Salvare vite in mare

racconta le sue due settimane passate con SOS MEDITERRANEE in una missione di soccorso

Di JUDITH SUNDERLAND Fotografie di ANTHONY JEAN / SOS MEDITERRANEE

Uomini seduti sul bordo di un gommone sovraccarico in acque internazionali al largo della Libia. 11 ottobre 2017.

Le luci dei fari si stagliavano come torri sul mare, e le fiamme divoravano il cielo di mezzanotte quando l’Aquarius raggiunse il giacimento petrolifero di Bouri, il più grande nel Mediterraneo, circa 65 miglia nautiche a nord della Libia. Durante il tragitto ero rimasta a gambe incrociate sul ponte di questa nave di soccorso, ascoltando un gruppo di uomini originari dell’Africa occidentale raccontare storie insostenibili di prigionia e brutalità in Libia, il Paese da cui erano appena scappati. “Dio ha lasciato la Libia da tanto tempo”, concludeva Amadou, mentre tutt’intorno gli altri annuivano seri.

L’Aquarius, noleggiata dall’organizzazione non-governativa  SOS MEDITERRANEE per trarre in salvo migranti diretti in Europa, si era diretta verso il giacimento per recuperare 36 persone, principalmente siriani ed egiziani che erano stati prelevati in precedenza da una nave d’appoggio della società petrolifera. Dal ponte dell’Aquarius, un faro rivelò la piccola imbarcazione di legno, legata alla poppa della nave d’appoggio, che oscillava come una barchetta giocattolo nell’acqua scura.

Questo scenario spettacolare faceva da sfondo ad una cruda realtà: il Mediterraneo è la rotta migratoria più letale al mondo, con oltre 15mila morti registrate dal 2014. Finora, nel corso dell’anno, quasi tremila persone sono andate disperse o sono decedute, come le 26 ragazze nigeriane morte in un tragico incidente. Che così tanti siano disposti a rischiare la vita è la conferma della loro disperazione e della determinazione a fuggire da persecuzioni, violenze, e avversità nella loro terra di origine. E la dice lunga sulla brutalità che richiedenti asilo e altri migranti fronteggiano in Libia.

La maggior parte di donne, uomini e bambini che attraversano questo mare vengono dall’Africa sub-sahariana, anche se siriani, bengalesi, marocchini, algerini e sempre più libici si avventurano nel pericoloso viaggio. Alcuni scappano da violenze e forme di repressione nei Paesi d’origine, come matrimoni forzati e infibulazione. Altri cercano libertà ed opportunità economiche per sostenere le proprie famiglie. In molti finiscono vittime di traffico e abusi in Libia; lo sconvolgente livello di violenza del Paese induce tanti, che potrebbero altrimenti rimanervi, a scappare ancora una volta.

Ho passato due settimane a bordo dell’Aquarius nel corso di un pattugliamento delle acque internazionali nei pressi della Libia. Ho avuto modo di parlare con l’equipaggio delle politiche dell’Unione europea che sono alla base della decisione di intraprendere di questa missione nel Mediterraneo. Mentre i marinai si occupavano della nave, la squadra di soccorso di SOS MEDITERRANEE e gli specialisti medici e umanitari di Medici Senza Frontiere (MSF), provenienti da Europa, Australia e Stati Uniti, conducevano esercitazioni per essere sempre pronti a intervenire e salvare vite in mare.

Per dieci lunghi giorni ad inizio ottobre, mi sono chiesta se avremmo mai effettuato dei salvataggi. Non volevo che nessuno si venisse a trovare in pericolo. Auspicavo solo che la nostra nave ci sarebbe stata in caso di bisogno. Più tardi, l’Aquarius avrebbe tratto in salvo 606 persone in 36 ore.

A child arrives on board the Aquarius. October 11, 2017.
Un bambino sale a bordo dell’Aquarius. 11 ottobre 2017.
Women on board the Aquarius following their rescue in international waters off Libya. October 12, 2017.
Donne a bordo dell’Aquarius dopo essere state soccorse in acque internazionali al largo della Libia. 12 ottobre 2017.

Pattugliare il Mediterraneo

Dal 2014, le organizzazioni non-governative (Ong) hanno colmato un vuoto mortale nelle operazioni di salvataggio marittimo, pattugliando le acque internazionali antistanti il limite di 12 miglia navali che demarca le acque territoriali libiche, cioè l’area dove barconi stracolmi e in cattive condizioni hanno più probabilità di trovarsi bisognosi d’aiuto. Nei primi cinque mesi del 2017, nove Ong hanno effettuato il 40 per cento dei soccorsi nell’area, facendo capo al Centro Nazionale di Coordinamento del Soccorso Marittimo italiano. La maggior parte delle imbarcazioni governative, che si tratti di pattuglie militari o di frontiera, tendono a rimanere più lontane dalla costa libica; effettuano, sì, dei salvataggi, come imposto dal diritto del mare, ma non è la loro priorità.

 


 

Le ONG pattugliano in acque internazionali, lontane dal limite di 12 miglia navali che demarca le acque libiche, cioè l’area dove barconi stracolmi e in cattive condizioni hanno più probabilità di trovarsi bisognosi d’aiuto.

 

Tra il 10 e l’11 ottobre, l’Aquarius ha svolto sei operazioni di salvataggio, accogliendo a bordo 606 persone provenienti da 25 paesi.

 

Adesso le forze della Guardia costiera libica, appoggiate dall’Europa, stanno prendendo il controllo delle acque internazionali, anche se non sono in grado di mettere in funzione un centro di coordinamento di soccorso, come imposto dal diritto marittimo.

Quando mi sono imbarcata sull’Aquarius, SOS MEDITERRANEE era una di soltanto tre Ong rimaste operative. Le Ong erano state forzate da decisioni politiche, prese nelle capitali europee e a Tripoli, a pattugliare un’area ben più in là dalle acque territoriali libiche, rendendo i funzionari delle Ong sempre più preoccupati delle condizioni di sicurezza in uno dei mari più pericolosi al mondo. Grandi organizzazioni come MSF, la Migrant Offshore Aid Station (MOAS), e Save the Children, hanno sospeso le loro attività, facendo riferimento a timori sulle condizioni di sicurezza e alle restrizioni sull’assistenza umanitaria indipendente nel Mediterraneo.

Determinati a fermare i richiedenti asilo in arrivo via nave in seguito a un balzo negli sbarchi nel 2015, i governi europei hanno adottato misure che, sotto le spoglie di salvare vite, finiscono per intrappolare le persone in contesti di violenze. Nell’ottobre del 2016, le forze europee hanno cominciato ad addestrare le forze della Guardia costiera libica schierate col governo di accordo nazionale (GNA), una delle due alleanze in lotta per il controllo del Paese. A febbraio, l’Italia (con il sostegno dell’Ue) ha accelerato i propri sforzi per assicurare che le forze libiche fossero in grado di intercettare imbarcazioni di migranti e rinviarle in Libia. Con crudeltà, hanno anche cercato di limitare la capacità delle Ong di svolgere operazioni vitali di ricerca e soccorso.

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Madeleine Habib

coordinatrice delle operazioni di ricerca e soccorso, Aquarius,
SOS MEDITERRANEE

Madeleine Habib, coordinatrice delle operazioni di ricerca e soccorso. Foto © 2017 Judith Sunderland/Human Rights Watch


L’Italia ha fornito quattro motovedette al GNA, che gode del sostegno delle Nazioni Unite e ha sede a Tripoli, e ha segnalato la sua disponibilità a consegnare il coordinatmento delle operazioni di soccorso alle forze libiche, impiegando navi della Marina in acque libiche per aiutare ad intercettare le barche di migranti. Poi il governo italiano impose un codice di condotta delle Ong – un’operazione di pubbliche relazioni che, implicitamente, affermava il bisogno di gestire, e restringere, la loro capacità di agire con efficacia. Tutto ciò avveniva nel mezzo di una campagna diffamatoria orchestrata da gruppi contrari all’immigrazione e da alcuni mezzi di informazione, galvanizzati dalla dichiarazione dell’Agenzia per i confini esterni dell’Ue, Frontex, che le Ong facessero da traino e fossero un “fattore di richiamo” per i migranti. Due pubblici ministeri italiani insinuarono che le Ong fossero colluse con gli scafisti; uno avviò delle indagini che condussero al sequestro di un’imbarcazione di salvataggio di una Ong tedesca.

Poco dopo, il GNA dichiarò una zona di ricerca e soccorso di 74 miglia nautiche di estensione, ben oltre le sue acque territoriali, e avvisò le Ong che avrebbero avuto bisogno di autorizzazione per pattugliare l’area. Pochi giorni dopo, una nave della Guardia costiera libica avvicinò una nave di salvataggio spagnola in acque internazionali e minacciò di prenderla di “mira” a meno che questa non si fosse diretta a Tripoli. Più recentemente, l’Ong tedesca Sea-Watch ha dichiarato di aver visto annegare almeno cinque persone per via del “comportamento incauto e violento” delle forze libiche durante un’operazione di salvataggio lo scorso 6 novembre.

L’Ue appoggia queste forze pur sapendo che il GNA non controlla tutte le unità libiche che operano lungo la costa occidentale, e nonostante le prove di collusione tra milizie armate, unità della Guardia costiera, e reti di trafficanti. Un comitato di esperti delle Nazioni Unite ha documentato collegamenti estesi tra questi gruppi a Sabrata, Zawiyah, e Zuara, il villaggio sulla costa occidentale libica che fa da punto di partenza principale. Da Agosto, l’Italia sta offrendo sostegno alle forze libiche all’interno delle loro acque territoriali.

Ho parlato con alcune persone sull’Aquarius che erano state ostacolate in precedenti tentativi di scappare dalla Libia, sebbene pochi sapessero chi li avesse bloccati alla partenza o intercettati in mare.

Photograph of Adam, a 24-year-old from Darfur.

Adam, un ventiquattrenne sudanese, a bordo dell’Aquarius. 12 ottobre 2017.


Adam, un ventiquattrenne del Darfur, fu catturato a marzo su una spiaggia in Libia, prima che la sua barca potesse partire. “La Guardia costiera arrivò da tutti i lati e cominciarono a sparare… Provammo ad andarcene ma non si poteva, sparavano da ogni dove. Dicevano di essere la Guardia costiera.” Fu tenuto 25 giorni in prigione, crede fosse a Sabrata o Zuara, e fu sospeso a testa in giù e torturato con scosse elettriche fino al pagamento di un riscatto per essere lasciato andare. Quando riprovò ad aprile o maggio, la sua barca fu intercettata nuovamente poco dopo la partenza da Sabrata. Questa volta, gli uomini portavano uniformi blu con la scritta “esercito libico” in arabo. Questa volta, passò un mese di prigionia prima di pagare per essere lasciato andare.

A bordo dell’Aquarius, ci chiedevamo se ci saremmo mai imbattuti nelle forze della Guardia costiera libica. A settembre, la nave ha realizzato quattro salvataggi sotto il coordinamento libico anzichè italiano. Secondo Madeleine Habib, coordinatrice delle operazioni di ricerca e soccorso a bordo dell’Aquarius, le forze libiche non erano in grado effettuare salvataggi, così fu permesso all’Aquarius di caricare le persone a bordo e far sbarcare tutti al sicuro in Italia.

L’equipaggio afferma che le operazioni di salvataggio sotto il coordinamento libico durano più a lungo; l’Aquarius, che ha in dotazione battelli gonfiabili a china rigida per riportare in sicurezza a bordo le persone, doveva aspettare il permesso per avviare il salvataggio. Max Avis, capo soccorritore della SOS MEDITERRANEE, racconta che l’attesa sul battello, nei pressi dei gommoni strapieni di gente, mentre cercava di impedire che si facessero prendere dal panico, era snervante, non sapendo se coloro che sarebbero stati salvati sarebbero stati rinviati in Libia.

Il 31 ottobre, due settimane dopo il mio sbarco, l’equipaggio dell’Aquarius è stato obbligato ad attendere mentre le forze della Guardia costiera libica fermavano due gommoni con almeno 300 persone. “Da voltastomaco” è come Habib ha descritto l’esperienza in un’email. “Avremmo potuto trarre queste persone in salvo facilmente, invece abbiamo assistito impotenti mentre venivano rinviate verso ciò che sappiamo essere, per certo, una detenzione crudele e inumana.”

Ci sono stati episodi precedenti e successivi in cui imbarcazioni europee sono rimaste in attesa mentre le forze della Guardia costiera libica hanno svolto intercettazioni in acque internazionali.

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La nostra più grande preoccupazione è la gente intrappolata in contesti di estrema violenza in Libia.
Judith Sunderland,
Direttrice associata, Divisione per l’Europa e l’Asia Centrale,
Human Rights Watch

L’alto rischio di violazioni dei diritti umani, una volta rientrati in Libia, è precisamente la ragione per cui è illegale, per navi con bandiera dell’Ue, rinviarvi gente. E tuttavia, nel 2009, l’Italia fece un accordo con l’allora leader libico Muammar Gheddafi per intercettare barconi di migranti nel Mediterraneo e consegnarli in mare ai libici. La Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe poi confermato, nel 2012, ciò su cui all'epoca insistevano i gruppi per la difesa dei diritti umani: cioè che questa fosse una clamorosa violazione di una consolidata norma del diritto internazionale che vieta il rinvio di chicchessia verso un posto dove rischia torture o maltrattamenti.

L’Italia e altre potenze europee sembrano essere dell’avviso di poter girare intorno a quest’obbligo legale e morale creando l’illusione che i libici siano in grado di fermare le navi in maniera umana. Le politiche europee si mascherano con la pretesa di sviluppare le competenze libiche di salvare vite ed esercitare la propria sovranità, nonostante vi siano abbondanti prove che le forze libiche si comportano in modo sconsiderato e che i respinti vanno incontro ad abusi orrendi.

Questi argomenti ormai vanno esaurendosi, e sembra sempre di più che l’Europa sia disposta a farsi complice degli abusi libici. Se si mettono insieme il diritto del mare, il diritto sui rifugiati e i diritti umani si evince un principio molto semplice: non è giusto facilitare maltrattamenti. Non è giusto porre un limite al soccorso prestato da professionisti capaci. Non è giusto affidare la responsabilità di vite umane in mare a soggetti noti per essere incauti e inaffidabili. Non è giusto aiutare a respingere donne, uomini e bambini verso dolori e sofferenze quasi certe. Non è solo ingiusto, ma è illegale per un governo aiutare e agevolarne un altro a commettere atti illegittimi.

‘Nessuna pietà in Libia’

In un summit a Bruxelles a metà ottobre, i leader dell’Ue hanno celebrato , con vanto, ciò che ritengono una prova del buon funzionamento del loro approccio, quando il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha annunciato con spavalderia: “Abbiamo una reale possibilità di chiudere la rotta del Mediterraneo centrale.” Hanno menzionato una drastica caduta delle partenze, del 70 per cento dall’estate del 2016. Non vi era alcun riconoscimento del fatto che meno partenze significhino che migliaia di persone in più sono intrappolate in una Libia senza legge e tormentata dai conflitti.

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Il modo in cui parlavano della Libia, come venivano trattati… ricorda molto la schiavitù.
Marcella Kraay,
Coordinatrice di progetto a bordo dell’Aquarius, Medici Senza Frontiere

Dal 2014 gli scontri armati si sono diffusi a macchia d’olio in Libia, mandando in tilt il sistema economico, politico e giudiziario del Paese. Due autorità rivali sono in lotta per la legittimità, il riconoscimento internazionale e il controllo del territorio: il GNA di Tripoli e il Governo ad Interim, con sede nelle città orientali di al-Bayda e Tobruk. Il GNA ha un controllo limitato sulle istituzioni chiave e solo un controllo nominale sulle forze ad esso allineate.

Nel corso degli anni, insieme ai miei colleghi, ho parlato con centinaia di richiedenti asilo e altri migranti che in Libia sono stati sottoposti a detenzione arbitraria, tortura, stupro e lavori forzati. Sono soggetti a queste violenze in centri di detenzione ufficiali, nominalmente controllati dal Direttorato per l’immigrazione illegale (DCIM) sotto il ministro dell’interno del GNA, e all’interno di magazzini gestiti da milizie e reti di trafficanti. Spesso, ci sono solo due vie d’uscita: pagare un riscatto, o rischiare la fuga. Sempre più, si sente parlare di persone “vendute” da una milizia o una rete di trafficanti all’altra, che è una definizione da manuale di traffico di esseri umani.

Molte delle persone con cui ho parlato sull’Aquarius raccontano storie orrende di brutalità e lavori forzati sotto la prigionia dei trafficanti.

Altri avevano pagato dei trafficanti per farsi guidare attraverso la Libia e poi su dei barconi per l’Europa, ma sono stati imprigionati e torturati fino a che non hanno pagato. Mustafa, un somalo di 20 anni, ha passato otto mesi di prigionia a Bani Walid ed è stato torturato e messo in isolamento: “Niente visite, niente colloqui, nessuna pietà. Mai,” ha detto.

Sappiamo che i centri ufficiali del DCIM sono luoghi di privazioni e abusi. Wilfred, un uomo composto e gentile del Benin, mi ha detto che la polizia lo ha picchiato insieme ad altri africani a Tripoli, gli ha tolto i cellulari, li ha arrestati in quanto migranti senza documenti e li ha rinchiusi nel centro di Tajoura, una struttura di detenzione ufficiale sotto il controllo della polizia giudiziaria del GNA. Wilfred ha detto anche che team medici di MSF e giornalisti di tanto in tanto visitavano il centro, ma che le guardie picchiavano quelli che ci parlavano, come lui ed altri.

La lunga mano dell’Europa

Le potenze europee spendono decine di milioni di euro a sostegno di progetti per migranti in Libia, perlopiù attraverso l’agenzia Onu per i rifugiati e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, organismi che si misurano con notevoli limitazioni nell’accesso ai siti di detenzione. Hanno bisogno di molte più risorse e impegno politico da parte dei governi, in Europa come altrove, per porre fine alle detenzioni arbitrarie e aiutare almeno i più vulnerabili ad evacuare.

L’Italia, già potenza coloniale in Libia con interessi energetici nel Paese, ha preso l’iniziativa nel costituire nuove alleanze e politiche in Libia. La riprovevole politica di respingimento del 2009 fu riscattata nel 2013, quando l’Italia avviò “Mare Nostrum,” una vasta operazione di soccorso navale a cui si attribuisce il salvataggio di decine di migliaia di persone nel Mediterraneo centrale. L’Ue fece poco per finanziare l’operazione da 100 milioni di euro, o per accettare i rifugiati tratti in salvo. Di fronte a critiche sia sul fronte interno che su quello europeo, l’Italia sospese “Mare Nostrum” alla fine del 2014.

Tuttavia, da allora, l’Italia ha continuato a coordinare pressoché tutte le operazioni nel Mediterraneo centrale, facendo dei porti italiani un punto di sbarco sicuro per decine di migliaia di persone - 180mila nel 2016, più di 114mila nel corso del 2017. Dal ponte dell’Aquarius, ho visto decine di persone a bordo di un gommone, venir soccorse da una nave della Guardia costiera italiana.

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Judith Sunderland

Direttrice associata, Divisione per l’Europa e l’Asia Centrale,
Human Rights Watch

Una nave della Guardia costiera italiana trae in salvo un gommone in acque internazionali al largo della Libia. 2 ottobre 2017.


L’Italia è stata abbandonata a se stessa senza molto aiuto da parte dell’Ue, e l’arrivo di così tante persone ha provato il sistema di ricezione del Paese e alimentato un dibattito politico rovinato dalla xenofobia. Le regole d’asilo dell’Ue fanno sì che l’Italia sopporti la responsabilità di gestire la maggior parte delle persone che raggiungono le sue coste. Nel 2015, l’Ue ha adottato un piano con l’intenzione di spostare circa 35mila richiedenti asilo in altri Paesi; fino a novembre 2017, solo 10,243 persone sono state risistemate dall’Italia in altri stati membri.

Con le elezioni politiche all’orizzonte in primavera, il governo sembra determinato ad arginare il flusso a tutti i costi, incluso quello di far si che la Guardia costiera libica riporti i migranti verso gli abusi in Libia. A dicembre 2016, l’Onu ha pubblicato un rapporto schiacciante sugli abusi ai danni dei migranti in Libia. L’Alto commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad Al Hussein, ha recentemente affermato che la situazione “sia, semmai, peggiorata” e ha definito “inumano” il sostegno europeo alle forze della Guardia costiera libica.

Il mondo sull’Aquarius

La vita a bordo dell’Aquarius è cambiata drasticamente il 10 Ottobre. Tutto è iniziato con una telefonata alle 4:30 del mattino da parte del coordinatore italiano, che dava istruzioni alla nave di assistere una barca di legno con 29 persone a bordo, perlopiù siriani. Poche ore dopo, l’Aquarius traeva in salvo altre 144 persone da un gommone, con la successiva direttiva di dirigersi al giacimento di Bouri per il trasferimento di mezzanotte.

Intorno alle 6:45 del mattino dell’11 ottobre, un membro dell’equipaggio, mentre scrutava l’orizzonte con dei binocoli, notò un gommone stracolmo di persone. Per le 9 del mattino, altri 130 erano stati caricati a bordo; gli Italiani avevano allertato l’Aquarius di altri due gommoni bisognosi di soccorso. Li raggiungemmo circa due ore più tardi, traendo in salvo 218 persone, tra cui molti in gravi condizioni di salute. Più tardi, quel pomeriggio, trasbordarono sull’Aquarius altre 47 persone dalla Vos Hestia, la nave di salvataggio al comando di Save the Children.

A wooden boat carrying 29 people, mainly Syrians, just before their rescue and transfer to the Aquarius. October 10, 2017.
A young Syrian man who was traveling with his pregnant wife prepares to get on the SOS MEDITERRANEE speedboat for transfer to the Aquarius. October 10, 2017.
SOS MEDITERRANEE crew mark the rubber dinghy with the search-and-rescue (SAR) case number and date. October 11, 2017.
SOS MEDITERRANEE rescuers help a Somali woman off their rigid-hulled inflatable boat (RHIB) so she can board the Aquarius. October 11, 2017.

DA SINISTRA IN SENSO ORARIO: Una barca di legno con 29 persone a bordo, perlopiù siriane, poco prima del salvataggio e trasbordo sull’Aquarius. 10 ottobre 2017; Un giovane siriano che era in viaggio con la moglie incinta si prepara a salire su un motoscafo di SOS MEDITERRANEE per il trasbordo sull’Aquarius. 10 ottobre 2017; Un team di SOS MEDITERRANEE marchia il gommone con numero e la data dell’operazione di ricerca e soccorso. 11 ottobre 2017; Soccorritori di SOS MEDITERRANEE aiutano una donna Somala a scendere dal battello gonfiabile a china rigida e a salire a bordo dell’Aquarius. 11 ottobre 2017.

Alla fine del secondo giorno di salvataggi senza sosta, c’erano 606 nuove persone a bordo provenienti da 25 Paesi.

I salvataggi in mare sono carichi di emozione. Anche i più temprati sono messi alla prova. È straordinario assistere alla gioia e al sollievo di donne, uomini, e bambini che si rendono conto di essere finalmente al sicuro. Uomini e donne piangono apertamente, altri non smettono di sorridere, alcuni si inginocchiano e pregano per ringraziare.

 


 

Membri dell’equipaggio dell’Aquarius aiutano un uomo a salire sulla nave dopo il soccorso. 11 ottobre 2017.

 

Dragos Nicolae, soccorritore di SOS MEDITERRANE, fa indossare un salvagente a un bambino durante un’operazione di soccorso in acque internazionali al largo della Libia. 11 ottobre 2017.

 

Due uomini si abbracciano dopo essere stati salvati da SOS MEDITERRANEE. 10 ottobre 2017.

 

Coloro che mostrano palesemente cattive condizioni di salute vengono portati nella clinica della nave. Sul ponte, la squadra registra tutti gli uomini e fa un controllo su condizioni sanitarie come la scabbia. Donne e bambini vengono accompagnati nel rifugio per donne dove li registra un’ostetrica, assicurandosi di identificare donne incinte e quelle che allattano. A tutti viene dato un braccialetto colorato - giallo per minorenni non accompagnati, blu per i vulnerabili, rosa per chi ha la scabbia - così che MSF possa segnalarli alle agenzie competenti dopo lo sbarco.

Quando non aiutavo con mansioni di base - distribuzione di pannolini, controllare la fila per i bagni – mi facevo strada nel rifugio affollato e parlavo con quante più persone possibile. Così tanti sono fuggiti da situazioni profondamente angoscianti nei Paesi d’origine - Paesi lacerati dalla violenza come Siria, Sudan, Somalia ed Eritrea. Tutti hanno vissuto viaggi traumatici e abusi indicibili in Libia. Alcune di queste conversazioni erano brevi, rubate, tali da offrirmi uno schizzo della vulnerabilità dei miei interlocutori e della loro risolutezza, piuttosto che fatti concreti. Timnit (nome di fantasia), un diciassettenne eritreo che avevo fotografato sorridente e gioioso quando era arrivato a bordo, mi ha raccontato in un inglese piuttosto stentato di aver lasciato l’Eritrea all’età di 15 anni per evitare il servizio militare obbligatorio.

Molti tra quelli soccorsi l’11 ottobre erano Somali ed Eritrei che erano stati prigionieri per lunghi periodi in Libia.

Fawzia (nome di fantasia), una diciassettenne somala, ha passato solo due mesi come ostaggio dei trafficanti, ma ha raccontato che altri erano rimasti nello stesso campo per uno, due, persino tre anni. Ha detto che una donna somala, gravemente emaciata, in fuga dalla Libia sulla stessa nave, era stata prigioniera per un anno e mezzo o due anni. Un giovane somalo dal viso gentile vagava su e giù per la nave con lo sguardo spento, apparentemente incapace di parlare. Fawzia ha detto che diventò così dopo una lunga prigionia e torture.

A child just arrived on board the Aquarius. October 2017.
Una donna somala gravemente denutrita viene accompagnata nella clinica della nave. 11 ottobre 2017.
Una donna tiene in mano un pasto pronto confezionato mentre dei membri del team di SOS MEDITERRANEE parlano con altre persone tratte in salvo a bordo dell’Aquarius. 12 ottobre 2017.

Dopo essere rimasta vedova, il padre di Fawzia la costrinse a risposarsi, così sua madre la aiutò a scappare, incinta, ma senza la sua bambina di 21 mesi. “Voglio studiare, voglio cambiare la mia vita. Perchè non si vive bene in Somalia. Conflitti, mancanza di lavoro, mancanza di rispetto per le donne” ha detto.

Mustafa mi ha detto di essersene andato perché “non c’è futuro. Sempre combattimenti. La gente muore.” Due giorni dopo la nostra conversazione un’autobomba a Mogadiscio ha fatto almeno 358 morti.

Ho passato molto tempo nel rifugio per donne, un posto sicuro, con i muri tappezzati di disegni colorati, con la stanza per le consultazioni private dell’ostetrica, sul retro.Con 106 tra donne e ragazze a bordo, era incredibilmente sovraffolato, a tratti chiassoso, ogni centimetro quadrato occupato da donne che dormono, allattano e chiaccherano, e i bambini che ridacchiano. Uno spazio piacevole, che in quanto talepoco si presta a conversazioni dolorose sulle minacce specifiche a cui le donne vanno incontro nel corso di questi viaggi.

 


 

Donne e bambini seduti nel “camerino,” uno spazio al coperto che conduce al “rifugio per donne”. 13 ottobre 2017.

 

Hanan, una donna siriana, siede nel “rifugio per donne” a bordo dell’Aquarius mentre sua figlia gioca con i figli di altre famiglie siriane. 13 ottobre 2017.



 




L’ostetrica di MSF esamina Salimata, una bimba di appena una settimana della Costa d’Avorio, tratta in salvo insieme a sua madre da un gommone sovraccarico in acque internazionali al largo della Libia. 10 ottobre 2017.

 

Alcuni giorni prima di essermi imbarcata sull’Aquarius, ho parlato con Raissa (nome di fantasia), una ventitreenne ivoriana che recentemente era stata salvata in mare e portata in Italia. Piangeva mentre mi raccontava che i trafficanti che l’avevano tenuta prigioniera per un mese a Bani Walid stupravano a ripetizione lei e le altre donne che si trovavano lì. Non erano in grado di raccogliere le somme richieste dai trafficanti. Hanno picchiato a morte suo marito di fronte a lei, poi le hanno versato olio sul braccio dandogli fuoco. Fu poi portata a Tripoli e consegnata ad un altro gruppo che l’ha stuprata in massa.

Nessuna delle donne sull’Aquarius mi ha detto di essere stata stuprata in Libia. Tutte però dicevano di conoscerne altre che avevano subito violenza sessuale.

Bikou, 20 anni, ha raccontato di aver lasciato casa in Costa d’Avorio perchè suo zio insisteva che si sottoponesse all’infibulazione e sposasse un uomo di quarant’anni da lui scelto. “Ci sono così tante cose che voglio fare. Voglio essere indipendente” ha detto. Ha pagato per arrivare a Sabrata, ma lungo il percorso, a Sebha, una grande punto di snodo nella Libia meridionale, il suo trafficante la vendette a un altro gruppo. “Un libico provò a violentarmi. Gli dissi che avrebbe fatto meglio a uccidermi. Forse per questo mi ha venduta.”

Arrivò a Sabrata, dove fu tenuta prigioniera con centinaia di persone. “Quando la sera si spegnevano le luci, si sentivano dei mormorii, ‘Donne, nascondetevi. I… ragazzi stanno arrivando.’” Bikou ha affermato che la violenza a cui ha assistito ha avuto un effetto profondo. “Mi vergognavo della mia stessa pelle, sentivo di non valere niente.”

Fawzia ha detto di essere scampata alla sorte di tante donne detenute con lei in un magazzino dei trafficanti a in Bani Walid. “Se non fossi stata incinta, lo avrebbero fatto anche a me [violenza sessuale]. Sono fortunata. Così tante ragazze, sì, ma sai, hanno paura di parlare.” Ho chiesto se ci fossero altre nel gruppo disposte a parlare con me; tutte hanno preferito di no. Spesso la vergogna, la paura dello stigma o di ritorsioni, bloccano donne e ragazze dal denunciare violenze sessuali.

Spero che, nonostante prove del contrario, queste donne siano destinate a rifugi dove dei professionisti ben addestrati e sensibili le aiuteranno a lenire le ferite.

Un posto al sicuro

Il 13 ottobre l’Aquarius ha attraccato a Palermo. C’era un’aria di festa a bordo la notte prima, con gente che cantava e chiaccherava animatamente sul ponte. Intorno alle 6 del mattino erano quasi tutti svegli, con lo sguardo rivolto verso la costa siciliana che andava definendosi in lontananza.

Mentre la nave attraccava, le persone a bordo e molte altre sul molo affollato applaudivano. Per lo sbarco ci sono volute ore, con tutte le persone tratte in salvo suddivise in gruppi. I volontari hanno distribuito vestiti e cibo, il personale della Croce Rossa ha condotto controlli medici, ufficiali delle Nazioni Unite, per la protezione dei rifugiati, davano informazioni sulla domanda d’asilo, mentre lo staff di Save The Children si occupava dei minori non accompagnati. E per finire, una registrazione preliminare con la polizia prima di salire sugli autobus diretti ai centri di accoglienza, e la procedura di registrazione completa.

People with medical conditions, including this man in a stretcher carried by Italian Red Cross workers, were the first to disembark the Aquarius in Palermo, Italy. October 13, 2017.
Lorum ipsum dolor.
Lorum ipsum dolor; Children smile as they disembark the Aquarius in Palermo. October 13, 2017.

DA SINISTRA IN SENSO ORARIO: Le persone con problemi di salute, tra le quali quest’uomo portato in barella da lavoratori della Croce Rossa Italiana, sono state fatte scendere per prime dall’Aquarius a Palermo. 13 ottobre 2017; Una donna somala fa un segno di “OK” mentre sbarca a Palermo. 13 ottobre 2017; Dei bambini sorridono mentre scendono dall’Aquarius a Palermo. 13 ottobre 2017.

Per quanto siano ormai al sicuro, hanno ancora una lunga strada davanti. Coloro che fanno domanda d’asilo in Italia non hanno alcuna garanzia di ricevere il sostegno legale, psicologico e integrativo cui hanno diritto, e probabilmente il diritto di rimanere verrà concesso a meno della metà (compresi coloro a cui viene concesso per ragioni umanitarie alla luce di ciò che hanno subito in Libia). Altri saranno obbligati ad andarsene, ma il più delle volte rimangono e si aggiungono ai migranti indocumentati ed esposti allo sfruttamento, in Italia o altrove in Europa.

Alla ricerca di soluzioni

È facile lasciarsi trasportare dall’intensa gioia di coloro che vengono salvati, e commuoversi di fronte alle loro sofferenze nei Paesi di provenienza e lungo il tragitto. È più complesso trovare soluzioni che prendano in considerazione questioni di politica interna, il sentimento di ostilità verso gli immigrati in Europa e la logica delle relazioni internazionali. Credo che la premessa dei diritti umani - il rispetto della dignità di ogni persona - possa indicare la giusta strada da percorrere.

È necessario che salvare vite umane in mare, e assicurarsi che le persone vengano portate al sicuro, sia la priorità. Le Ong che compiono un lavoro vitale dovrebbero essere sostenute, non limitate. Ho visto in prima persona come gli Italiani continuano a prestare soccorso con professionalità e a portare persone al sicuro. Ma l’Italia non può continuare a fare questo da sola. Il resto d’Europa deve fare la sua parte.

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Judith Sunderland

Direttrice associata, Divisione per l’Europa e l’Asia Centrale, Human Rights Watch

Le squadre di soccorso e umanitarie dell’Aquarius commemorano la tragedia di Lampedusa del 2013 in cui almeno 368 persone morirono quando la lora barca prese fuoco andando in pezzi nelle acque dell’isola italiana nel Mediterraneo centrale. 3 ottobre 2017.


Non è questo il momento di affidare alle forze della Libia ulteriori responsabilità di ricerca e soccorso: il rischio di abusi, in mare e a terra, è troppo elevato. L’Europa dovrebbe assumere maggiori responsabilità nel salvare vite nel Mediterraneo. L’addestramento di forze della Guardia costiera della Libia è uno sforzo a lungo termine che dovrebbe essere monitorato con attenzione per far sì che abbia un impatto misurabile e positivo, e non semplicemente come un pretesto per rinviare migranti verso maltrattamenti pressoché certi.

Aiutare le persone a raggiungere l’Europa in sicurezza deve essere una parte più ampia della risposta. Hanan, una rifugiata siriana che ho incontrato sull’Aquarius, ha cercato invano dei percorsi legali prima di salire a bordo di un’imbarcazione di legno con suo marito, la figlia di sei anni, e altri otto parenti. Ha detto, "Abbiamo provato a ottenere un visto per la Germania perché tutti noi abbiamo parenti stretti che vivono lì. Ma ce lo hanno rifiutato. Abbiamo persino provato ad andare a vivere in Turchia. Ma anche lì ci hanno respinto. La mia famiglia ha provato a ottenere dei visti per Tunisi, a lasciare la Libia e a vivere in un altro Paese arabo… ma anche in questo caso, respinti. Abbiamo provato ad andare in Sudan. Ma anche lì ci hanno rifiutato… non abbiamo trovato un altro Paese dove andare, e non possiamo tornare in Siria."

Al suo primo tentativo, nel 2014, Hanan ha visto affogare suo fratello e sua nipote. Da allora Hanan e la sua famiglia hanno vissuto a Zuara, ma hanno deciso di rischiare di nuovo il viaggio dopo che il nipote sedicenne è stato aggredito con sette coltellate.

Respingere queste persone verso violenze e abusi in Libia è inaccettabile. I leader europei dovrebbero dimostrare che i soldi spesi in Libia di fatto migliorano la vita dei migranti che si trovano lì. La priorità dovrebbe essere quella di liberare queste persone da detenzione e violenze, aiutare i più bisognosi ad essere risistemati in Paesi che li possano proteggere, e assistere altri affinché tornino a casa in modo sicuro e umano.

Possiamo fare di più per aiutare le persone ad evitare questi viaggi pericolosi. Non possiamo risolvere velocemente guerra, persecuzioni, privazioni e abusi che spingono le persone via dai loro Paesi, ma possiamo almeno creare opzioni sicure e legali per le persone in movimento.

Ascolta il diario di bordo di Judith Sunderland per il tempo trascorso sull’Aquarius (in inglese)

sound-icon-small A bordo
4' 05"

sound-icon-small Prigionieri in Libia
4' 00"

sound-icon-small Soccorsi
7' 03"

sound-icon-small Verso l’Italia
8' 40"