La settimana scorsa, il ministro degli esteri Luigi Di Maio ha risposto all’ondata di indignazione sollevata dal possibile enorme trasferimento di equipaggiamento militare all’Egitto affermando che l’operazione era “ancora da concludere”. Viste le gravi violazioni dei diritti umani in Egitto, l’accordo, che potrebbe fruttare fino a 11 miliardi di Euro, non avrebbe mai dovuto nemmeno essere preso in considerazione, e certamente non avrebbe mai dovuto andare in porto.
In seguito al massacro di Rab’a del 2013, nel quale le forze di sicurezza egiziane hanno ucciso almeno 1150 dimostranti, i ministri degli esteri dell’Unione europea si sono impegnati a “sospendere le licenze di esportazione verso l'Egitto di attrezzature che potrebbero essere usate a fini di repressione interna” ed a “rivedere la loro assistenza nel settore della sicurezza con l'Egitto”.
Da allora, almeno 12 stati membri dell’Ue, Italia inclusa, hanno contraddetto quell’impegno, nonostante non sia stata fatta giustizia per quel massacro e la repressione si sia solo intensificata da quando al-Sisi guida il Paese. Alcune organizzazioni per i diritti umani hanno documentato l’uso di equipaggiamento militare o di sicurezza fornito da Paesi europei per commettere abusi nei confronti di manifestanti pacifici, compreso durante la violenta repressione delle proteste di massa del settembre 2019, nonché nel corso di operazioni militari nel Sinai del Nord, durante le quali l’esercito egiziano ha commesso cirmini di guerra.
Lo scorso febbraio, sette organizzazioni per i diritti umani, inclusa Human Rights Watch, hanno chiesto all’Ue di adottare una serie di misure concrete – tra le quali il rispetto dell’impegno preso nel 2013 – come risposta alla crisi dei diritti umani in Egitto, associandosi alla richiesta di un “riesame profondo e completo” delle relazioni dell’Ue col Paese formulata dal Parlamento europeo nel novembre 2019.
L’accordo per la vendita di armi è stato concluso mentre l’opinione pubblica italiana è ancora scossa in seguito al recente arresto, detenzione e presunta tortura al Cairo di Patrick Zaki, ricercatore egiziano iscritto all’Università di Bologna. Il caso ha ricordato a molti quello di Giulio Regeni, ricercatore italiano torturato e ucciso nel 2016 presumibilimente dalle forze di sicurezza egiziane.
Nonostante gli sforzi incessanti da parte della famiglia Regeni e della società civile per chiedere verità e giustizia, i governi italiani che si sono succeduti dal 2016 non hanno preso misure adeguate per assicurare sviluppi concreti. Nel 2016, l’Italia ha richiamato il proprio ambasciatore dal Cairo data la riluttanza delle autorità egiziane a collaborare in maniera seria e costruttiva nelle indagini; l’ambasciatore è stato rimandato al Cairo l’anno successivo, nonostante l’assenza di sviluppi significativi sul caso.
Autorizzare il trasferimento di armi significa far presente al governo egiziano che la sua brutale repressione dei diritti umani, l’assenza di cooperazione sul caso Regeni, e il rifiuto di rilasciare Zaki e le altre miglia di prigionieri politici detenuti ingiustamente e in condizioni orribili e di sovraffollamento non comportano alcuna conseguenza significativa.
Le autorità italiane dovrebbero interrompere la vendita di equipaggiamento militare all’Egitto, come richiesto dalla campagna #StopArmiEgitto di Amnesty Italia.