Appena salito sul ponte della nave di soccorso, Abebe ha iniziato a darsi da fare. Si è offerto volontario per distribuire i kit di assistenza agli altri naufraghi e ha tradotto in amarico il «discorso di benvenuto» dello staff di Medici Senza Frontiere (MSF) per i tanti altri etiopi presenti a bordo. Nei giorni seguenti, mentre la Geo Barents navigava verso l’Italia, ha fatto da interprete per il personale sanitario e non.

Mi sono imbarcata sulla Geo Barents a settembre 2024 per documentare il lavoro dell’equipaggio di MSF, che cerca di salvare vite umane in un contesto fisicamente e politicamente ostile. Sette anni prima, a ottobre 2017, avevo passato due settimane sull’Aquarius, una nave gestita da MSF e SOS MEDITERRANEE, un’altra organizzazione di soccorso. Da allora, la situazione delle persone che cercano di raggiungere l’Europa via mare non ha fatto che peggiorare.

  1. Negli ultimi dieci anni, decine di migliaia di persone sono state dichiarate morte o disperse nel Mediterraneo. Le Nazioni Unite hanno registrato almeno 31.363 «migranti dispersi» dal 2014. Quella del Mediterraneo centrale, tra l’Africa del nord e l’Italia/Malta, è la rotta che conta più vittime.

  2. Nel Mediterraneo centrale, le navi di soccorso sono la risposta delle ONG alle disastrose politiche migratorie dell’Unione europea. Si muovono in acque internazionali. Questa mappa mostra i percorsi di nove di queste navi nel periodo compreso fra agosto e ottobre del 2024.

  3. Questo reportage è il racconto del viaggio durante il quale ho assistito al salvataggio di 206 persone.

Fonte: Dati da MarineTraffic sul traffico marittimo delle imbarcazioni di ricerca e soccorso tra il 1° agosto e il 31 ottobre 2024; Progetto Missing Migrants dell'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM).

Abebe è uno dei 206 sopravvissuti che MSF ha soccorso nel mar Mediterraneo il 19 settembre 2024: uomini, donne e bambini provenienti principalmente dalla Siria, dall’Eritrea e dall’Etiopia, che erano partiti quella stessa mattina da Sabratha, in Libia, a bordo di due barche molto sovraffollate e inadatte alla navigazione.

Quando ci siamo seduti a parlare, ho scoperto che dietro agli occhi gentili di Abebe si celava un mondo di sofferenza. Vent’anni, laureato in statistica, mi ha detto di essere partito nel 2023 per sfuggire al conflitto che tutt’ora imperversa nella sua terra di origine, la regione Amhara, nell’Etiopia nord-occidentale: aveva subito pressioni dalla milizia amhara nota come Fano per partecipare alla lotta armata contro il governo, e si sentiva comunque sospettato dalle forze federali etiopi, a prescindere dalle sue azioni. «Io non voglio combattere. I Fano dicono di lottare per la libertà degli amhara, ma io non vedo nessuna libertà. Ci sono un sacco di morti da entrambe le parti. Io non voglio morire… Per loro [l’esercito] tutti gli amhara sono dei Fano, allora ci sparano, ci picchiano, ci arrestano… per questo ho dovuto lasciare il mio paese.»

Foto © 2024 Mohamad Cheblak/Medici Senza Frontiere Grafica © 2025 Human Rights Watch.

Abebe mi ha raccontato di aver trascorso due mesi come prigioniero dei trafficanti a Cufra, un importante snodo per il traffico e il transito di persone migranti e richiedenti asilo nel sud-est della Libia, dove è stato picchiato fino a quando sua madre, per riscattarlo, è stata costretta a vendere la casa. Ha tentato la prima traversata del Mediterraneo ad aprile 2024, stipato in uno scafo di legno e circondato da gente che vomitava per il mal di mare e l’odore di benzina: la barca è stata intercettata dalla guardia costiera libica, che ha riportato tutti i passeggeri a Zawiya, una città sulla costa occidentale, circa 45 chilometri a ovest della capitale Tripoli.

Abebe è rimasto per quattro mesi nel centro di detenzione di al-Nasr, conosciuto anche come la «prigione di Osama». Non avendo più denaro per pagare la propria liberazione, ha dovuto lavorare come interprete o facendo le pulizie per l’uomo che gestiva il centro, finché non è stato rilasciato.

La sua esperienza è la perfetta sintesi dei sacrifici e della determinazione di tante persone richiedenti asilo, rifugiate e migranti. Non solo, ma mette in luce le conseguenze di un’Unione europea votata alla deterrenza e al contenimento dei flussi migratori a qualsiasi prezzo.

I salvataggi in mare

  1. La Geo Barents salpa da Napoli il 12 settembre e fa rotta verso Augusta, in Sicilia, dove io salgo a bordo il 16 settembre. La nave riparte intorno alle 17:00.

  2. Il secondo giorno di viaggio, partecipo a riunioni e training. La Geo Barents si dirige a sud, verso l’area di soccorso designata.

  3. La Geo Barents arriva nell’area di soccorso designata il 18 settembre e inizia il pattugliamento. La coordinatrice dei soccorsi ci spiega i diversi tipi di segnalazioni di pericolo e come registrarle correttamente. 

  4. Il 19 settembre, l’aereo Seabird 2 segnala alla Geo Barents due imbarcazioni in difficoltà. L’equipaggio di MSF soccorre 206 persone dai due barchini di legno sovraccarichi.

    Ascolta l’avviso del Seabird

  5. Dopo la seconda operazione di soccorso, le autorità italiane ordinano alla Geo Barents di rientrare in Italia. In linea con la «politica dei porti lontani», alla nave viene assegnato il porto di Genova, a tre giorni di navigazione dal luogo del salvataggio.

    In seguito, le autorità italiane emettono un ordine di fermo di 60 giorni per la nave.

Fonte: Dati da MarineTraffic sul traffico marittimo delle imbarcazioni di ricerca e soccorso tra il 1° agosto e il 31 ottobre 2024.

L’UE ha abdicato alle proprie responsabilità sulle operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo, rendendosi di fatto complice degli abusi contro persone migranti, richiedenti asilo e rifugiate sia in Libia che altrove.

Non solo, ma sta replicando il pericoloso modello di cooperazione utilizzato con la Libia anche con altri paesi, come la Tunisia e il Libano, dove le persone subiscono abusi ed espulsioni o deportazioni ripetute, senza tener conto dei rischi a cui sono esposte (una pratica nota come «respingimento a catena»). L’Italia, dal canto suo, ostacola sistematicamente gli sforzi umanitari dei gruppi di soccorso.

Fonte: Uksnøy & Co AS, “Technical Spesification Geo Barents MSF”; Medici Senza Frontiere (MSF).

Nel 2017, ho visto l’equipaggio dell’Aquarius salvare più di 600 persone in sei diverse operazioni, con l’aiuto del Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo (MRCC, dal nome inglese Maritime Rescue Coordination Center). La nave aveva fatto scendere tutti i passeggeri a Palermo e subito dopo aveva fatto rotta verso le acque internazionali al largo della Libia, per soccorrere altre imbarcazioni in difficoltà.

La lavagna nella sala riunioni della Geo Barents, con i dati sui salvataggi effettuati da maggio 2021. © 2024 Judith Sunderland/Human Rights Watch

Questa volta, invece, l’MRCC ha ordinato alla Geo Barents di rientrare in Italia subito dopo i soccorsi e l’ha costretta ad arrivare fino a Genova, a tre giorni di navigazione dal Mediterraneo centrale, per lo sbarco dei passeggeri. Il governo ha quindi emesso un ordine di fermo di 60 giorni per la nave, accusando l’equipaggio di non aver rispettato le istruzioni della guardia costiera libica durante una delle operazioni di soccorso, nonostante la motovedetta libica avesse tentato di ostacolare l’intervento con minacce e manovre intimidatorie. Tutto questo significa tempo prezioso sottratto al lavoro di salvataggio di Geo Barents.

Quel giorno, l’equipaggio di MSF aveva ricevuto la segnalazione di due imbarcazioni in difficoltà dal Seabird, un piccolo aereo di monitoraggio gestito dall’organizzazione di soccorso Sea-Watch.

Durante il secondo salvataggio, ho visto una motovedetta libica dirigersi a tutta velocità verso il barchino di legno, mentre gli operatori di MSF stavano ancora aiutando le persone a spostarsi sul gommone che utilizzano per i soccorsi in mare. Qualcuno dalla motovedetta ha ordinato via radio a MSF di sospendere le operazioni, minacciando di aprire il fuoco. Dopo una difficile trattativa, la squadra di soccorso è riuscita a portare tutte le persone a bordo della Geo Barents. La motovedetta libica, costruita in un cantiere italiano e donata dal governo italiano, ha girato diverse volte intorno alla nave prima di allontanarsi.

Una motovedetta libica minaccia la Geo Barents

«Non gli interessa se muori»

Se essere soccorsi è la più grande speranza per i migranti che partono su imbarcazioni precarie, essere intercettati dalle forze libiche è uno dei loro incubi peggiori. Molte volte, nel corso degli anni, ho sentiti dire loro che avrebbero preferito annegare piuttosto che essere riportati in Libia. Tutte le persone con cui ho parlato a bordo della Geo Barents mi hanno descritto abusi subiti in Libia, dall’estorsione al lavoro forzato, fino alla tortura e allo stupro. Erano racconti dolorosamente simili a quelli che avevo ascoltato sette anni fa sull’Aquarius.

I trattamenti brutali riservati alle persone richiedenti asilo e migranti in Libia sono stati ampiamente documentati. Le Nazioni Unite hanno dichiarato che esistono prove della collusione tra le forze statali (compresa la guardia costiera) e le reti dei trafficanti, concludendo che nel paese sono stati commessi crimini contro l’umanità per mano delle forze di sicurezza dello stato e dei gruppi armati.

Molte persone africane hanno riferito di essere state tenute prigioniere dai trafficanti per mesi, a volte anni. Afnii, una donna somala di 18 anni, mi ha detto a mezza voce di aver subito stupri di gruppo per diverse volte, verso la fine dei due anni che ha trascorso rinchiusa nel magazzino di un trafficante a Cufra. Liberata e spedita a Tripoli a cavarsela da sola perché era incinta, Afnii ha dato alla luce una bambina, sopravvivendo grazie all’elemosina e all’aiuto di sconosciuti.

Mi ha raccontato che quando ha deciso di tentare la traversata con sua figlia, si sono ritrovate in un altro magazzino da incubo, dove un trafficante si è rifiutato di procurare del cibo per la piccola finché Afnii non ha avuto rapporti sessuali con lui. La bambina è morta a soli sette mesi. Afnii è lo pseudonimo con cui la donna ha scelto di presentarsi: era il nome di sua figlia.

Fonte: le persone intervistate sulla Geo Barents dal 19 al 23 settembre 2024.

Huda, 18 anni, mi ha detto che i trafficanti l’hanno portata via dalla Somalia quando aveva solo 13 anni. Lei e sua zia hanno passato due anni «senza vedere la luce del sole» nel magazzino di un trafficante a Cufra, dove hanno subito abusi terribili insieme a centinaia di altre persone. Racconta Huda che lei e sua zia, che essendo molto giovane è per lei come una sorella, non sono state stuprate come è successo a tante altre donne perché erano troppo giovani, ma l’uomo a capo del magazzino le picchiava regolarmente e «una notte ci ha prese e ci ha fatto una cosa brutta… non avevamo fatto niente per meritarcelo».

Habtom, 40 anni, dall’Eritrea, ha detto di essere rimasto a Cufra per sei anni in condizioni equiparabili alla schiavitù: «[I trafficanti] ci costringevano a lavorare la terra senza pagarci». Non solo, ma gli aguzzini giravano dei video mentre picchiavano i prigionieri, da mandare ad amici e parenti in modo che raccogliessero i soldi per farli liberare. Quando lui e altri sono stati sorpresi in un tentativo di fuga, i trafficanti li hanno picchiati «con il calcio delle pistole, tubi, rami. Non gli interessa se muori.»

Donne e bambini nel centro di detenzione di al-Nasr a Zawiya, Libia, 26 aprile 2019.
Donne e bambini nel centro di detenzione di al-Nasr a Zawiya, Libia, 26 aprile 2019.  © 2019 Hani Amara/Reuters
Uomini in un centro di detenzione a Tripoli, in Libia, 8 giugno 2017.
Uomini in un centro di detenzione a Tripoli, in Libia, 8 giugno 2017.  © 2017 Florian Gaertner/Photothek via Getty Images

Il resto della storia di Habtom è una finestra su quell’economia dello sfruttamento e della violenza che coinvolge sia trafficanti che attori statali. Mi ha raccontato che alla fine ha messo insieme i soldi per negoziare un accordo: oltre alla liberazione, l’accordo comprendeva il viaggio da Cufra alla costa, un primo tentativo di traversata, il rilascio da un eventuale arresto in caso di intercettazione, e un secondo tentativo. Il primo tentativo di Habtom si è infranto nel giro di mezz’ora, quando la guardia costiera di Zawiya ha intercettato la sua barca. Mi ha detto di aver passato quattro giorni nella prigione di Osama, prima che i soldi fossero trasferiti e gli venisse data la possibilità di riprovarci.

Con il suo sostegno alla guardia costiera libica, l’Unione europea contribuisce direttamente a questo ciclo di gravissimi abusi. Le istituzioni e gli stati membri dell’UE hanno investito milioni di euro in programmi volti a rafforzare il governo di unità nazionale con sede a Tripoli, una delle due autorità che si contendono il controllo della Libia, il cui potere si basa in gran parte su alleanze fungibili con i gruppi armati per intercettare le imbarcazioni che partono dal paese.

L’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, Frontex, sorvola il Mediterraneo centrale e trasmette le coordinate delle imbarcazioni di migranti, richiedenti asilo e rifugiati alle autorità costiere, compresa quella libica: questi dati favoriscono le intercettazioni, rendendo Frontex complice a tutti gli effetti degli abusi commessi.

Quasi tutte le persone con cui ho parlato sulla Geo Barents, indipendentemente dalla nazionalità, sono state intercettate in mare almeno una volta e poi detenute in Libia. Oltre ad Abebe, in quattro mi hanno raccontato di essere stati nella prigione di Osama, e tutti hanno dovuto pagare grosse somme per ottenere la scarcerazione.

Survivors on the Geo Barents look at a map of Italy, September 20, 2024.

I sopravvissuti sulla Geo Barents studiano una mappa dell’Italia, 20 settembre 2024. © 2024 Judith Sunderland/Human Rights Watch

Ahmed, un ragazzo siriano di 16 anni, mi ha detto di aver tentato il viaggio in mare per ben quattro volte prima di essere salvato da MSF. La prima volta, a dicembre 2023, aveva riportato delle ustioni chimiche su tutto il corpo, dovute al contatto con l’acqua di mare mista a benzina nello scafo di legno in cui era stato rinchiuso per 13 ore prima che lo intercettassero. Una volta guarito, mesi dopo, ci ha riprovato altre tre volte, ma ogni volta l’imbarcazione è stata intercettata e lui è stato arrestato e riportato in Libia. Mi ha raccontato che al quarto tentativo, avvenuto ad agosto, due motoscafi neri li hanno raggiunti quasi subito: insieme a circa 130 altre persone, Ahmed è stato portato nella prigione di Osama, dove è rimasto per sei giorni in quella che descrive come una stanza buia e affollata, con un pavimento sconnesso e ricoperto da acque di scarico provenienti dai bagni. Una guardia che lo aveva preso in antipatia gli ha spinto la testa contro il muro. Ha dovuto pagare 1.500 dollari per uscire.

Fonte: le persone intervistate sulla Geo Barents dal 19 al 23 settembre 2024.

La storia che ho sentito da Nulan, un ragazzo siriano di 24 anni laureato in ingegneria informatica, aggiunge un tassello a questo puzzle dell’orrore: l’intercettazione dalle forze tunisine seguita dall’espulsione in Libia. L’Unione europea ha aumentato il sostegno politico ed economico alla Tunisia per il controllo dei flussi migratori, malgrado l’allarmante deterioramento della situazione dei diritti umani nel paese e le discriminazioni e gli abusi a cui sono esposti i migranti.

Per allertare le autorità tunisine sulla presenza di imbarcazioni nel Mediterraneo, Frontex segue lo stesso protocollo adottato con i centri di coordinamento marittimo degli stati dell’UE, nonostante i casi documentati di abusi da parte delle forze di sicurezza tunisine, che includono l’uso eccessivo della forza, arresti e detenzioni arbitrarie, azioni pericolose in mare ed espulsioni collettive.

Durante il primo dei suoi quattro tentativi di attraversare il Mediterraneo, a febbraio 2024, Nulan mi ha detto di aver navigato per circa 18 ore prima che le forze tunisine si lanciassero all’inseguimento della sua barca, minacciassero di sparare e infine gettassero una rete per far inceppare i motori. Nulan ha passato la notte in custodia, poi è stato portato al confine con la Libia insieme a un altro centinaio di persone, a cui le guardie avevano sequestrato telefoni e soldi.

In base al suo racconto, è stato consegnato al «governo libico… che ci aspettava alla frontiera» e poi detenuto nel centro di al-Assah, a circa 20 chilometri dal confine con la Tunisia, verso l’entroterra. «Non è una prigione, è un luogo dell’orrore. Armi ovunque. Puniscono le persone. Niente cibo, niente acqua. Se vuoi bere un po’ d’acqua devi andare in bagno… è un posto orrendo, con persone orrende. È difficile da immaginare». Nulan mi ha detto di aver pagato 1.500 dollari per essere liberato quattro giorni dopo.

Tanta umanità su una sola nave

Ho passato gran parte dei tre giorni di navigazione verso Genova sul ponte coperto che ospitava gli uomini: ho scambiato sorrisi quando le barriere linguistiche ci impedivano di comunicare, li ho guardati parlare animatamente, giocare a carte o riposarsi, ho scoperto insieme a loro su una mappa i nomi delle isole che stavamo oltrepassando nel viaggio verso l’Italia. C’era sempre qualcuno intento a fissare il mare, abbarbicato alle ringhiere in fondo al ponte, qualcuno che chiacchierava fuori dall’ambulatorio in attesa di essere visitato da medici e infermieri. C’era sempre qualcuno che aiutava lo staff di MSF a pulire e a distribuire il cibo. Un pomeriggio, i membri del team di soccorso hanno messo insieme un gruppo per fare un po’ di stretching.

Gli uomini sopravvissuti sul ponte coperto della Geo Barents ascoltano le informazioni dell’equipaggio di MSF, 20 settembre 2024.
Gli uomini sopravvissuti sul ponte coperto della Geo Barents ascoltano le informazioni dell’equipaggio di MSF, 20 settembre 2024. © 2024 Judith Sunderland/Human Rights Watch
I sopravvissuti giocano a carte sul ponte coperto della Geo Barents riservato agli uomini.
I sopravvissuti giocano a carte sul ponte coperto della Geo Barents riservato agli uomini. © 2024 Mohamad Cheblak/Médecins Sans Frontières

Quando non ero lì, ero sul ponte più piccolo riservato alle donne e ai bambini. Doveva essere un posto più tranquillo, se non fosse stato per i quattro figli scatenati di una donna siriana dalla calma olimpica. Per non essere da meno, il piccolo Adam, un bimbo eritreo di 18 mesi, faceva su e giù a gattoni. Maria, l’ostetrica di MSF, un’esuberante donna belga dal sorriso gentile e dallo sguardo attento, ha chiesto a vari membri dell’equipaggio e agli osservatori come me di tenere occupati i piccoli mentre svolgeva le sue visite. Alcune delle donne erano curiose e parlavano volentieri, mostrandosi a tratti allegre e fiduciose, mentre altre erano più riservate. Alcune portavano addosso le cicatrici delle violenze e delle difficoltà incontrate sul loro cammino.

C’era tantissima umanità su quella nave in mezzo al mare. Ognuno con il suo carattere e la sua storia, ma tutti uniti dalle circostanze spesso terribili che li avevano condotti fino a lì, e da un tenace attaccamento alla vita.

Un membro dell’equipaggio di MSF gioca con i bambini sul ponte della Geo Barents riservato alle donne, 21 settembre 2024.
Un membro dell’equipaggio di MSF gioca con i bambini sul ponte della Geo Barents riservato alle donne, 21 settembre 2024. © 2024 Judith Sunderland/Human Rights Watch

Il viaggio continua

Quando la Geo Barents è entrata nel porto di Genova, il 23 settembre, l’atmosfera era elettrica. Se è vero che le persone a bordo avevano patito abusi e sofferenze, in quel momento si apriva davanti a loro la possibilità di costruire un futuro per sé e per la propria famiglia, fatto di aspirazioni e di determinazione.

Huda, la ragazza somala di 18 anni, ha imparato l’inglese da autodidatta, guardando film e leggendo libri di notte in biblioteca, nell’anno in cui ha lavorato a Tripoli come domestica non retribuita di una famiglia benestante. Costretta a lasciare la scuola a soli 12 anni, Huda sogna di poter studiare: «Voglio avere un’istruzione, perché nel mio paese non ho avuto questa possibilità, e per gli ultimi quattro anni ho solo cercato di sopravvivere. Voglio andare a scuola, imparare delle cose, mi piacerebbe diventare un medico per poter aiutare gli altri.»

Nada, 34 anni e al settimo mese di gravidanza, e Firaz, un cinquantenne padre di quattro figli, entrambi siriani, mi hanno detto di aver sopportato ogni abuso con la speranza di offrire stabilità e prospettive ai loro figli. Quando ho chiesto ad Ahmed, il ragazzo siriano di 16 anni, quali erano le sue aspirazioni per il futuro, mi ha detto di voler riprendere a giocare a tennis e a suonare la chitarra, e di voler continuare gli studi per diventare odontotecnico.

Una donna siriana al settimo mese di gravidanza guarda il Mediterraneo dalla poppa della Geo Barents, 20 settembre 2024.
Una donna siriana al settimo mese di gravidanza guarda il Mediterraneo dalla poppa della Geo Barents, 20 settembre 2024. © 2024 Matthew Kynaston
Un palestinese siriano di 50 anni a bordo della Geo Barents, 20 settembre 2024.
Un palestinese siriano di 50 anni a bordo della Geo Barents, 20 settembre 2024. © 2024 Matthew Kynaston

Per Maria, l’ostetrica, lo sbarco è stato un momento dolceamaro: «Sono tutti emozionati e pieni di speranza, anche un po’ impauriti», mi ha detto, «noi però sappiamo cosa li attende: un’altra tappa piena di difficoltà». Ed è vero, molti di loro hanno davanti un lungo cammino. Il clima di ostilità nei confronti dei migranti e dei rifugiati in Europa è la notizia da prima pagina che mette in ombra le storie positive di comunità accoglienti e di persone operose, resilienti e attente. La maggior parte dei nuovi arrivati che rimangono, se ne hanno la possibilità, si daranno da fare per se stessi, le loro famiglie e le loro nuove comunità.

L’equipaggio di MSF aiuta un palestinese siriano di 50 anni con le stampelle a sbarcare dalla Geo Barents, Genova, 24 settembre 2024. © 2024 Mohamad Cheblak/ Medici Senza Frontiere

Di recente ho parlato con alcune persone che erano state soccorse in mare qualche anno fa. France, una ragazza camerunense di 18 anni, è stata salvata da SOS MEDITERRANEE nel 2022 e adesso studia per diventare chef a Auxerre, in Francia, dove sogna di aprire un ristorante di cucina afro-francese: «Sono sulla buona strada», mi ha detto. Keita, 30 anni, è stato soccorso nel 2014 dalla guardia costiera italiana; originario del Mali, ha lavorato per un po’ come interprete (parla otto lingue), ma adesso si occupa di logistica a Rimini, dove si è trasferito per via dell’affetto che lo lega a una famiglia italiana. Da poco ha fatto domanda per ottenere la cittadinanza.

Keita, un uomo maliano di 30 anni salvato dalla guardia costiera italiana nel 2014, per mano al figlio adolescente della famiglia italiana a cui si è molto legato.
Keita, un uomo maliano di 30 anni salvato dalla guardia costiera italiana nel 2014, per mano al figlio adolescente della famiglia italiana a cui si è molto legato. © Private

Guardare più da vicino le persone che affrontano questi viaggi pericolosi può aiutarci a cambiare prospettiva. È vero che ci sono sfide da affrontare, ma c’è anche una lunga esperienza su come gestirle. E poi ci sono opportunità, vantaggi e doveri. I cittadini europei dovrebbero esigere un buon governo e politiche che tutelino i diritti di tutti e che riflettano i nostri valori condivisi e la nostra umanità.

Salvare le vite in mare e garantire che i sopravvissuti siano portati in un posto sicuro deve essere la priorità. I gruppi che fanno questo lavoro essenziale dovrebbero essere sostenuti, non ostacolati. Frontex, con l’aiuto degli stati dell’UE, dovrebbe mettere al primo posto i soccorsi, non le intercettazioni. L’Unione europea dovrebbe cambiare radicalmente il suo approccio alla migrazione, stabilire percorsi sicuri e legali (che aiuterebbero a ridurre l’attività dei trafficanti) e sospendere la sua cooperazione con le forze di sicurezza di paesi che violano i diritti umani. Ogni persona che arriva a un confine europeo dovrebbe poter contare su un sistema giusto ed efficiente per richiedere asilo o un permesso di soggiorno di altro tipo.

Abebe, il ragazzo dalla voce gentile e sempre pronto ad aiutare, mi ha detto che gli piaceva risolvere i problemi con la statistica, ma che non era la sua vera passione: vorrebbe diventare un meccanico, ma più di tutto, vorrebbe aiutare la sua famiglia in Etiopia. Aveva la voce rotta mentre mi parlava dei sacrifici sopportati da sua madre e della sua preoccupazione per il fratello minore. Quando si è accorto che quella che gli andava incontro in mezzo al mare era una nave di soccorso e non una motovedetta libica: «Mi sono sentito bene per la prima volta in vita mia, mi sono sentito un uomo libero. Ho iniziato a fare progetti per il futuro in quel preciso istante… prima di tutto voglio una vita migliore per me e per mia madre. Voglio lavorare sodo.»

Graphic in Italian

L’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera dovrebbe salvare delle vite. Chiediamo al direttore esecutivo di Frontex Hans Leijtens di agire ora.

Firma Ora

Judith Sunderland è direttrice associata per l’Europa e l’Asia Centrale di Human Rights Watch.