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Detriti sul terreno dopo un bombardamento aereo sul centro di detenzione per migranti a Tajoura, a est di Tripoli in Libia, dove 53 migranti sono stati uccisi, mercoledì 3 luglio 2019. © 2019 Hazem Ahmed/AP Photo

(Bruxelles) – Human Rights Watch, Amnesty International e il Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli (ECRE) hanno esortato i Ministri degli esteri dell’Unione europea, che si riuniranno a Bruxelles il 15 luglio 2019, a chiedere con decisione alle autorità libiche la chiusura dei centri di detenzione dei migranti e ad assumersi l’impegno, a nome dei paesi che rappresentano, di favorire l’evacuazione dei detenuti in luoghi sicuri, anche al di fuori della Libia e negli stessi stati membri.

“Le parole di indignazione per le condizioni atroci dei detenuti e per i rischi che corrono nel corso degli scontri a Tripoli sono prive di significato se non accompagnate da misure di soccorso urgenti per allontanarli dal pericolo”, afferma Judith Sunderland, direttore associato per l’Europa e l’Asia centrale di Human Rights Watch. “I governi europei devono offrire un supporto concreto alle autorità libiche al fine di chiudere tutti i centri di detenzione ed evacuare il prima possibile le persone più vulnerabili e a rischio”.

Dopo l’attacco mortale che ha colpito il centro di Tajoura all’inizio di luglio, le autorità libiche hanno espresso un’ apertura all’idea di liberare i detenuti dai suoi centri ufficiali. Il 10 luglio l’Alto rappresentante uscente per gli affari esteri dell’Unione, Federica Mogherini, ha dichiarato che “l’attuale sistema di detenzione dei migranti in Libia deve finire”. Prima di lei, il 7 giugno, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, rimarcando le “terribili condizioni” dei centri, aveva lanciato un appello alle autorità libiche e alla comunità internazionale affinché tutti i migranti e i richiedenti asilo detenuti a Tripoli fossero “rilasciati immediatamente”.

Ciò nonostante, i governi dell’UE non hanno mai posto come condizione del loro supporto alle autorità libiche la chiusura dei centri di detenzione e il rilascio delle migliaia di persone trattenute illegalmente. Hanno invece continuato a sostenere che l’assistenza umanitaria da loro finanziata avrebbe migliorato le condizioni di vita nei centri (pur non essendoci prove che lo dimostrino), e ad aiutare la Guardia Costiera libica a riportare nel paese i migranti intercettati in mare, condannandoli a una detenzione indefinita. In un nuovo comunicato dell’11 luglio, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) hanno chiesto che tutti i finanziamenti siano condizionati alla chiusura dei centri, presentando una serie di proposte per il rilascio immediato dei detenuti.

Le già disastrose condizioni nei centri di detenzione, sotto il controllo formale del governo di accordo nazionale riconosciuto dall’ONU, si sono aggravate dall’inizio di aprile, quando le forze del generale Khalifa Hiftar hanno messo sotto assedio la capitale Tripoli. L’attacco aereo della notte del 2 luglio al centro di Tajoura, situato all’interno di una base militare a sudest della città, ha causato 53 vittime e almeno 130 feriti. Due detenuti della stessa struttura erano già stati colpiti durante un attacco precedente, il 7 maggio, quando un bombardamento aereo si era abbattuto a soli 100 metri dal centro di detenzione. Il 9 luglio l’UNHCR ha annunciato che le autorità libiche avevano permesso ai sopravvissuti di uscire da Tajoura ma, a quanto pare, essi non hanno ricevuto un’assistenza adeguata né la possibilità di lasciare il paese e raggiungere un altro luogo sicuro, se lo desideravano. Alla fine del mese di aprile, alcuni uomini armati avevano attaccato i detenuti del centro di Qasr Bin Ghashir, circa 24 chilometri a sud di Tripoli. La responsabilità di entrambi gli attacchi resta poco chiara e dovrebbe essere stabilita a seguito di indagini credibili e indipendenti.

Negli altri centri situati dentro o intorno a Tripoli, gli scontri hanno interrotto le forniture di acqua e cibo e peggiorato le condizioni sanitarie, oltre a limitare l’accesso delle organizzazioni umanitarie e delle agenzie dell’ONU che offrono le cure di base. Dall’inizio di luglio, l’UNHCR ha trasferito 1.630 persone dai centri situati sulle prime linee del fronte al suo Centro di raccolta e partenza, sempre a Tripoli, ma anche in altri centri di detenzione considerati più sicuri. L’Alto commissariato calcola che siano circa 3.800 i migranti rinchiusi nei centri più vicini alle zone di conflitto, mentre la popolazione totale dei detenuti il 21 giugno era stimata in 5.800 unità. In base alla legge libica, ogni migrante, richiedente asilo o rifugiato privo di documenti può essere detenuto senza avere la possibilità di contestare la legittimità di tale detenzione, che di conseguenza è arbitraria.

Human Rights Watch, Amnesty International edECRE chiedono il rilascio di tutte le persone detenute arbitrariamente nelle strutture del governo di accordo nazionale e la chiusura dei centri. Considerando i rischi a cui sono esposti i cittadini stranieri in Libia, il governo dovrebbe lavorare con le agenzie internazionali e l’Unione europea per fornire assistenza umanitaria immediata ai detenuti liberati e aprire corridoi umanitari per portarli in salvo.

Gli stati membri dell’UE dovrebbero garantire alle persone rilasciate percorsi sicuri e regolari per uscire dalla Libia, che prevedano anche l’aumento dei ricollocamenti e procedimenti più rapidi per facilitare i trasferimenti dell’UNHCR verso il suo centro di transito in Niger o direttamente negli stati dell’Unione. Dall’inizio di aprile, l’Alto commissariato è riuscito a evacuare solo 289 persone in Niger e 295 in Italia, finora l’unico paese europeo che ha accettato di accogliere i richiedenti asilo direttamente dalla Libia. Anche gli stati che non fanno parte dell’UE dovrebbero sostenere gli sforzi per le evacuazioni e i ricollocamenti.

“L’orrendo attacco della settimana scorsa al centro di Tajoura ha evidenziato una volta di più il pericolo mortale a cui sono esposti gli uomini, le donne e i bambini detenuti in Libia”, ha affermato Matteo de Bellis, ricercatore sulla migrazione e l’asilo per Amnesty International. “Invece di chiudere gli occhi davanti alle condizioni disumane, le torture, gli stupri e le altre forme di violenza di cui sono vittime i migranti e i rifugiati nei centri di detenzione, i governi dell’Unione europea dovrebbero istituire immediatamente

percorsi sicuri di uscita dalla Libia e assicurare che le persone intercettate nel Mediterraneo centrale non siano riportate in Libia”.

Secondo Human Rights Watch, Amnesty International e l’ECRE, la decisione degli stati e delle istituzioni europee di delegare alle autorità libiche il controllo della migrazione, insieme alla collettiva abdicazione alle responsabilità per il soccorso in mare, hanno senz’altro contribuito a creare questa situazione drammatica. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, dall’inizio dell’anno al 6 luglio scorso la Guardia Costiera libica sostenuta dall’UE ha intercettato e riportato in Libia 3.750 migranti; nello stesso periodo, in Italia e a Malta ne sono sbarcati 4.068, mentre 426 hanno perso la vita nel Mediterraneo.

Con un totale stimato di 667 morti in mare nei primi sei mesi del 2019, l’UNHCR calcola che una persona su sei abbia perso la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa, mentre nello stesso periodo dell’anno scorso il rapporto era di una su diciotto.

Malgrado a livello internazionale vi sia ampio consenso sul fatto che la Libia non può essere considerata un posto sicuro in cui riportare i migranti, la linea politica adottata da molti governi e istituzioni dell’UE è stata di consentire che le autorità libiche prendessero il controllo di una vasta area di ricerca e soccorso, allontanare le forze europee dal Mediterraneo centrale e impegnarsi attivamente o appoggiare tacitamente i tentativi di ostacolare o criminalizzare le organizzazioni non governative che hanno cercato di assumersi la responsabilità dei soccorsi, in mancanza di una risposta efficace da parte degli stati.

Questa politica mette i comandanti delle navi di soccorso nel Mediterraneo in una posizione insostenibile, incoraggiandoli in modo diretto o indiretto a far sbarcare le persone in Libia in aperta violazione del diritto internazionale.

I negoziati fra gli stati dell’Unione per trovare un accordo che permetta di condividere la responsabilità per lo sbarco e il ricollocamento dei migranti soccorsi in mare hanno avuto scarso successo, risolvendosi in qualche accordo ad hoc per evitare le situazioni di stallo delle navi delle Ong, ma anche di quelle mercantili e della Guardia Costiera, di fronte alla politica sempre più dura dei “porti chiusi” adottata dal governo italiano.

A marzo, Human Rights Watch e Amnesty International hanno pubblicato un Piano d’azione per un sistema di soccorsi equo e prevedibile nel Mediterraneo. Il Piano, che si basa sulle raccomandazioni del Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli (ECRE), propone un sistema temporaneo per assicurare lo sbarco immediato delle persone soccorse in mare nel pieno rispetto del diritto internazionale, ma anche un metodo equo per condividere le responsabilità attraverso i ricollocamenti.

“Ora che le agenzie internazionali ed europee, le città e la società civile si dimostrano pronte a fornire il loro sostegno operativo, un accordo fra gli stati dell’Unione non è solo urgente e necessario, ma anche fattibile”, ha dichiarato la segretaria generale dell’ECRE Catherine Woollard. “La Commissione europea e la presidenza finlandese del Consiglio devono impegnarsi a favorire quest’accordo, anziché promuovere false soluzioni che coinvolgono gli stati nordafricani. L’OIM, l’UNHCR, l’Unione africana e l’industria navale possono usare la loro influenza per convincere gli stati europei a collaborare. Aderire alle proposte che sono state presentate contribuirebbe a salvare delle vite e a migliorare la situazione in Libia”.

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