Islands, Spain,” Aprile 2009, para. 22, http://www.unhcr.org/4a1d2d7d6.pdf (consultato il 17 luglio 2009).

[82] http://www.unhcr.org/pages/4a1d406060.html (consultato il 12 giugno 2009).

[83]Morten Østergaard, “Europe’s ‘Boat people’: Mixed Migration Flows by Sea into Southern Europe,” rapporto del relatore del Comitato per la Migrazione, Rifugiati e Popolazione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa 11 luglio 2008. (“Europe’s ‘Boat People’”), pag. 8, para. 24.

[84]“Hera 2008 and Nautilus 2008 Statistics,” Frontex, comunicato stampa, 17 febbraio 2009, http://www.frontex.europa.eu/newsroom/news_releases/art40.html (consultato il 10 luglio 2009).

[85]Ibid.

[86]“Go ahead for Nautilus 2008,” Frontex, comunicato stampa, 7 maggio 2009, http://www.frontex.europa.eu/newsroom/news_releases/art36.html (consultato il 10 luglio 2009).

[87]Alla fine dell’aprile 2009 si sarebbero accordati per rimettersi all’interpretazione del Paese ospitante (Malta) della legge pertinente “Rescued Immigrants to disembark at ‘closest safe port,’” Times of Malta, 26 aprile 2009, http://www.timesofmalta.com/articles/view/20090426/local/rescued-immigrants-to-disembark-at-the-'closest-safe-port' (consultato il 28 Aprile 2009).

[88]“Immigration: 76 Migrants Sent Back to Libya,” ANSAmed, 19 giugno 2009, http://www.ansamed.info/en/news/ME03.@AM45395.html. Anche, Karl Stagno-Navarra, “Frontex Handover of Migrants to Italy Results in Forced Repatriation,” Malta Today, 21 giugno 2009, http://www.maltatoday.com.mt/2009/06/21/t8.html (consultato il 17 luglio 2009).

[89]“Immigration: Illegal Arrivals from Sea Halved in Italy,” ANSAmed, 9 luglio 2009, http://www.ansamed.info/en/top/ME12.WAM40163.html (consultato il 17 luglio 2009).

[90]Universal Declaration of Human Rights articles 13.2 and 14.1. GA res. 217A (III), UN Doc A/810 at 71 (1948).

[91]United Nations Convention on the Law of the Sea, adottata il 10 dicembre 1982, United Nations, Treaty Series, vol. 1833, p. 3, entrata in vigore il 16 novembre 1994, article 98, http://www.un.org/Depts/los/convention_agreements/texts/unclos/closindx.htm (consultato l’11 agosto 2009).

 

[92]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H54), Palermo, Sicilia, 13 maggio 2009. Il racconto di Daniel su Misurata prosegue nella sezione su Misurata.

[93]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H12), Malta, 2 maggio 2009.

[94]Per il prosieguo della storia di Ezekiel, vedi ‘Abusi nella zona di confine ovest della Libia’.

4http://tv.repubblica.it/home_page.php?playmode=player&cont_id=32868&ref=search

 

[96] Un video di una partenza fallita di un barcone di migranti irregolari mostra quelle che sembrano essere forze di sicurezza libiche mentre impugnano armi e le mostra anche mentre sparano colpi: http://tv.repubblica.it/copertina/cosi-i-libici-fermano-i-gommoni/32395?video(consultato il 27 agosto 2009).

[97] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B41), Caltanissetta, Sicila, 8 maggio 2009.

[98]“Maroni Claims Malta Sent 40,000 Migrants to Italy,”Times of Malta, 21 aprile 2009, http://www.timesofmalta.com/articles/views/20090421/local/moroni-claims-malta-sent-40,000-migrants-to-italy (consultato il 21 aprile 2009).

[99]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato B/H 32), Malta, 4 maggio 2009.

 

[100]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H32), Malta, 4 maggio 2009.

[101]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B4), vecchio centro di detenione di Ta’Kandja 2 maggio 2009.

[102] International Convention for the Safety of Life at Sea (SOLAS), 1°Novembre 1974, entrato in vigore il 25 maggio 1980, 1184 United Nations Treaties Series 3. Regulation V/33.1.

[103]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B39), Caltanissetta, Sicilia, 8 maggio 2009.

[104] “Doomed to Drown: The desperate last calls of the migrants no one wanted to rescue,” The Independent, 27 Maggio 2007, http://www.independent.co.uk/news/world/europe/doomed-to-drown-the-desperate-last-calls-of-the-migrants-no-one-wanted-to-rescue-450300.html (consultato il 24 luglio 2009).

[105]“Europe’s Shame,” The Independent, 28 maggio 2007, http://www.independent.co.uk/news/world/europe/europes-shame-450754.html(consultato il 24 luglio 2009).

[106]Frances D’Emilio, “Italy will let Stranded Migrants Land,” guardian.co.uk, 19 aprile 2009, http://www.guardian.co.uk/world/feedarticle/8463000 (consultato il 14 luglio 2009).

[107]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B58), Lampedusa, 14 maggio 2009.

[108] International Maritime Organization (IMO), Maritime Safety Committee, 78th Session, Consideration and Adoption of Amendments to Mandatory Instruments, Amendments to the 1974 SOLAS Convention, 10 ottobre 2003.

[109]IMO, Facilitation Committee, 35th Session, Formalities Connected with the Arrival, Stay and Departure of Persons, 14 gennaio 2009.

[110]IMO, Report of the Facilitation Committee on its 35th Session, 16 gennaio 2009.

[111]Per una discussione approfondita sulla legislazione libica sull’immigrazione, vedi Human Rights Watch, Stemming the Flow, pp. 78-90.

[112]Convention Governing the Specific Aspects of Refugee Problems in Africa (African Refugee Convention), 1001 UNTS 45, entrata in vigore il 20 giugno 1974.

[113] African [Banjul] Charter on Human and Peoples' Rights, adottata il 27 giugno, 1981, OAU Doc. CAB/LEG/67/3 rev. 5, 21 I.L.M. 58 (1982), entrata in vigore il 21 ottobre 1986.

[114]Intervista di Human Rights Watch con il Generale di brigata Mohamed Bashir Al Shabbani, direttore dell’ufficio immigrazione, Ministero degli Interni, Tripoli, mercoledì 22 aprile 2009.

[115]“Immigration: Gaddafi says tide is difficult to stem” Ansa, 11 giugno, 2009, http://www.ansamed.info/en/news/ME01.@AM48071.html (consultato il 14 luglio 2000).

[116]“According to Gaddafi, Africans working in Europe are taking back what’s theirs,” Euronews, 7 luglio 2009, http://www.euronews.net/2009/07/07/according-to-gaddafi-africans-working-in-europe-are-taking-back-whats-theirs/ (consultato il 9 luglio 2009).

[117] Proclamazione Costituzionale dell’11 dicembre 1969, articolo 11, disponibile su http://www.unhcr.org/refworld/docid/3ae6b5a24.html (consultato il 15 luglio 2009).

[118]Law 20 (1991), article 21, disponibile su http://www.unhcr.org/refworld/pdfid/3dda542d4.pdf, (consultata il 15 luglio 2009).

[119]Intervista di Human Rights Watch con il Segretario della Giustizia Mostafa Abdeljalil, Comitato Generale del Popolo per la Giustizia, Tripoli, 26 aprile 2009. Alle nostre insistenze, è rimasto vago su quali documenti andassero effettivamente consegnati al fine di presentare domanda d’asilo.

[120]Intervista di Human Rights Watch con il generale di brigata Mohamed Bashir Al Shabbani, direttore dell’Ufficio immigrazione, Comitato Generale del Popolo per la Pubblica Sicurezza, Tripoli, 22 aprile 2009. I funzionari libici diedero ad Human Rights Watch le stesse assicurazioni all’epoca della nostra visita del 4 maggio 2005. Vedi Stemming the Flow, pag. 23.

[121] Convention Relating to the Status of Refugees, 189 U.N.T.S. 150, entrata in vigore il 22 aprile 1954, http://www.unhcr.org/refworld/docid/3be01b964.html (consultato il 14 luglio 2009).

[122] Protocol Relating to the Status of Refugees, 606 U.N.T.S. 267, entrato in vigore il 4 ottobre 1967, http://www.unhcr.org/refworld/docid/3ae6b3ae4.html (consultato il 14 luglio 2009).

[123] Convention Governing the Specific Aspects of Refugee Problems in Africa, 10 settembre 1969; entrato in vigore il 20 giugno 1974. La Libia ha ratificato la Convenzione africana sui rifugiati il 25 aprile 1981, http://www.unhcr.org/refworld/docid/3ae6b36018.html (consultato il 15 luglio 2009).

[124]International Covenant on Civil and Political Rights (ICCPR), adottato il 16 dicembre 1966, G.A. Res. 2200A (XXI), 21 U.N. GAOR Supp. (No. 16) at 52, U.N. Doc. A/6316 (1966), 999 U.N.T.S. 171, entrato in vigore il 23 marzo 1976.

[125]Nel “General Comment 20”, il Comitato per i Diritti Umani ha interpretato che la proibizione su trattamento o punizione crudeli, inumane o degradanti dell’articolo 7 racchiuda anche l’estradizione, espulsione o refoulement verso altri Paesi. Human Rights Committee, General Comment 20, Article 7 (Forty-fourth session, 1992), Compilation of General Comments and General Recommendations Adopted by Human Rights Treaty Bodies, U.N. Doc. HRI/GEN/1/Rev.1 at 30 (1994).

[126]Vedi UN Executive Committee (ExCom) Conclusion No. 25, General Conclusion on International Protection,

20 ottobre 1982, para b, http://www.unhcr.org/3ae68c434c.html (consultato il 15 luglio 2009); articolo 5 della ‘Cartagena Declaration on Refugees’, 1984, http://www.unhcr.org/cgi-bin/texis/vtx/research/opendoc.htm?

tbl=RSDLEGAL&id=3ae6b36ec (consultato il 6 marzo 2006); e articolo V di ‘Revised Bangkok Principles on

Status and Treatment of Refugees of 2001’, http://www.aalco.int/Final%20Text%20of%20Bangkok%

20Principles.htm(accessed August 28, 2009). La dottrina è quasi unanime su questo punto. Vedi Lauterpacht and

Bethlehem, “The Scope and Content of the Principle of Non-refoulement: Opinion,” febbraio 2003, UNHCR,

para.216; Bruin and Wouters, “Terrorism and the Non-Derogability of Non-refoulement,” International Journal ofRefugee Law, Vol.15, No.5 (2003), section 4.6; Allain, Jean, “The Jus Cogens Nature of Nonrefoulement,”

International Journal of Refugee Law, Vol.13 (2001), p.538; Weissbrodt and Hortreitere, “The Principle of Non-

refoulement,” Buffalo Human Rights Law Review, Vol.5 (1999). (2001), p.538; Weissbrodt and Hortreitere, “The Principle of Non-refoulement,” Buffalo Human Rights Law Review, Vol.5 (1999).

[127]Intervista di Human Rights Watch con il Segretario della Giustizia Mostafa Abdeljalil, Tripoli, 26 aprile 2009. Il suo commento potrebbe anche significare che Somali ed Eritrei non possono essere deportati a causa di mancata cooperazione con le autorità dei loro Paesi.

 

[128]Intorno al 2004, il governo libico ha smesso di riconoscere gli attestati che l’Unhcr dà a rifugiati o richiedenti asilo.Vedi Stemming the Flow, pp. 23-29.

[129]Secondo l’accordo, le organizzazioni sosterrano le autorità libiche nella "progettazione ed attuazione di strategie di gestione dell’asilo complete e attente alla protezione degli individui, nel pieno rispetto dei principi internazionali e regionali dei diritti dei rifugiati e dei diritti umani." Vedi "UNHCR signs agreement aimed at ensuring refugee protection in Libya," UNHCR, news stories, 4 luglio 2008, http://www.unhcr.org/486e48534.html (consultato il 30 luglio 2009).

[130] L’Unhcr ha accesso a Misurata, Zleitan, Al-Zawiya, Garabulli, Surman, Towisha, e Zuwara.

[131]E-mail di Unhcr ad Human Rights Watch, 12 Agosto 2009.

[132] Ibid.

[133] Amnesty International, “Libya: Amnesty warns against deportation of Eritreans,” 11 luglio 2008, (consultato il 28 agosto 2009).

[134]E-mail di Unhcr ad Human Rights Watch, 12 Agosto 2009.

[135]Ibid.

[136]Ibid. per tutto il paragrafo.

[137]Unhcr, “UNHCR deeply concerned over returns from Italy to Libya,” comunicato stampa, 7 maggio 2009, http://www.unhcr.org/4a02d4546.html (consultato il 15 luglio 2009).

[138]E-mail di Unhcr ad Human Rights Watch, 12 Agosto 2009.

[139]Unhcr, “Follow-up from UNHCR on Italy’s push-backs,” comunicato stampa 12 maggio 2009, http://www.unhcr.org/4a0966936.html (consultato il 15 luglio 2009). Il ministro italiano per le politiche comunitarie, Andrea Ronchi, ha risposto alle critiche dell’Unhcr dicendo che l’agenzia “si dovrebbe vergognare” e che “dovrebbe scusarsi con l’Italia”. Vedi “Italy in Migrant Mistreatment Row,” Ansa, 14 luglio 2009, http://www.ansa.it/notiziari/engmediaservice/2009-07-14_114385912.html (consultato il 15 luglio 2009).

[140]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B60), Roma, 9 maggio 2009.

[141]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B68), Rome, 20 maggio 2009.

[142]Una trascrizione completa della testimonianza di Tomas si può trovare sul sito web di Human Rights Watch: http://www.hrw.org/en/news/2009/06/08/full-transcript-statement-tomas-24-year-old-eritrean

[143]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B68), Rome, 20 maggio 2009.

[144]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H 32), Malta, 4 maggio 2009.

[145]Oltre al presente rapporto, anche il nostro rapporto del 2006, Stemming the Flow, documenta questo fenomeno. Esso riscontrò una “corruzione endemica nel sistema immigrazione. Migranti e rifugiati hanno riportato, ripetutamente, che i detenuti potevano pagarsi l’uscita corrompendo le guardie o i loro superiori”. Stemming the Flow, p. 38.

[146]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, R/L5), Caltanissetta, Sicilia, 28 ottobre 2008.

[147] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B67), Rome, 20 maggio 2009.

[148] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B66), Rome, 20 maggio 2009.

[149]Ibid.

[150]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B57), Lampedusa, 14 maggio 2009.

[151]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B45), Trapani, Sicilia, 9 maggio 2009.

[152]“Illegal immigrants in tankers: A new video of shame from Libya: traffickers keep on working,” La Repubblica, versione online, 26 giugno 2009, disponibile su http://tv.repubblica.it/home_page.php?playmode=player&cont_id=34356&ref=search(consultato il 16 luglio 2009).

[153]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B63), Roma, 19 maggio 2009.

[154]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, R/L1), Roma, 23 ottobre 2008. Gli intervistatori di Human Rights Watch erano un maschio e una femmina.

[155]E-mail dell’Unhcr ad Human Rights Watch, 12 agosto, 2009

[156]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B50), centro per richiedenti asilo di Salina Grande, Trapani, Sicilia, 9 maggio 2009. L’intervistatore e l’interprete di Human Rights Watch erano entrambi maschi.

[157]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B49), centro per richiedenti asilo di Salina Grande, Trapani, Sicilia, 9 maggio 2009. L’intervistatore e l’interprete di Human Rights Watch erano entrambi maschi.

[158]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B11), nuovo centro di detenzione di Ta’Kandja, Malta, 2 maggio 2009.

[159]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H54), Palermo, Sicilia, 13 maggio 2009.

[160]Ibid.

[161]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B13), Malta, 3 maggio 2009.

[162]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B53), Agrigento, Sicilia, 11 maggio 2009.

[163]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, L4), Sciacca, Sicilia, 27 ottobre 2008.

[164]Vedi Connessioni tra trafficanti e funzionari di sicurezza e delle forze dell’ordine.

[165] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B38), Caltanissetta, Sicilia, 8 maggio 2009.

[166]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B68), Roma, 20 maggio 2009. La trascrizione completa si può trovare su: https://www.hrw.org/en/news/2009/06/08/full-transcript-statement-tomas-24-year-old-eritrean.

[167]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, R/L1), Roma, 23 ottobre 2008.

[168]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B58), Lampedusa, 14 maggio 2009.

[169]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B35), Agrigento, Sicilia, 6 maggio 2009.

[170]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B4), vecchio centro di detenzione di Ta’Kandja, Malta, 2 maggio 2009.

[171]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B14), Malta, 3 maggio 2009.

[172]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B32), centro di detenzione di Safi, braccio C, Malta 4 maggio 2009.

[173] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B44), Trapani, Sicilia 9 maggio 2009.

 

[174]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H12), Malta, 2 maggio 2009.

[175]Stemming the Flow, p. 57

[176]Vedi Human Rights Watch, Service for Life: State Repression and Indefinite Conscription in Eritrea, aprile 2009.

[177]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H2), Malta, 1° maggio 2009.

[178]Stemming the Flow, pp. 56-57

[179]Amnesty International, “Libya: Amnesty warns against deportation of Eritreans,” 11 luglio 2008, (consultato il 28 agosto 2009).

[180]E-mail di Unhcr ad Human Rights Watch, 12 agosto 2009.

[181]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, L2), Sciacca, Sicilia, 26 ottobre 2009

[182]43.000 deportati nel 2003; 54.000 nel 2004; 48.000 nel 2005, e 54.000 nel 2006. Queste statistiche sono citate come dati “ufficiali” in “Escape from Tripoli: Reports on the Conditions of Migrants in Transit in Libya,” Fortress Europe, p. 6, citazione di un rapporto della Commissione europea. Secondo il rapporto, nel 2003 il 38 percento dei respinti erano Egiziani, il 15 percento Nigeriani, il 12 percento Sudanesi, 11 percento Ghanesi, and 10 percento Nigerini. Il resto era costituito da cittadini marocchini, malinesi, eritrei e somali, ed una piccola percentuale proveniva da  Bangladesh, Pakistan ed estremo oriente. Nel 2004  c’è stato un incremento significativo di cittadini egiziani e dell’Africa sub-sahariana, in particolare da Nigeria, Niger, Ghana e Mali.

[183] Memorandum del governo libico ad Human Rights Watch, 18 Aprile 2006. Vedi Appendix I, Stemming the Flow.

[184]Vedi Centri di detenzione per migranti: condizioni ed abusi

[185]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H54), Palermo, 13 maggio 2009

[186]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B68), Rome 20 maggio 2009. La trascrizione completa si può trovare su:https://www.hrw.org/en/news/2009/06/08/full-transcript-statement-tomas-24-year-old-eritrean.

[187]La fonte ha richiesto l’anonimato.

[188]Inoltre, migranti e richiedenti asilo in detenzione devono essere informati per iscritto, in un linguaggio a loro comprensibile, delle motivazioni della loro detenzione e della possibilità di ricorso ad un’autorità giudiziaria che abbia il potere di decidere tempestivamente sulla legalità della detenzione e che possa ordinare il rilascio, se vi sono gli estremi.United Nations Commission on Human Rights, Report of the Working Group on Arbitrary Detention, E/CN.4/2000/4, 28 dicembre 1999, Annex II, Deliberation No. 5, “Situation Regarding Immigrants and Asylum Seekers,” http://www.unhchr.ch/Huridocda/Huridoca.nsf/0811fcbd0b9f6bd58025667300306dea/39bc3afe4eb9c8b480256890003e77c2?OpenDocument#annexII (consultato il 6 marzo 2006).

[189]Ibid.

[190]I centri di detenzion in Libia comprendono: Misurata, Zleitan, Al-Zawiya, Garabulli, Surman, Towisha, Zuwara, Kufra, Ganfuda (Benghazi), Al-Qatrun, Agedabia, Sirte, Sabratha, and Beni Ulid.  Abbiamo spesso sentito menzionare Sabratha and Jawazat (che compaiono in questo capitolo), and Bin Gashir.

[191]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H32), Malta, 4 maggio 2009.

[192]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B27), Malta, caserma Lyster, 4 maggio 2009.

[193]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B37), Caltanissetta, Sicilia, 8 maggio 2009.

[194] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B13), Malta, 3 maggio 2009.

[195] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H32), Malta, 4 maggio 2009.

[196]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B64), Roma, 19 maggio 2009.

[197]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B62), Roma, 19 maggio 2009.

[198]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B63), Roma, 19 maggio 2009.

[199]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, R/L5), Caltanissetta, Sicilia, 28 ottobre 2008.

[200]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H1), Malta, 1° maggio 2009. Al contrario, altri due ex-detenuti di Jawazat hanno riportato di percosse sulla pianta del piede. La testimonianza di Tomas, nella pagina seguente, riporta delle percosse sulla pianta del piede. Un’altra fonte, Fortress Europe, riporta la testimonianza di un ex-detenuto di Jawazat: “Una delle pratiche in uso in questa prigione è quella di colpi di manganello sulla pianta del piede, un punto particolarmente sensibile al dolore”.“Escape from Tripoli: Report on the Conditions of Migrants in Transit in Libya,” Fortress Europe, 25 ottobre 2007, p. 18.

[201]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B68), Rome, 20 maggio 2009. La trascrizione completa si può trovare su: https://www.hrw.org/en/news/2009/06/08/full-transcript-statement-tomas-24-year-old-eritrean.

[202]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B37), Caltanissetta, Sicilia, 8 maggio 2009.

[203]Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B58), Lampedusa, 14 maggio 2009.

[204]E-mail di Unhcr ad Human Rights Watch, 12 Agosto 2009.

[205] Vedi Intercettamenti maltesi e libici precedenti al maggio 2009.

[206] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H54), Palermo, Sicilia 13 maggio 2009. il racconto di Daniel sul suo trasferimento al confine per la deportazione continua nella sezione Abbandoni nel deserto.

[207] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H1), Malta 1° maggio 2009.

[208] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B39), Caltanissetta, Sicilia, 8 maggio 2009.

[209] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, H21), Malta, caserma Lyster, 4 maggio 2009.

[210] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, R/L1), Roma, 23 ottobre 2008.

[211] “Libya: Inside the Immigrants’ Detention Center of Misrata,” Fortress Europe, 20 novembre 2008, http://fortresseurope.blogspot.com/2006/01/libya-reportage-from-refugees-detention.html (consultato il 15 luglio 2009).

[212] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, H25), Agrigento, Sicilia,  6 maggio 2008.

[213] Intervista di Human Rights Watch interview (nome modificato, B10), Nuovo centro di detenzione di Ta’Kandja, Malta, 2 maggio 2009

[214] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/H32), Malta, 4 maggio 2009.

[215] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B68), Roma, 20 maggio 2009.

[216] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, B/32), Malta, 4 maggio 2009.

[217] Intervista di Human Rights Watch (nome modificato, H92), Ganfuda, 11 agosto 2009.

[218] Ibid.

[219] “Libya Denies Somali Prisoners Killed in Jailbreak,” VOA News, 11 agosto 2009.

[220] “Libya: Prison Guards Kill More Than 20 Somalis, Injure 50 Others,” Mareeg, 11 agosto, 2009, http://www.mareeg.com/fidsan.php?sid=13298&tirsan=3(consultato il 12 agosto 2009).