(Milano) –Nel corso di recenti operazioni di salvataggio nelle acque internazionali del Mediterraneo, le forze libiche hanno esibito un atteggiamento irresponsabile tale da mettere in pericolo le persone a cui venivano in aiuto, ha detto oggi Human Rights Watch. Questi episodi mostrano come le forze libiche manchino della competenza necessaria per adempiere, in sicurezza, agli obblighi di ricerca e soccorso.
L’Italia e altri Paesi dell’Unione europea non dovrebbero cedere il controllo delle operazioni di soccorso in acque internazionali alle forze libiche. Il 22 e 23 giugno 2017, in occasione della riunione del Consiglio europeo a Bruxelles, gli stati membri dell’Ue dovrebbero impegnarsi a eseguire operazioni di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale.
“I recenti episodi dimostrano quanto sia sbagliato, per i Paesi dell’Ue, affidare le vite delle persone bisognose di soccorso alle forze della guardia costiera libica quando vi sono alternative più sicure,” ha dichiarato Judith Sunderland, direttore associato per Europa e Asia centrale a Human Rights Watch. “L’Ue dovrebbe assicurare che le proprie navi eseguano solide operazioni di ricerca e soccorso nelle acque internazionali vicine alla Libia, dove si verifica la maggior parte dei naufragi e, ove possibile, l’Italia dovrebbe incaricare le navi Ue e di gruppi non-governativi, anziché le imbarcazioni della Libia, di prendere l’iniziativa nei soccorsi.”
Quella del Mediterraneo centrale è la rotta migratoria più mortale al mondo. Dall’inizio del 2015 fino al 1 giugno 2017, oltre 12mila persone sono morte o sono state dichiarate disperse. Dal 1 gennaio, oltre 60mila persone sono state soccorse e tratte in salvo sulle sponde italiane.
Il 10 e il 23 maggio, forze della guardia costiera libica sono intervenute, in acque internazionali, in operazioni di soccorso già avviate da organizzazioni non-governative, tenendo comportamenti minacciosi, tali da poter creare panico, e senza fornire giubbotti di salvataggio a persone in cerca di soccorso su imbarcazioni inadatte alla navigazione. Il 23 maggio alcuni gruppi non-governativi hanno visto, e filmato, degli agenti della guardia costiera libica mentre sparavano in aria, e hanno raccolto testimonianze dai sopravvissuti secondo cui gli agenti avevano anche sparato in acqua dopo che le persone, in preda al panico, si erano tuffate in mare.
La decisione dell’Italia di cedere il controllo, il 10 maggio, a forze della guardia costiera libica, è in linea con la più ampia strategia dell’Ue di far impedire alle autorità libiche la migrazione su barconi verso l’Europa, nonostante le profonde preoccupazioni sollevate dall’esternalizzazione ad un organismo di un Paese spaccato da conflitti, nel quale i migranti si misurano con terrificanti violenze, ha detto Human Rights Watch.
Ci sono resoconti credibili di osservatori sulla scena che, il 26 maggio, in acque internazionali, sono partiti colpi da una nave della guardia costiera libica e diretti a un’imbarcazione della guardia costiera italiana, mentre questa stava trasportando migranti tratti in salvo a Lampedusa. L’episodio è stato riportato dalla stampa italiana, sebbene la guardia costiera italiana abbia negato di esserne a conoscenza. Human Rights Watch ha parlato con una persona che era a bordo di un’imbarcazione nel Mediterraneo quel giorno, la quale ha sentito una comunicazione radio, su un canale aperto, tra una nave della Marina italiana nelle vicinanze e l’imbarcazione della guardia costiera libica. Dallo scambio risultava chiaro che la guardia costiera libica aveva fatto fuoco perché aveva scambiato l’imbarcazione della guardia costiera italiana per una nave di migranti.
Come regola generale, le forze libiche fanno sbarcare in Libia le persone che traggono in salvo o intercettano in mare, esponendole a detenzione arbitraria in condizioni terribili e ad un rischio, ben documentato, di gravi violenze, tra cui lavori forzati, tortura e violenza sessuale. Le navi con bandiera Ue, a causa di quella che l’Onu ha definito una “crisi dei diritti umani” per i migranti in Libia, hanno il divieto di rinviarvi chiunque, a prescindere da dove avvenga un salvataggio. L’agenzia Onu per i rifugiati, l’Unhcr, ha fatto appello a tutti i Paesi affinché “permettano ai civili in fuga dalla Libia (cittadini libici, residenti abituali della Libia, e cittadini di Paesi terzi) l’accesso ai propri territori.”
Il 10 maggio, il Centro nazionale di coordinamento del soccorso in mare (MRCC) a Roma ha ricevuto la prima richiesta di soccorso relativa a una barca in difficoltà e ha ordinato al gruppo tedesco Sea-Watch di fornire assistenza, ma ha poi permesso alle forze della guardia costiera libica di gestire il coordinamento e a una pattuglia libica di prendere il controllo dell’operazione. Sebbene l’MRCC abbia saputo della barca quando era ancora in acque territoriali libiche, l’episodio è avvenuto a circa 20 miglia nautiche di distanza dalla costa libica, in acque internazionali, e Sea-Watch aveva già avviato la propria operazione di soccorso.
Alle autorità libiche mancano la competenza, l’equipaggiamento e l’addestramento necessari per eseguire operazioni di salvataggio in sicurezza, e che andrebbero richiesti prima di poter affidare loro un ruolo di coordinamento , ha detto Human Rights Watch. Quando l’Italia dirige un’operazione di soccorso, dovrebbe assicurare un salvataggio e uno sbarco sicuri, e non cedere il comando alle forze della guardia costiera libica, se non in situazioni di imminente pericolo di vita e in assenza di altre navi di salvataggio.
Il comandante della guardia costiera fedele al governo di accordo nazionale, riconosciuto dall’Ue, ai comandi del ministro della Difesa a Zawiyah, una città costiera a 50 chilometri a ovest di Tripoli, ha detto a Human Rights Watch, durante una visita ad aprile, che l’uso della forza contro i migranti, in particolare a mezzo di percosse con tubi di plastica nel corso delle operazioni di salvataggio, è “necessario per controllare la situazione dato che non si può comunicare con loro. Alcuni sanno nuotare, altri no.”
La Libia non ha mai ufficialmente delineato la propria zona di ricerca e soccorso o fornito informazioni all’Organizzazione marittima internazionale su questi servizi, nemmeno sotto Gheddafi. L’Italia ha assunto, da almeno ottobre 2013, quando avviò Mare Nostrum, l’imponente operazione navale a scopo umanitario, delle responsabilità de facto di ricerca e soccorso al di fuori delle acque territoriali libiche.
L’Italia e i Paesi dell’Ue con queste responsabilità nel Mediterraneo, specialmente Malta, hanno un obbligo, in virtù del diritto marittimo internazionale, di mantenere un servizio di ricerca e soccorso efficace che assicuri sia operazioni di salvataggio affidabili che sbarchi in luoghi sicuri. Nel fare ciò, dovrebbero valutare se una qualunque delle loro azioni possa mettere le persone tratte in salvo a rischio di persecuzione, tortura o trattamento crudele, inumano o degradante in seguito allo sbarco.
Per adempiere a questi obblighi, gli Stati dell’Ue dovrebbero come minimo decidere, durante il summit, di progettare e mantenere un sistema nel quale essi assumano e mantengano il comando su tutte le operazioni di salvataggio in acque internazionali. Dovrebbero anche rinnovare gli sforzi per ottenere il permesso di operare in acque libiche così che le imbarcazioni con bandiera Ue siano in una migliore posizione per effettuare i soccorsi.
Le istituzioni dell’Ue dovrebbero assicurare il monitoraggio dell’addestramento di agenti della guardia costiera libica così come dell’uso, da parte dei libici, degli equipaggiamenti forniti da Paesi dell’Ue, ed essere pronte a sospendere il trasferimento di equipaggiamenti nel caso in cui venga stabilito un collegamento tra tali attrezzature e abusi. Fino a che non vi siano miglioramenti dimostrabili nel trattamento dei migranti nei centri di detenzione in Libia e di quelli in custodia della guardia costiera libica, i Paesi dell’Ue dovrebbero adottare ogni misura per evitare di essere complici, con le autorità libiche, di violenze sia in mare che a terra. Tutti gli sforzi per migliorare le condizioni nei centri ufficiali di detenzione in Libia dovrebbero essere accompagnati da monitoraggi, resoconti pubblici e trasparenti, e misure per assicurare la determinazione di responsabilità. I moduli di addestramento dovrebbero puntare innanzi tutto su esercitazioni concrete sulle buone pratiche per l’esecuzione, in sicurezza, di operazioni di ricerca e soccorso.
Gli Stati membri dell’Ue dovrebbero anche tener conto di un embargo sulle armi, imposto dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nei confronti di alcune fazioni libiche, il quale stabilisce come vadano gestite forniture di materiali non letali e addestramento. Il 10 giugno, il Comitato per le sanzioni sulla Libia, che ha il compito di sovrintendere all’esecuzione dell’embargo sulle armi, ha pubblicato un rapporto nel quale solleva il dubbio se i beneficiari dell’addestramento Ue rientrino nelle eccezioni all’embargo sulle armi o meno, prendendo in considerazione, tra altri fattori, i problemi del controllo effettivo delle forze di guardia costiera e di verifiche accurate sui partecipanti all’addestramento.
“Per quante pie illusioni ci si voglia fare, è ingiustificabile ignorare i limiti delle autorità libiche in fatto di risposta a situazioni di richieste di soccorso in mare o di interventi svolti in modo sicuro e umano,” ha detto Sunderland. “Se i governi dell’Ue hanno a cuore salvare vite e impedire violenze su migranti in Libia, dovrebbero fornire maggiore sostegno alle vitali operazioni di soccorso dell’Ue nel Mediterraneo piuttosto che dare fiducia a partner libici inaffidabili.”
Cooperazione tra Ue e Libia sulla migrazione
I conflitti armati in Libia iniziati nel 2014 hanno portato a una crisi umanitaria e di governance, con 250mila libici sfollati e il dissesto del sistema economico, politico e giudiziario. Il Paese ha tre autorità in competizione per la legittimità, il riconoscimento della comunità internazionale e il controllo del territorio: un governo di accordo nazionale (GNA), con base a Tripoli, sostenuto dall’Onu e riconosciuto dall’Ue; il governo di salvezza nazionale, anch’esso con base a Tripoli; e il governo ad interim, con base nelle città orientali di al-Bayda e Tobruk. Il GNA ha un controllo limitato su istituzioni chiave e solo un controllo nominale sulle forze ad esso allineate.
Le prove della brutalità nei confronti dei migranti in Libia sono schiaccianti. Un rapporto incriminante del dicembre 2016 dell’ufficio dell’Alto Commissariato per i diritti umani e della missione Onu in Libia ha documentato malnutrizione diffusa, lavori forzati, malattie, percosse, abusi sessuali, torture e altri abusi nei centri di detenzione per migranti in Libia. Un memorandum del ministero degli esteri tedesco, trapelato e pubblicato dalla stampa nel Gennaio 2017, affermava che i migranti in Libia vengono uccisi, torturati, stuprati, ricattati e banditi nel deserto “quotidianamente.” Human Rights Watch ha documentato abusi contri i migranti in Libia per anni, anche da parte di guardie nei centri di detenzione sotto il controllo del Direttorato per l’immigrazione illegale (DCIM), di forze della guardia costiera libica e di trafficanti.
Il ministro dell’interno del GNA gestisce, nella Libia occidentale, circa 24 centri di detenzione “ufficiali” che sono, almeno nominalmente, sotto il controllo del ministero. In parallelo, vi sono milizie e bande criminali che detengono migranti in centri non ufficiali.
Nell’ottobre 2016, l’operazione anti-traffico dell’Ue EUNAVFOR MED – nota anche come operazione Sofia - ha cominciato ad addestrare ufficiali, sottufficiali e marinai della guardia costiera della Marina libica, sotto la direzione del Ministero della difesa del GNA. Novantatré libici hanno partecipato all’addestramento a bordo di navi della Marina dell’Ue nel Mediterraneo, mentre altri 42 sono stati addestrati a Malta e in Grecia in programmi di addestramento su terraferma che continueranno in Spagna e Italia fino alla fine del 2017. La terza parte, prevista ma non ancora avviata, prevede l’addestramento a bordo di pattuglie della Libia in acque territoriali libiche. Nella dichiarazione di Malta del febbraio 2017, i Paesi dell’Ue si sono impegnati a dare la priorità a “formazione, equipaggiamento e supporto” delle forze della guardia costiera libica, così come a “un’azione operativa rafforzata” per chiudere la rotta del Mediterraneo centrale. In più, a febbraio, l’Italia ha firmato un memorandum d’intesa con il GNA, sospeso a Marzo da un tribunale di Tripoli, e ha consegnato , a maggio, i primi quattro di dieci pattugliatori alle forze della guardia costiera libica.
Dall’ottobre 2013 l’Italia ha coordinato pressoché tutte le operazioni di soccorso della Guardia costiera italiana e della Marina; dell’agenzia Ue per i confini esterni, comunemente nota come Frontex; dell’operazione Sofia; e delle navi di gruppi non-governativi così come, all’occorrenza, di imbarcazioni commerciali. Nove gruppi – Migrant Offshore Aid Station (MOAS), Medici Senza Frontiere (MSF), SOS MEDITERRANEE, Sea-Watch, Jugend Rettet, Sea Eye, Life Boat Minden, Proactiva Open Arms, e Save The Children si sono impegnati con pattuglie di soccorso nel Mediterraneo centrale. Secondo le cifre ufficiali del governo italiano, un quarto di tutte le persone soccorse nel 2016, e un terzo di quelle soccorse nei primi tre mesi del 2017, sono state tratte in salvo da gruppi non-governativi.
Alla frammentazione delle forze di governo libiche corrisponde quella tra le forze della guardia costiera libica. L’appoggio dell’Ue è destinato alle forze della guardia costiera della Marina della Libia occidentale, la quale risponde, almeno nominalmente, ai comandi del ministero della difesa del GNA. Il comandante delle forze della guardia costiera a Zawiya ha riferito a Human Rights Watch, nel corso di una visita ad aprile, che il capo della guardia costiera del GNA aveva solo un controllo nominale sulle forze in diversi punti della Libia occidentale, tra cui le città di Misurata, Tripoli, Zawiya, Sabrata, e Zuara.
Anche il ministero dell’interno del GNA ha le proprie forze di sicurezza costiere. Il colonello Tariq Shanbour, capo delle forze di sicurezza costiere del ministero dell’interno, con base a Tripoli, ha riferito a Human Rights Watch, nel corso della visita, che sebbene le sue forze non abbiano navi di salvataggio, il loro mandato si estende a operazioni dalla terraferma fino alle acque territoriali libiche, a dodici miglia nautiche dalla costa. Il colonnello Shanbour ha detto che le sue forze combattono la criminalità, compresa l’immigrazione irregolare, il contrabbando di carburante, la pesca di frodo e il traffico di droga.
Ad aprile, la Commissione europea ha annunciato un pacchetto di aiuti per migranti in Libia da 90 milioni di euro, circa metà dei quali andrebbero, tra le varie misure, a migliorare le condizioni nei centri ufficiali di detenzione, dare assistenza nei punti di sbarco, e favorire rientri volontari.
L’episodio del 23 maggio
La ricostruzione di Human Rights Watch degli eventi del 23 maggio si basa su un rapporto dettagliato fornito da MSF, su interviste telefoniche con un membro dell’equipaggio di MSF e con un membro dell’equipaggio del gruppo tedesco Jugend Rettet, entrambi testimoni dell’episodio, così come su altre dichiarazioni pubbliche di altri gruppi presenti sulla scena. Tutti gli orari, per entrambi gli episodi, sono indicati nel fuso orario del tempo coordinato universale (UTC) che è in anticipo di due ore sul tempo dell’Europa centrale (CET).
Il 23 maggio, un pattugliatore della guardia costiera libica è intervenuto in un’operazione di salvataggio già in corso, in acque internazionali, condotta dall’Aquarius, una nave di soccorso di MSF e SOS Mediterranée, e dalla Iuventa, una nave di Jugend Rettet.
Dopo che un aeroplano di EUNAVFOR MED aveva individuato tra 8 e 10 barche di migranti alle 06:50, l’MRCC a Roma affidò alla Vos Hestia, un’imbarcazione di salvataggio gestita da Save The Children, il comando sul campo.
Alle 08.30 l’Aquarius aveva già raggiunto l’area, a 15 miglia nautiche dalla costa libica, in acque internazionali, avviando l’operazione di soccorso. A mezzogiorno, l’equipaggio aveva già distribuito giubbotti di salvataggio alle persone a bordo di un gommone bianco e aveva evacuato 34 persone prima di dover ordinare ai propri motoscafi di assistere un’altra imbarcazione in una situazione di emergenza ancora più grave. Alle 10.30, una pattuglia della guardia costiera libica con il numero 267 entrò nell’area di soccorso avvicinandosi a molti dei barconi, generando onde destabilizzanti.
Un membro dell’equipaggio di Jugend Rettet a bordo di un RHIB, un gommone a chiglia rigida, che in quel momento distribuiva giubbotti di salvataggio, ha detto che a un certo punto la pattuglia li avvicinò: “Avevamo l’ordine di collaborare, e pensammo che volessero aiutarci. Facemmo dei segni e ci risposero, addirittura con dei pollici in su. Pensammo che andasse tutto per il meglio.”
La pattuglia libica si ritirò a una certa distanza. L’equipaggio a bordo dell’Aquarius sentì almeno sei spari in aria partiti da mitragliatori montati sul pattugliatore libico. Il pattugliatore libico, poi, virò di nuovo verso i barconi di migranti e, intorno alle 13:00, due uomini sul pattugliatore, uno dei quali portava l’uniforme e aveva un mitragliatore AK-47, abbordarono uno dei barconi, un gommone bianco, e cominciarono a virare verso le acque territoriali libiche.
Una foto postata da Jugend Rettet mostra un membro della guardia costiera libica mentre punta il mitragliatore contro le persone a bordo, e il video di una troupe televisiva italiana a bordo dell’Aquarius mostra lo stesso uomo mentre spara due o tre colpi in aria. Il filmato mostra anche decine di persone che, in preda al panico, si gettano in acqua.
Le testimonianze dei superstiti raccolte da MSF indicano inoltre che gli ufficiali libici avrebbero confiscato telefoni e soldi, e persino l’anello di un uomo. Mentre gli ufficiali riportavano il gommone bianco verso la Libia, ancora più persone si gettavano in acqua. L’equipaggio dell’Aquarius finì per tirar su 67 persone. Alle 13:40, gli ufficiali libici cambiarono rotta riportando il gommone verso l’Aquarius e alle 14:00 dissero di voler consegnare a bordo le persone sul gommone. Alle 14:17, tutte e 38 le persone che erano rimaste sul gommone bianco erano state trasbordate sull’RHIB dell’Aquarius.
Mentre due persone dell’equipaggio libico erano salite a bordo del gommone, il pattugliatore libico era rimasto sul lato di un barcone di legno, stracolmo di migranti, che avrebbe poi fatto rientrare in Libia, e prelevò decine di persone da un secondo barcone di legno. Secondo stime di gruppi non-governativi, tra 200 e 400 persone furono riportate in Libia. Le loro imbarcazioni soccorsero undici barconi di migranti.
MSF ha raccolto le testimonianze di due uomini, uno che diceva di essere libico e un altro che si dichiarava siriano, tratti in salvo dopo essere saltati in acqua dal barcone di legno. Gli uomini sostengono che gli ufficiali della guardia costiera avevano preso denaro e telefoni anche dai passeggeri a bordo dell’imbarcazione di legno.
Altre testimonianze raccolte da MSF tra i superstiti una volta a bordo della propria imbarcazione, suggeriscono che le forze della guardia costiera libica avevano sparato più colpi di quelli registrati dalle imbarcazioni non-governative presenti nell’area. Ancora più inquietante è l’accusa di sei persone che si erano gettate in acqua dal gommone, e di due uomini saltati dal barcone di legno, secondo cui gli ufficiali libici spararono in acqua dopo che le persone si erano gettate in mare. Non sono stati rinvenuti cadaveri, né sono state riscontrate ferite fresche da armi da fuoco sulle persone tratte in salvo.
Un portavoce della Marina libica, l’ammiraglio Ayyoub Amr Qassem, ha negato alcuni aspetti della ricostruzione dei gruppi non-governativi, sostenendo che fosse “illogico” che la guardia costiera libica sparasse ai migranti.
L’episodio del 10 maggio
La ricostruzione di Human Rights Watch degli eventi del 23 maggio si basa sul diario di bordo di una nave di Sea-Watch, su un’intervista telefonica con un membro dell’equipaggio di Sea-Watch testimone dell’episodio, su comunicazioni via e-mail con il centro nazionale di coordinamento di soccorso marittimo fornite da Sea-Watch, e dichiarazioni dell’MRCC italiano e della guardia costiera libica.
Il 10 maggio, l’MRCC italiano a Roma permise a una nave della guardia costiera libica di assumere il coordinamento di un’operazione di soccorso in acque internazionali. Sea-Watch, che aveva già avviato la propria operazione di salvataggio sulla base di precedenti indicazioni dell’MRCC a Roma, filmò una manovra pericolosa del pattugliatore libico, tale da poter generare una collisione, e ha lanciato un appello per un’indagine indipendente.
Alle 05.38 UTC, l’MRCC di Roma chiamò la nave tedesca Sea-Watch per informarla di un barcone di migranti con posizione 33° 00’N, 012° 27’E, entro le acque territoriali libiche. Il centro di coordinamento fece seguito con un’email alle 05:42 che dava istruzioni Sea-Watch di “cambiare rotta… e assistere” il barcone.
Alle 06:25, quando la nave di Sea Watch avvistò il barcone, un’imbarcazione di legno stracolma con quasi 500 persone a bordo, le sue coordinate erano 33° 08.9’N, 012° 28.9’E, a circa 20 miglia nautiche dalla costa libica, in acque internazionali.
L’MRCC di Roma chiamò la nave di Sea-Watch alle 06:47 chiedendo di “confermare l’imbarcazione target” e inviò una e-mail undici minuti più tardi, alle 06:58, con un foto dell’imbarcazione scattata alle 05:01. Sea-Watch avviò l’operazione di salvataggio, calando in acqua un motoscafo pieno di giubbotti di salvataggio con cui avvicinare il barcone. Ma alle 06:56, l’MRCC di Roma chiamò Sea-Watch per avvertire che la Libia avrebbe assunto il coordinamento dell’operazione di salvataggio, e mandò un e-mail indicando che “in seguito alla nostra precedente telefonata, confermiamo che alle ‘06:13Z’ [la Z indica il fuso orario dell’UTC], la guardia costiera libica ci ha informati che sta coordinando il caso di ricerca e soccorso in questione e che un pattugliatore libico, come riferito dalla guardia costiera libica, è operativo.”
Il diario di bordo di Sea-Watch indica che il suo motoscafo era in acqua alle 6:59. Questo si avvicinò al barcone, e il diario di bordo della nave indica che stabilì un contatto alle 07:04. Durante questo lasso di tempo, Sea-Watch tentò ripetutamente, su numerose frequenze radio, di raggiungere il pattugliatore libico, che l’equipaggio vedeva avvicinarsi con velocità, ma senza ricevere risposta. Sea-Watch ha riferito a Human Rights Watch che chiaramente avrebbe “dato seguito [all’operazione su motoscafo],” convinti “che anche in coordinamento con i libici, i motoscafi sarebbero stati necessari, anche solo in stand-by, per garantire uno sbarco sicuro.”
Il diario di bordo di Sea-Watch nota che alle 07:04, mentre l’equipaggio sul motoscafo urlava per comunicare con i migranti sul barcone di legno, il pattugliatore libico 206 gli schivò la prua in quella che Sea-Watch definisce una manovra pericolosa. Sea-Watch riferisce che il pattugliatore libico non aveva risposto alle chiamate radio della nave tedesca. Il motoscafo di Sea-Watch fece rientro alla nave madre del gruppo, e la nave della guardia costiera libica procedette a caricare sulla propria imbarcazione diverse centinaia di persone dal barcone di legno. Almeno due ufficiali salirono a bordo del barcone, con numerose persone ancora a bordo, per riportarlo a terra. Non distribuirono giubbotti di salvataggio, mettendo tutti a rischio.
Secondo l’agenzia Onu per i rifugiati, l’Unhcr, 484 persone sbarcarono a Tripoli, tra cui 14 donne e 19 bambini. Il resto erano uomini adulti. Quattro donne vennero ricoverate – per ragioni non chiarite – mentre tutti gli altri furono detenuti nella base aeronautica Mitiga di Tripoli.
Il portavoce della Marina libica, l’ammiraglio Qassem, ha asserito che Sea-Watch “provò a ostacolare il lavoro della guardia costiera per recuperare i migranti.” La guardia costiera libica del GNA non ha risposto a quesiti via e-mail e telefonate. In un’e-mail a Human Rights Watch, la guardia costiera italiana ha detto che “l’MRCC di Roma, in qualità di primo centro coordinamento di soccorso marittimo ad aver ricevuto l’informazione, stando alle procedure internazionali di ricerca e soccorso, ha notificato le autorità costiere responsabili delle operazioni di ricerca e soccorso dello stato nelle cui acque territoriali si trovava l’imbarcazione in difficoltà, e ha contattato la nave più vicina, M/V SEA WATCH 2… più tardi, l’MRCC di Roma ha informato M/V SEA WATCH 2 che la guardia costiera libica aveva assunto il coordinamento del caso di ricerca e soccorso.”
Il capitano Sergio Liardi, capo dell’MRCC di Roma, ha detto ad Human Rights Watch che allertare le autorità libiche, in questo caso, era appropriato, dato che doveva fare ogni cosa in suo potere per impedire la perdita di vite umane. Human Rights Watch non contesta che il soccorso di vite debba essere il principio guida, ma mette in dubbio che fosse necessario per la guardia costiera italiana permettere alle forze della guardia costiera libica di assumere il controllo di un’operazione in acque internazionali, operazione che Sea-Watch aveva già avviato ed era meglio attrezzata per eseguirla in sicurezza.
Diritto e pratica di soccorso in mare
Gli stati costieri hanno diversi diritti sovrani, giurisdizionali e obblighi di ricerca e soccorso a seconda della zona marittima. Le acque territoriali, che si estendono a dodici miglia nautiche dalla costa, sono considerate territorio nazionale dove i governi esercitano pieni diritti sovrani. In altre parole, una barca in acque territoriali libiche non ha lasciato, legalmente, il territorio libico. Dal punto di vista legale, il rinvio a terra di passeggeri su una nave in acque territoriali è semplicemente un trasferimento da una parte all’altra del territorio nazionale. La zona contigua è l’area adiacente alle acque territoriali, per un massimo di ventiquattro miglia dalla costa, dove uno stato gode di alcuni diritti giurisdizionali per prevenire e punire violazioni delle proprie leggi, comprese quelle sull’immigrazione. Infine, tutti gli stati costieri dovrebbero avere delle zone designate di ricerca e soccorso (SAR) dove, in base al diritto internazionale, sono tenuti a coordinare ed eseguire operazioni di salvataggio.
Le autorità libiche hanno diritto, dal punto di vista legale, di far rispettare le proprie leggi sull’immigrazione nelle acque territoriali e di punirne le violazioni nella zona contigua. Questo significa che le autorità libiche hanno giurisdizione di intercettare imbarcazioni di migranti nella zona contigua anche in mancanza di una situazione di emergenza. La Libia, inoltre, aderisce ai protocolli dell’Onu contro il traffico e la tratta di esseri umani.
Il Protocollo Onu contro il traffico di migranti via terra, mare e aria stabilisce che le intercettazioni in mare, effettuate in base al sospetto di traffico di esseri umani, devono garantire la sicurezza e il trattamento umano delle persone a bordo, e devono “preservare e tutelare i diritti delle persone [trafficate]… in particolare il diritto alla vita e il diritto a non essere sottoposto a tortura o altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti”. Il protocollo, inoltre, impone alla Libia di adottare misure di protezione dalla violenza per i migranti trafficati, e di prestare considerazione particolare alle esigenze di donne e bambini. Il protocollo Onu per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e bambini, impone alla Libia di mettere in atto misure per assistere e proteggere le vittime di traffico.
Il diritto libico penalizza l’entrata, l’uscita, e la permanenza clandestina in Liba, punibili con detenzione, e in alcuni casi con lavoro forzato e ammende. Il diritto libico sull’immigrazione non fa distinzioni tra migranti, rifugiati, richiedenti asilo, vittime di traffico, o altri gruppi particolarmente vulnerabili. La Libia non ha ratificato la Convenzione sui rifugiati del 1951. Human Rights Watch, Amnesty International, l’ufficio Onu dell’Alto commissariato per i diritti umani e la missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia ed altri, hanno documentato abusi da parte della forze della guardia costiera libica nel corso di intercettazioni, nonché detenzione arbitraria, violenze sessuali, e altri gravi abusi dei diritti umani al rientro in Libia.
Il diritto del mare si è evoluto cercando di assicurare un’assistenza efficace e tempestiva a qualunque imbarcazione in difficoltà. La Convenzione Onu sul diritto del mare (UNCLOS) e la Convenzione per la salvaguardia della vita umana in mare (SOLAS) impongono che ogni stato costiero promuova “l’istituzione, l’attivazione ed il mantenimento di un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso relativo alla sicurezza in mare” e cooperi “ove le circostanze lo richiedano... a questo scopo attraverso accordi regionali con gli Stati limitrofi.”
SOLAS stabilisce che il Paese nella cui zona di ricerca e soccorso si verifichi una situazione di emergenza, ha la “responsabilità primaria” per il coordinamento e la cooperazione così che le persone soccorse sbarchino in un luogo sicuro. La Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo non risolve la questione della responsabilità nel caso in cui uno stato costiero parte della Convenzione, come la Libia, non possa o non adempia ai propri obblighi, tuttavia mette in risalto la cooperazione regionale.
Il diritto marittimo internazionale impone chiaramente il dovere, a tutte le navi in mare, di soccorrere persone in difficoltà, che si trovino in acque territoriali o internazionali.
Questo significa che le navi possono entrare nelle acque territoriali libiche senza autorizzazione per rispondere a una situazione che ponga una minaccia di imminente perdita di vite umane. Nel caso di avvistamento di un’imbarcazione in acque territoriali che dia segno di difficoltà, ma in assenza di un pericolo imminente, solitamente qualunque imbarcazione nell’area monitora la situazione fino a che le forze al comando della nazione sovrana accorrono in aiuto.
Per anni, la Libia ha in gran parte mancato di adempiere ai propri obblighi di ricerca e soccorso. Non ha mai ufficialmente delineato la propria zona di ricerca e soccorso né fornito informazioni sui propri servizi di ricerca e soccorso all’Organizzazione marittima internazionale (IMO). La Libia non ha un MRCC operativo a pieno regime. Il governo italiano ha assunto un controllo de facto su ricerca e soccorso al largo della costa libica da quando ha lanciato la sua imponente missione umanitaria Mare Nostrum, durata un anno, nell’ottobre 2013. Da allora, ha continuato a coordinare pressoché tutte le operazioni di Frontex, Operazione Sofia, delle navi di gruppi non-governativi così come, all’occorrenza, di imbarcazioni commerciali.
Ciò è in linea con i criteri della Commissione sulla sicurezza marittima dell’IMO sul trattamento di persone soccorse in mare, che chiarisce come ogni MRCC dovrebbe avere dei “piani effettivi” per rispondere a tutti i tipi di situazioni di ricerca e soccorso, comprese le situazioni al di fuori della zona di ricerca e soccorso di appartenenza “fino a che il RCC [centro di coordinamento dei soccorsi] responsabile per la regione in cui è prestata assistenza… o un altro RCC in una posizione migliore per gestire il caso accetti la responsabilità.” Questi criteri stabiliscono che un “luogo sicuro” per lo sbarco sia, come minimo, un luogo dove “la sicurezza [dei superstiti] non sia ulteriormente minacciata e dove le loro esigenze di base (come cibo, riparo e cure mediche) possano essere accolte.”
Stabiliscono anche un insieme di fattori aggiuntivi da tenere presente nello stabilire “un luogo sicuro” tra cui, nel caso di richiedenti asilo e rifugiati recuperati in mare, “la necessità di evitare uno sbarco in territori dove verrebbero minacciate le vite e le libertà di coloro che hanno un timore ben fondato di persecuzione.”
Sebbene le line guida forniscano la fonte più autorevole del concetto di un “luogo sicuro” nell’ambito del diritto marittimo, a parere di Human Rights Watch tale concetto può solamente essere interpretato alla luce di altri obblighi internazionali, come il divieto assoluto di rinvio di qualunque persona verso il rischio di tortura, e le tutele contro trattamenti crudeli, disumani o degradanti e la detenzione arbitraria. Data la varietà di persone che cercano di raggiungere l’Europa via mare, si dovrebbe presumere che tra coloro che vengono tratti in salvo ci possano essere persone incapaci di esercitare il diritto a chiedere asilo in Libia e bisognose di protezione internazionale.
L’Unhcr ha anche fornito l’indicazione secondo cui le misure di intercettazione in mare non dovrebbero di fatto equivalere alla negazione di accesso a protezione internazionale o condurre al “rinvio [di chiunque], diretto o indiretto, verso… territori dove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciati.” In una sentenza decisiva del 2012, la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per i rinvii di migranti in Libia nel 2009, una politica in cui rientravano casi in cui l’Italia trasbordò delle persone, con la forza, su delle imbarcazioni libiche.
Le autorità italiane e dell’Ue hanno ripetutamente sottolineato che queste operazioni sono governate dal diritto internazionale e dalla giurisprudenza dell’Ue, i quali proibiscono il rinvio di chicchessia verso posti dove le loro vite o sicurezza sarebbero a rischio – il principio di nonrefoulement. In pratica, questo significa che nessuna persona soccorsa da una nave con bandiera Ue, o che si trovi in custodia o sotto il controllo di uno stato membro dell’Ue, può essere rinviata in Libia, a prescindere dalle acque in cui quella persona è stata soccorsa o intercettata.
Data la mancanza di competenza nell’eseguire soccorsi in sicurezza delle forze della guardia costiera libica, l’MRCC italiano e le autorità dell’Ue non dovrebbero permettere loro di assumere il comando operativo di operazioni di soccorso in acque internazionali. In più, il rischio concreto di maltrattamenti in Libia per qualunque migrante che vi venga rinviato, implica che chiunque venga soccorso da un’imbarcazione internazionale non dovrebbe essere fatto sbarcare in Libia.
Fino a che le autorità libiche non avranno posto termine alla pratica di detenzione arbitraria, e non avranno dimostrato miglioramenti durevoli e significativi nei centri di detenzione, tali da rimuovere il rischio concreto per i superstiti di essere esposti a trattamenti che vìolano la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, le autorità dell’Ue non dovrebbero cedere le proprie responsabilità di ricerca e soccorso alle forze della guardia costiera libica.