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La Nato indaghi sulla fatale vicenda del barcone

Si ritiene che siano morte 63 persone dopo che l’imbarcazione aveva invano cercato soccorso

(Milano, 10 maggio, 2011) - La Nato ed i suoi Stati membri dovrebbero condurre un'indagine esaustiva sulle accuse di mancato soccorso ad un barcone in avaria pieno di migranti in fuga dalla Libia, ha dichiarato oggi Human Rights Watch. Il barcone, con a bordo 72 persone, tra cui due bambini, sarebbe andato alla deriva per due settimane nel Mediterraneo prima di fare ritorno in Libia lo scorso 10 aprile, nonostante le richieste di aiuto e gli avvistamenti da parte di un elicottero militare e, apparentemente, di una porta aerei. Solo nove persone sono sopravvissute, secondo quanto riferito da una di loro a Human Rights Watch.

Human Rights Watch ha intervistato sia il superstite che un prete a Roma, il quale è stato in breve contatto telefonico con i passeggeri.  "Cosa avrebbe potuto fare la Nato per impedire la morte di queste persone?" domanda Judith Sunderland, ricercatrice esperta di Europa occidentale ad Human Rights Watch. "C'è bisogno di un'indagine per stabilire se, e in che modo, questa terribile tragedia poteva essere evitata."

Il mancato soccorso a persone su un'imbarcazione in avaria, qualora sia praticabile da parte di una nave, costituisce una grave infrazione del diritto internazionale, ha dichiarato Human Rights Watch. Il presidente dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa ha chiesto,  il 9 maggio, che si faccia un'indagine "immediata e approfondita".

La Nato ha negato l'accusa di aver ignorato migranti in pericolo in mare, dichiarando di essere stata inconsapevole della situazione dell'imbarcazione. Un portavoce della Nato a Bruxelles ha riferito ad Human Rights Watch che la Nato aveva indagato sulla vicenda con solerzia senza trovare alcuna traccia di contatti con l'imbarcazione, aggiungendo che non sono previste ulteriori indagini. Ma un riesame della documentazione, ha dichiarato Human Rights Watch, dovrebbe essere solo il primo passo per una più approfondita indagine, tale da comprendere anche interviste a personale di rilievo, sia a bordo delle navi presenti nell'area all'epoca, sia al comando Nato di Napoli.

I Paesi africani che avevano cittadini a bordo del barcone alla deriva - Etiopia, Eritrea, Ghana, Nigeria, e Sudan - e l'Unione africana, dovrebbero fare pressioni sulla Nato e sui governi europei affinchè conducano un'indagine immediata e approfondita della vicenda, ha dichiarato Human Rights Watch.

Il supersite intervistato da Human Rights Watch, un etiope di nome Abu, ha riferito che la barca di undici metri salpò dalla Libia il 25 marzo con 72 persone a bordo. Dopo circa 19 ore di navigazione, ha riferito che, comiciando a scarseggiare il carburante, i passeggeri chiamarono un prete eritreo a Roma, Padre Moses Zerai, per chiedere aiuto.

In un'intervista separata, Zerai, che gestice l'Agenzia Habeshia, un'organizzazione per i diritti dei rifugiati, ha confermato di aver ricevuto una chiamata dai passeggeri in difficoltà. Ha raccontato a Human Rights Watch di aver avvisato immediatamente sia la guardia costiera italiana che il comando Nato a Napoli. La guardia costiera italiana ha confermato al quotidiano The Guardian di aver messo in allerta tutte le imbarcazioni nell'area. La Nato, secondo quanto riportato dal portavoce, era all'oscuro di qualsiasi chiamata fatta al comando Nato di Napoli.

Abu ha raccontato per telefono ad Human Rights Watch da Tripoli che a un certo punto, dopo la telefonata con Zerai, un elicottero con la scritta "Army" (esercito) si librò al di sopra del barcone lasciando cardere acqua e biscotti. Ha detto che il capitano dell'imbarcazione, un ghanese, decise di rimanere nell'area, convinto che l'elicottero avrebbe mandato soccorsi, esaurendo così il resto del carburante. Secondo Abu, i passeggeri videro anche una portaerei e provarono a segnalare di essere in pericolo, sollevando i due bambini a  bordo e facendo gesti. Due jet si levarono in volo dalla portaerei volando sopra il barcone, ha riferito Abu, ma non arrivò alcun aiuto.  

Il Guardian, l'8 maggio, ha ipotizzato che la portaerei fosse probabilmente francese, la Charles de Gaulle. Le autorità navali francesi hanno dapprima negato che la portaerei fosse nella regione all'epoca, ed hanno poi rifiutato ulteriori commenti al quotidiano. Un portavoce Nato ha dichiarato al Guardian che la Nato non aveva alcun indizio dell'incidente, e che "le navi Nato rispondono alle richieste di soccorso in mare e danno sempre aiuto quando necessario. Salvare vite è una priorità di qualsiasi nave Nato." Non è chiaro se altri Stati membri della Nato avessero delle navi militari nell'area che operassero al di fuori del comando Nato.

La Nato ha rilasciato un comunicato indicando che l'unica portaerei sotto il comando Nato nell'area, nel periodo d'interesse, era la Garibaldi, e che essa operava ad oltre cento miglia nautiche dalla costa. "Qualsiasi denuncia che una portaerei Nato abbia avvistato ed ignorato un'imbarcazione in difficoltà è errata", ha dichiarato la Nato. Il portavoce a Bruxelles ha detto a Human Rights Watch che delle navi Nato sono accorse in aiuto di due barconi in difficoltà la notte tra il 26 e il 27 marzo, fornendo cibo ed acqua e dando l'allarme alla guardia costiera italiana, che ha successivamente salvato i barconi.

Il barcone è andato alla deriva per due settimane prima di essere riportato in Libia dalle correnti, ha detto Abu ad Human Rights Watch. Ha riferito che 61 persone, comprese tutte e venti le donne e i due bambini a bordo, hanno trovato la morte in mare. Un altro uomo è morto poco dopo aver raggiunto la Libia.

Le autorità libiche hanno detenuto i rimanenti dieci superstiti per diversi giorni, ed un altro uomo è morto durante la detenzione, ha riferito Abu a Human Rights Watch e al Guardian. Gli altri nove superstiti sono ancora a Tripoli, nella speranza di raggiungere la Tunisia con l'aiuto di una chiesa cattolica del posto. 

All'inizio di aprile, l'agenzia Onu per i rifugiati, l'Acnur, ha lanciato un appello a tutte le navi nel Mediterraneo affinché considerassero tutte le barche sovraccariche in partenza dalla Libia come imbarcazioni in difficoltà. Il retroammiraglio al comando delle operazioni marittime della Nato nel Mediterraneano ha impartito un ordine specifico e riservato all'inizio di aprile, richiedendo di intensificare la vigilanza e gli sforzi di soccorso a favore di migranti che tentassero di scappare dalla Libia via mare, ha dichiarato il portavoce Nato ad Human Rights Watch. Le istruzioni della NATO, ha dichiarato il portavoce, sono di fornire assistenza immediata - medicine, cibo ed acqua - ad imbarcazioni in difficoltà, dare l'allarme alla guardia costiera competente, e di attendere e assicurarsi che comincino le operazioni di salvataggio.

Centinaia di africani sub-sahariani sono morti nel tentativo di scappare dalla Libia per mare dalla fine di marzo. Un barcone con oltre 600 persone a bordo è affondato al largo delle coste libiche il 7 maggio, e il bilancio delle vittime è rimasto poco chiaro. Il 6 aprile, oltre 200 persone, tra cui dei bambini, sono morti quando la loro imbarcazione è andata a picco in acque maltesi.

Mancano notizie di non meno di 800 persone partite dalla Libia via mare tra le ultime sei ed otto settimane, e si presume siano morte.  

"Con un bilancio delle vittime in aumento, tutte le navi nel Mediterraneo, tra cui le forze della Nato e quelle dei suoi Stati membri, non dovrebbero aspettare che una barca affondi per intervenire", ha detto Sunderland. "Dato che sempre più persone tentano la traversata in imbarcazioni insicure e sovraffollate, tutte le navi nell'area dovrebbero presumere che i barconi di migranti si trovino in pericolo, accorrere immediatamente in loro soccorso, e portare in salvo i loro passeggeri."

Dalla fine di marzo, quando la prima ondata di persone ha cominciato a scappare dalla Libia via mare, più di diecimila africani hanno raggiunto l'Italia ed oltre mille hanno raggiunto Malta. Si tratta per lo più di africani sub-sahariani. Migliaia di migranti rimangono intrappolati in Libia, incapaci di fuggire via terra verso i Paesi confinanti. 

L'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim) ha avviato, il 14 aprile, l'evacuazione di migranti da Misurata via mare verso la città orientale di Bengasi, sotto controllo dei ribelli. Le forze del governo libico hanno ripetutamente bombardato il porto di Misurata e secondo alcuni resoconti avrebbero minato l'accesso al porto.

Dei testimoni hanno riferito ad Human Rights Watch che il 4 maggio un pesante attacco al porto ha impedito gli sforzi del traghetto dell'Oim di scaricare aiuti umanitari ed evacuare migranti bloccati. Intorno a mezzogiorno, un razzo Grad ha ucciso quattro nigeriani e ferito più di una dozzina di altri. I morti erano un fratello e una sorella - Debkin Eze, di un anno e mezzo, e Suzis Eze, di otto mesi -  e due fratelli adulti, Emragy Ogem, 30 anni, e Marian Ogem, 35 anni.  Favour Ayena, 30 anni, incinta di tre mesi, madre di Debkin e Suzis Eze, ha riportato ferite da schegge di granata alla spalla e al braccio, e ferite alla gamba che hanno imposto l'amputazione al di sotto del ginocchio.

La sera del 5 maggio, le forze pro-Gheddafi hanno disseminato, attraverso il lancio di un razzo Grad, delle mine anticarro nell'area del porto di Misurata, secondo delle testimonianze confermate da un'ispezione al razzo e ai resti delle mine. Human Rights Watch ha confermato che gli ordigni erano delle mine anticarro type-84 cinesi disseminate a lancio. Due guardie portuali sono state ferite quando il loro camion è passato sopra una di esse. Una delle guardie, Faisal El Mahrougi, 32 anni, ha riportato la frattura di un piede, tagli all'addome e al petto, ustioni di terzo grado alla gamba e al braccio, e danni estesi ai tessuti molli della gamba e del braccio. 

I migranti sub-sahariani hanno anche subito linciaggi nell'est del paese in mano ai ribelli tra fine febbraio ed inizio marzo, ha dichiarato Human Rights Watch, obbligando migliaia a scappare in Egitto. Dopo che le forze d'opposizione hanno espulso le forze di sicurezza del governo da Bengasi ed altre città orientali a metà febbraio, i libici hanno aggredito gli stranieri nelle loro abitazioni al di fuori della città, nei loro appartamenti in città e per strada, rapinandoli ai checkpoint mentre scappavano verso il confine con l'Egitto.

L'Unione Europea (Ue) deve fare di più anche per prevenire le morti in mare, ha dichiarato Human Rights Watch. Ad inzio aprile, i ministri degli Esteri dell'Ue si sono accordati per stabilire una forza militare dell'Unione per la Libia ("Eufor Libya") per azioni umanitarie, tra le quali evacuazioni via mare. Tuttavia, non è stata condotta alcuna operazione.

"C'è stato un gran bel dibattere sul potenziale arrivo in massa di rifugiati dalla Libia, con l'Italia e Malta a sopportare il carico delle missioni di salvataggio e ricezione di quanti scappano dalla Libia via mare, ma si deve fare di più per aiutare queste persone a mettersi in salvo senza rischiare la vita", ha detto Sunderland. "Per aiutare a impedire ulteriori morti in mare, l'Ue nel suo complesso dovrebbe dimostrare solidarietà concreta e cominciare ad evacuare verso l'Europa migranti che sono intrappolati dalla violenza."

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