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L’Italia smetta di ostacolare i soccorsi in mare

La comandante della Sea Watch 3 non deve essere perseguita

La Guardia di Finanza italiana sale a bordo della nave di salvataggio Sea-Watch 3 dopo lo sbarco di 47 migranti nel porto siciliano di Catania, 31 gennaio 2019. © 2019 AP Foto/Salvatore Cavalli


Aggiornamento: (27 giugno 2019) – Dalle 17:30 ora locale, le autorità italiane continuavano a bloccare l’attracco della Sea Watch 3 al porto di Lampedusa, oltre 24 ore dopo l'ingresso nelle acque italiane. In un messaggio video twittato dall'organizzazione alle 17:37, la capitana Carola Rackete ha riportato che secondo le autorità "una soluzione sta per essere trovata”

(Milano) – La decisione dell’Italia di abbandonare deliberatamente i migranti e i richiedenti asilo sulle navi di soccorso, oltre che inumana, mette a repentaglio la sicurezza delle persone a bordo ed è la prova del fallimento delle politiche migratorie europee nel Mediterraneo centrale, ha dichiarato oggi Human Rights Watch.

Due settimane dopo aver soccorso più di 50 persone al largo della Libia, la nave Sea Watch 3, gestita dall’organizzazione non governativa Sea Watch, ha sfidato il divieto di ingresso in acque italiane. La comandante ha infatti deciso di ignorare le istruzioni che le ordinavano di riportare i passeggeri in Libia, un paese non sicuro. Nel frattempo, i governi e le istituzioni europei sono rimasti per lo più in silenzio.

“Dopo aver abbandonato i migranti in mare per settimane, l’Italia non dovrebbe commettere un ulteriore abuso perseguendo la comandante della Sea Watch per aver salvato delle vite”, afferma Judith Sunderland, direttore associato per l’Europa e l’Asia centrale. “È tempo che le istituzioni e gli stati membri dell’Unione europea si assumano la responsabilità di una politica spietata che preferisce lasciar morire le persone in mare o farle torturare in Libia anziché portarle in salvo in Europa.”

Dal mese di giugno del 2018, il vicepremier e Ministro dell’Interno Matteo Salvini ha sostanzialmente negato o ritardato lo sbarco dei migranti in Italia, causando diverse situazioni di stallo come questa. Tuttavia, è la prima volta che le autorità italiane applicano il nuovo decreto sicurezza bis, in vigore dal 15 giugno, che consente al Ministro di vietare l’ingresso nelle acque territoriali per motivi di ordine pubblico. Le imbarcazioni che non rispettano il divieto vanno incontro a una sanzione fino a 50.000 € e al sequestro della nave in caso di reiterazione dell’illecito.

Secondo Human Rights Watch, la Commissione europea dovrebbe notificare all’Italia che sta verificando la compatibilità del decreto con gli obblighi stabiliti dalle leggi dell’Unione. Il provvedimento sarebbe in contrasto con la direttiva sulle procedure di asilo, il codice frontiere Schengen e la Carta dei diritti fondamentali. Sebbene il parlamento italiano abbia 60 giorni di tempo per approvarlo, il decreto sicurezza bis è già in vigore e sta avendo un impatto diretto sulle vite delle persone interessate.

Gli stati membri dell’UE devono anche concordare con urgenza un meccanismo che garantisca la gestione degli sbarchi in maniera prevedibile ed entro un tempo ragionevole, aggiunge Human Rights Watch, per evitare che le navi rimangano inutilmente in stallo come avviene adesso. Gli accordi devono prevedere misure per condividere fra tutti i paesi dell’Unione la responsabilità per le persone sbarcate.

Tornando al caso più recente, il 12 giugno la Sea Watch 3 ha soccorso 53 persone a bordo di un gommone a circa 47 miglia dalla città libica di Zawiya. L’Ong dichiara di aver contattato l’Italia, Malta, la Libia e l’Olanda (il suo stato di bandiera). Le autorità libiche hanno assunto il coordinamento delle operazioni, ma stando a quanto riferisce il personale di bordo, la  Guardia Costiera libica è arrivata sul posto quando il trasferimento dei passeggeri dal gommone alla nave si era già concluso.

Quando l’Ong ha chiesto alle quattro autorità allertate di indicare un porto sicuro dove dirigersi, l’unica a rispondere è stata la Libia, dando istruzioni per lo sbarco a Tripoli. Ma la comandante della Sea Watch 3 si è rifiutata di riportare i migranti nel paese, che non si può considerare un posto sicuro in base al diritto internazionale, e ha quindi fatto rotta verso il porto sicuro più vicino, quello di Lampedusa.

L’Italia le ha però negato l’ingresso nelle sue acque territoriali, pur evacuando 11 persone per portarle sulla terraferma. Le altre 42 persone soccorse, fra cui sei donne e tre minori non accompagnati, sono rimaste a bordo.

La Corte europea dei diritti dell’uomo, in risposta al ricorso urgente presentato dai migranti sulla Sea Watch 3, ha chiesto all’Italia di “continuare a fornire tutta l’assistenza necessaria”, ma ha deciso di non ordinare al paese di consentire lo sbarco immediato. Una posizione simile era già stata adottata lo scorso gennaio, per il ricorso di un’altra nave della stessa Ong Sea Watch: in entrambi i casi, la Corte non ha ravvisato il rischio di danni irreparabili.

La politica dei porti chiusi di Salvini e le più ampie ripercussioni della politica dell’UE sui diritti umani nel Mediterraneo centrale destano crescente preoccupazione a livello internazionale. Di recente, sei esperti delle Nazioni Unite hanno esortato le autorità italiane a “smettere di mettere in pericolo la vita dei migranti, compresi i richiedenti asilo e le vittime della tratta di persone, invocando la lotta contro i trafficanti. Questo approccio è fuorviante e non è in linea con il diritto internazionale generale e il diritto internazionale dei diritti umani”. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet ha dichiarato che le misure per contrastare l’assistenza umanitaria a migranti e rifugiati, comprese quelle che riguardano i soccorsi in mare, “violano valori antichi e preziosi che ci accomunano tutti, criminalizzando la compassione”.

Dunja Mijatović, Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, in un comunicato del 18 giugno ha chiesto ai paesi europei di “garantire che gli sbarchi avvengano solo in luoghi sicuri e senza inutili ritardi”, oltre a collaborare con le Ong nei soccorsi e “porre fine alle interferenze col loro lavoro”. Il direttore dell’Ufficio per i diritti umani dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione ha inoltre criticato “l’accanimento giudiziario e la criminalizzazione, le campagne diffamatorie, le minacce e persino gli attacchi” rivolti alle persone e alle organizzazioni che si schierano in difesa dei diritti di migranti e rifugiati.

La Libia è un punto di transito fondamentale per i richiedenti asilo che cercano di raggiungere le coste europee via mare. Come linea politica e pratica, le autorità libiche riportano i migranti soccorsi o intercettati in mare nel paese, dove li attende una detenzione arbitraria in condizioni disumane e il rischio ben documentato di gravi abusi, tra cui lavori forzati, tortura e violenza sessuale. L’ONU ha più volte sottolineato che la Libia non è un luogo sicuro in cui far sbarcare le persone soccorse in mare. La preoccupazione per i pericoli a cui vanno incontro i migranti in Libia non fa che aumentare a causa degli scontri fra milizie rivali, che imperversano intorno a Tripoli e rappresentano un ulteriore fattore di rischio per le persone recluse nei centri di detenzione della zona.

La legge del mare che regola le operazioni di salvataggio impone ai comandanti delle navi di intervenire in situazioni di pericolo e condurre le persone soccorse in un luogo sicuro, vale a dire un luogo in cui non corrano il rischio di essere perseguitate né di subire torture o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea riconosce il diritto di asilo.

“È un mondo alla rovescia se il capitano di una nave che porta in salvo delle persone infrange la legge e rischia una multa salata”, ha detto Sunderland. “I diritti fondamentali e la compassione per chi fugge da una situazione di pericolo dovrebbero sempre prevalere”.

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