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Nigeria: Angoscia e povertà per le sopravvissute della tratta di esseri umani

Si ponga fine alla detenzione in rifugi e si offra maggiore sostegno

(Abuja) – Molte sopravvissute della tratta di esseri umani per sfruttamento sessuale e del lavoro, una volta tornate in Nigeria, sono alle prese con problemi di salute irrisolti, povertà e condizioni di vita ripugnanti, ha dichiarato Human Rights Watch in un rapporto pubblicato oggi. Le autorità nigeriane hanno mancato di prestare l’assistenza di cui le sopravvissute hanno bisogno per ricostruire le proprie vite, e hanno detenuto illegalmente in dei rifugi molte donne e ragazze già traumatizzate.  

Il rapporto di 90 pagine dal titolo “‘You Pray for Death’: Trafficking of Women and Girls in Nigeria,” fornisce resoconti dettagliati di come la tratta di esseri umani si svolga in Nigeria. Human Rights Watch ha riscontrato che l’incubo per le sopravvissute non finisce quando riescono a tornare a casa. Il governo nigeriano dovrebbe adottare provvedimenti per affrontare le gravi condizioni di salute, l’esclusione sociale e la povertà con cui si misurano le sopravissute, e smettere di traumatizzarli ulteriormente detenendoli in dei rifugi.  

“Donne e ragazze trafficate dentro e fuori dalla Nigeria hanno patito abusi indicibili per mano dei trafficanti, ma hanno ricevuto sostegno medico, terapie e sostegno finanziario inadeguati per reintegrarsi in società” ha detto Agnes Odhiambo, ricercatrice esperta per i diritti della donna a Human Rights Watch. “Siamo rimasti scioccati nel trovare sopravvissute alla tratta rinchiuse, e senza possibilità di comunicare con le proprie famiglie per mesi interi, all’interno di strutture governative.”

Human Rights Watch ha intervistato 76 superstiti di traffico umano in Nigeria, così come funzionari governativi, leader della società civile, rappresentanti di governi donatori e istituzioni che danno sostegno a iniziative antitratta in Nigeria.

La tratta, frequente, di donne e ragazze nigeriane in Europa e Libia ha fatto notizia a livello internazionale negli ultimi anni, spingendo il governo nigeriano ad adottare provvedimenti. Molte donne e ragazze sono anche tenute in condizioni simili a quelle della schiavitù all’interno della Nigeria.  

Le autorità nigeriane hanno adottato alcune importanti misure per affrontare il dilagante problema della tratta di esseri umani nel Paese, tra cui l’istituzione di rifugi, assistenza sanitaria, e la creazione di programmi vocazionali e di sostegno economico per le sopravvissute.  

Tuttavia, le autorità si appoggiano eccessivamente ai rifugi, anziché a servizi incentrati sulla comunità, come mezzo principale per garantire servizi alle sopravvissute. Le autorità nigeriane hanno anche detenuto delle superstiti all’interno di tali strutture, negando loro la libertà di allontanarsene, spesso per mesi interi, in violazione degli obblighi internazionali della Nigeria. La protezione non dovrebbe essere una scusa per detenere arbitrariamente donne e ragazze, e privarle della loro libertà e facoltà di muoversi liberamente, ha dichiarato Human Rights Watch. Tali condizioni detentive mettono a rischio il loro recupero e benessere.

A woman who tried to make her way to Europe sits with her child in a shelter in Benin City, Nigeria. Nigerians who attempt the journey to Europe often end up enslaved, beaten, assaulted, and trapped in Libya. March 2018. © 2018 Lynsey Addario/Getty Images Reportage
“Sono qui da quasi sei mesi …. Mangio, dormo, e grido. Non aprono il cancello …” ha detto una diciottenne in un rifugio della National Agency for the Prohibition of Trafficking in Persons (NAPTIP). “Ho detto al NAPTIP che non voglio rimanere qui; voglio andare a casa. Hanno detto che mi lasceranno andare. Non sono a mio agio qui. Non posso rimanere senza fare niente.”

Il percorso delle vittime di traffico è straziante, ed è difficile risollevarsi. Human Rights Watch ha documentato come i trafficanti, perlopiù conoscenti delle loro vittime, ingannano donne e ragazze per trasportarle all’interno dei confini nazionali e al  estero ai fini di sfruttarle in varie forme di lavoro forzato.

Donne e ragazze spesso credevano di emigrare per impieghi all’estero, ben pagati, come lavoratrici domestiche, parrucchiere, o cameriere d’albergo. Rimanevano scioccate quando capivano di essere state ingannate, rimanendo intrappolate in situazioni di sfruttamento, con ingenti “debiti” da pagare. Hanno detto che i loro aguzzini le obbligavano a prostituzione e lavoro domestico forzato per lunghe giornate senza pause e senza paga. I trafficanti le obbligavano a fare sesso con uomini senza preservativi, e spesso le obbligavano ad abortire in condizioni malsane, senza antidolorifici o antibiotici.

Alcune sopravvissute alla tratta hanno descritto esperienze spaventose che hanno causato loro traumi durevoli. Una donna ha raccontato di essere stata trafficata e obbligata a prostituirsi in Libia, all’età di diciotto anni, e di essere rimasta soggiogata per circa tre anni. Mentre era in Libia, fu rapita da persone lei dice erano membri dello Stato islamico (conosciuto anche come Isis). Assistette a esecuzioni e bombardamenti, e passò di mano in mano tra vari trafficanti. Rimase incinta, ma perse il bambino appena nato durante un bombardamento. Ha descritto così la sua vita dopo la tratta: “A volte non voglio vedere nessuno. A volte sento che sto per uccidermi. Non dormo bene.”   

Alcune donne e ragazze dicono di essere alle prese con problemi di salute mentale e fisica di lunga durata e di vivere lo stigma sociale una volta tornate in Nigeria, dove hanno difficoltà ad ottenere aiuto e servizi. Molte donne e ragazze hanno detto di non avere le risorse per sostenere se stesse e le proprie famiglie. Le sopravvissute alla tratta hanno detto di sentirsi profondamente stressate, e disperate.

Le superstiti dicono di non essere state coinvolte attivamente, in genere, dagli enti preposti a garantire servizi nelle decisioni sull’assistenza che toccava loro, e di non aver ricevuto informazioni adeguate sui servizi stessi. Alcune hanno subìto lunghe attese, senza assistenza, dopo aver contattato gli enti in cerca di aiuto.

Al di là dell’uso di rifugi da parte del governo, una rete di organizzazioni non governative offre servizi alle vittime della tratta, tra cui rifugi e sistemazioni, identificazione e individuazione delle famiglie, così come riabilitazione e reintegro. Tuttavia, rappresentanti di alcuni di questi gruppi hanno detto di non essere finanziati adeguatamente e di non essere in grado di soddisfare i molteplici bisogni delle sopravvissute per un’assistenza omnicomprensiva di lungo termine.

Gli sforzi di riabilitazione e reintegro in Nigeria sono anche inficiati da un’eccessiva enfasi sull’acquisizione di competenze professionali nel breve periodo che rafforza i tradizionali ruoli di genere, dai fiacchi tentativi del governo di identificare le vittime, e da problemi di finanziamenti e coordinamento, e da scarsa vigilanza.

Le autorità nigeriane, tra cui i funzionari del NAPTIP, dovrebbero lavorare con urgenza per migliorare l’assistenza e i servizi per le superstiti alla tratta di esseri umani identificate internamente e rimpatriate, anche mettendo fine alla pratica di negare la libertà di movimento a coloro che vengono ospitate nei rifugi. Le autorità nigeriane dovrebbero assicurare che le politiche e le pratiche relative all’uso di tali rifugi siano rispettose dei diritti umani delle sopravvissute alla tratta, far sì che nessuno sia detenuto in tali strutture, e valutare l’impatto dell’approccio basato nel uso di rifugi “chiusi.”   

“Le autorità nigeriane fanno fatica a gestire la crisi della tratta di esseri umani, e lavorano in condizioni ardue, ma possono fare di meglio se ascoltano ciò che le sopravvissute hanno da dire in merito ai propri bisogni” ha detto Odhiambo. “Per mettere fine alla tratta e spezzare i cicli di sfruttamento e sofferenza occorre che il governo aiuti le sopravvissute a superare il trauma e a guadagnarsi una vita dignitosa in Nigeria.”   

Selezione di resoconti dal rapporto

Viaggi strazianti e prigionia   

Juliana P., 23 anni, fu trafficata in Libia nel 2015. Racconta di essere rimasta in balia del mare e, più tardi, prigioniera in Libia.

Rimanemmo in mare per cinque giorni. Non c’era più cibo. Non sapevamo dove fossimo. Un uomo morì, lo gettammo in mare. La gente piangeva, diceva che non sapeva che avremmo sofferto così tanto. Incontrammo un gruppo di arabi; ci presero sulla loro barca e ci portarono in prigione. Ci rimanemmo per sei mesi. Il cibo che ci davano in prigione era pane, tè chai, spaghetti e acqua. L’acqua era molto salata; ci faceva esfoliare la pelle. Piangevamo e ci picchiavano.  

Schiavitù sessuale, prostituzione e lavori forzati

Joy P. ha raccontato di essere stata vittima di tratta nel 2017, all’età di dodici anni, da casa sua nello stato Anabra a quello di Lagos da parte di una donna che la ingannò dicendo che l’avrebbe aiutata con gli studi mentre si fosse presa cura dei suoi figli. La donna forzò Joy a pulire e cucinare per due mesi senza paga, e poi la portò in un bordello costringendola a prostituirsi: 

Un giorno (…) mi portò in un albergo. Lì ritrovai una delle ragazze che avevo conosciuto nello stato di Anambra. La donna andò dal proprietario dell’albergo e disse “Ho portato un’altra ragazza.” L’uomo disse che ero troppo giovane per stare lì. Mi riportò a casa e comprò delle medicine per farmi ingrassare. Dopo tre settimane mi ci riportò, ma il proprietario non mi accettò. Allora mi portò in un altro hotel, e lì mi presero. Io le dissi, “Non è per questo che mi hai portato qui.” Rispose che dovevo ripagarla dei soldi che ci vollero per portarmi in Lagos, prima di poter tornare.

Comprò dei preservativi e me li diede dicendo che degli uomini sarebbero venuti da me. Mi diede una stanza. Diversi uomini vennero a letto con me. Persi il conto di quanti. Scappai dopo due giorni. Mi ritrovarono e mi riportarono a casa della donna. Mi picchiò e disse che dovevo pagarla. Mi diede qualcosa da bere e mi fece promettere che non sarei scappata di nuovo. Mi riportò al primo albergo e mi accettarono. Fu doloroso. Piangevo sempre.

Uma K., 32 anni, dice di essere stata portata in Libia nel 2013 da un uomo che viveva nella sua stessa strada a Benin City. Racconta che una madam teneva lei ed altre ragazze sotto ricatto e le sfruttava sessualmente. La madam obbligò Uma ad abortire più volte, facendola pagare per le operazioni, e obbligandola a lavorare quasi immediatamente subito dopo:

Stavo male. Mi disse, “Sei un’infermiera, puoi curarti da sola.” Mi picchiava. Si mangiava una volta al giorno. La sveglia era alle 4 del mattino. Mi picchiava, insieme al marito, per svegliarmi. Gli uomini venivano a letto con noi senza preservativo. Sono rimasta incinta quattro volte. Era lei stessa a occuparsi dell’operazione per noi (…) se pagava l’infermiera 40 dinar, ci chiedeva il doppio. Il giorno dopo, già si tornava a lavorare. 

Georgina K., 13 anni, è del Benin, e ha raccontato di essere stata in Nigeria per quattro anni al momento dell’intervista con Human Rights Watch nel 2017. Racconta che la madre non aveva soldi per mandarla a scuola, e sua zia si offrì di intervenire:

Mi portò qui [in Nigeria] per lavorare e pagarmi una scuola professionale. Mi portò da una persona che vende cibo. Mi facevano vendere amala [cibo nigeriano fatto con farina di manioca o patata dolce]. Non mi davano da mangiare. Al mattino non mangiavo niente; mi dicevano che avrei mangiato al ritorno, intorno alle 3 p.m. Facevo anche lavori domestici. Mi picchiavano e mi abusavano verbalmente. Mi diceva che non lavoravo bene. Lavoravo in continuazione. Pagarono mia zia, che disse avrebbe mandato i soldi ai miei genitori. Non sono sicura che glieli abbia mandati. Stavo male e non mi curavano.

La vita in Nigeria dopo la tratta

Uma K. ha descritto la sua vita in Nigeria dopo essere scappata dallo sfruttamento sessuale in Libia:

A volte i miei amici mi prendono in giro. Una collega [infermiera] mi ha preso in giro su Facebook dicendo che ero andata a prostituirmi in Libia…. A volte piango. Credo che alcuni dei miei parenti si vergognino di me, perché quando siamo con altre persone non vogliono parlarmi. A volte sento che la gente si schernisca di me persino quando cammino per strada. Non ho cercato aiuto perché mi vergogno; non so cosa mi aspetta. Certa gente potrebbe prenderti in giro e non aiutarti.

Joan A., 13 anni, ha detto che a volte non può permettersi il cibo:

Vivo da sola; mia zia mi ha dato la casa dove vivo (…) compra lei il cibo. A volte la chiesa mi dà del cibo. Altre volte non ho niente da mangiare.  

Ad Adaku G., 31 anni, era stato detto da un vicino che poteva aiutarla a trovare lavoro in Francia, ma dopo un viaggio straziante attraverso il deserto del Sahara rimase intrappolata in Libia, dove una madam la obbligò a prostituirsi. Ancora soffre di problemi di salute in seguito al suo calvario:

Non godo di buona salute. Sto sempre male (...) un malanno dopo l’altro. La mia famiglia mi ha pagato le cure (…) Ho dolori all’addome inferiore, alla schiena, e non posso chinarmi. Ho dolori alla vita.

Detenzione in rifugi

Ebunoluwa E., 18 anni, superstite alla tratta in un rifugio NAPTIP, ha detto:

Da quando sono qui, mangio e dormo. Un pastore viene ogni domenica per farci la predica. Ogni giorno preghiamo. Non ho seguito alcun corso di addestramento professionale. Non mi hanno chiesto cosa voglio fare. Da ieri, sono tre settimane che sono qui. Non ho ancora parlato con mia madre. Sono andata dalla dirigente e le ho detto che voglio dire a mia madre che sono qui. Lei mi chiesto perché non lo abbia detto al JDPC [Justice Development and Peace Caritas Commission], una NGO che è venuta a intervistarci. Il NAPTIP ha il mio telefono. Non ho il mio passaporto. Ho visto che ce l’ha il JDPC. Sono così triste, voglio andare a casa. Non mi piace questo posto; troppe regole. Ci svegliano con una campanella e ci obbligano a pregare. Non mi hanno detto quando andrò a casa (…) È da stamattina che piango. 

Gladness K., 24 anni, ha detto di essere stata tenuta in un rifugio del NAPTIP per circa tre settimane, e poi di essere stata trasferita in un altro per una settimana senza informazioni su quando sarebbe tornata a casa:

Voglio andare da mia madre (…) In Lagos dicevano che avrei dovuto essere contenta di tornare perché molte persone soffrono e vengono sfruttate. Mi hanno chiesto se volessi imparare a lavorare, e gli ho detto che volevo tornare a casa. Non mi hanno detto quando tornerò; ho chiamato mia madre questo pomeriggio e non sono sicura di quando verrà a prendermi.  

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