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Egitto: il ricorso sitematico alla tortura potrebbe costituire un crimine contro l’umanità

Dissidenti regolrmanete sottoposti a pestaggi, scosse elettriche e posizioni stressanti

Membri delle forze di sicurezza vigilano Piazza Tahrir durante il quinto anniversario della rivolta che pose fine ai 30 anni di governo di Hosni Mubarak, in Cairo, Egitto, 25 gennaio 2016.  © 2016 Mohamed Abd El Ghany/Reuters
 

(Beirut) – Sotto il comando del presidente Abdel Fattah al-Sisi, le forze di polizia regolare e i funzionari della Sicurezza nazionale dell’Egitto sottopongono regolarmente a tortura i detenuti politici, facendo ricorso a varie tecniche come pestaggi, scosse elettriche, posizioni stressanti, e talvolta stupro. Lo riferisce Human Rights Watch in un rapporto uscito oggi.

Secondo il rapporto di 63 pagine “‘We Do Unreasonable Things Here’: Torture and National Security in al-Sisi’s Egypt,” il ricorso diffuso e sistematico alla tortura da parte delle forze di sicurezza costituisce probabilmente un crimine contro l’umanità. La pubblica accusa, di solito, ignora le rimostranze dei detenuti riguardanti maltrattamenti e talvolta minaccia di torturarli, creando un clima di impunità pressoché totale, ha dichiarato Human Rights Watch.

“Il presidente al-Sisi ha di fatto dato il via libera a polizia e funzionari della Sicurezza nazionale di ricorrere alla tortura in qualunque momento essi vogliano” ha detto Joe Stork, vice-direttore per il Medio Oriente a Human Rights Watch. “L’impunità per l’uso sistematico di tortura ha lasciato i cittadini senza alcuna speranza di poter ottenere giustizia.”

Il rapporto documenta come le forze di sicurezza, in particolare i funzionari dell’Agenzia di Sicurezza nazionale, che fa capo al ministero dell’interno, facciano ricorso a tortura per forzare i sospetti a confessare o condividere informazioni, oppure per punirli. Accuse di tortura sono state comuni fin da quando al-Sisi, allora ministro della difesa, rovesciò l’ex presidente Mohamed Morsy nel 2013, dando il via a violazioni dei diritti di base su larga scala. La tortura è a lungo stata un male endemico all’interno delle forze dell’ordine egiziane, e proprio i dilaganti abusi da parte delle forze di sicurezza contribuirono ad accendere, a livello nazionale, le rivolte che portarono nel 2011 alla deposizione di Hosni Mubarak, leader di lungo corso, dopo quasi trent’anni.

Human Rights Watch ha intervistato 19 ex-detenuti e la famiglia di un ventesimo detenuto, torturati tra il 2014 e il 2016, oltre ad avvocati egiziani di difesa e per i diritti umani. Human Rights Watch ha anche studiato decine di rapporti sulla tortura realizzati da gruppi egiziani per i diritti umani e da organi d’informazione. Le tecniche di tortura documentate da Human Rights Watch sono state praticate in stazioni di polizia e uffici della Sicurezza nazionale in tutto il Paese, con l’uso di metodi praticamente identici, per molti anni.  

Secondo il diritto internazionale, la tortura è un crimine soggetto a giurisdizione universale, che può essere perseguito in qualunque Paese. Gli Stati hanno l’obbligo di arrestare e indagare su chiunque si trovi all’interno del loro territorio e nei confronti del quale vi sia un sospetto credibile di coinvolgimento in atti di tortura, e di perseguirli o estradarli per portarli di fronte alla giustizia.  

A partire dal colpo di stato militare del 2013, le autorità egiziane hanno arrestato o accusato probabilmente non meno di 60mila persone, hanno fatto sparire con la forza centinaia di persone   per mesi, hanno pronunciato condanne a morte preliminari per centinaia di persone, processato migliaia di civili in tribunali militari, e creato almeno 19 nuove prigioni o carceri per contenere questo flusso. L’obiettivo primario di questa repressione sono stati i Fratelli Musulmani, il movimento d’opposizione più ampio del Paese. 

Human Rights Watch ha riscontrato che il ministero dell’interno ha sviluppato una serie di gravi abusi per la raccolta di informazioni su sospetti dissidenti e per la raccolta di prove, spesso inventate, ai loro danni. La serie ha inizio con l’arresto arbitrario, prosegue con torture e interrogatori durante il periodo di sparizione forzata, e si conclude con la presentazione dei sospetti di fronte alla pubblica accusa, che fa spesso pressione su di loro affinché confermino le confessioni rese, e non indaga quasi mai sugli abusi.

Gli ex-detenuti hanno detto che le sessioni di tortura cominciano con i funzionari di sicurezza che danno scosse elettriche a un sospetto bendato, spogliato e ammanettato, mentre viene schiaffeggiato, preso a pugni e picchiato con bastoni e spranghe di ferro.

Se il sospetto non riesce a dare ai funzionari le risposte che vogliono sentire, questi aumentano la potenza e la durata delle scosse elettriche, che sono quasi sempre sui genitali del sospetto. 

I funzionari, in seguito, utilizzano due tipi di posizioni stressanti per infliggere un dolore lancinante ai sospetti, hanno raccontato i detenuti. In un caso, sospendono i sospetti dall’alto con le braccia alzate e all’indietro, una posizione innaturale che causa un dolore straziante alla schiena e alle spalle, e a volte provoca la lussazione delle spalle. Nella seconda posizione, chiamata “pollo” o “griglia,” i funzionari mettono le ginocchia e le braccia del sospetto su lati opposti di un’asta così che questa stia tra le pieghe dei gomiti e il retro delle ginocchia, e legano le mani sopra gli stinchi. Quando i funzionari sollevano l’asta, sospendendo il sospetto per aria, come un pollo allo spiedo, questi soffre di un dolore atroce a spalle, ginocchia e braccia.  

I funzionari di sicurezza tengono i detenuti in queste posizioni stressanti per ore intere, mentre continuano a picchiarli, dare scariche elettriche ed interrogarli.

“Khaled,” un commercialista di 29 anni, ha raccontato a Human Rights Watch di essere stato arrestato ad Alessandria nel gennaio del 2015 da funzionari della Sicurezza nazionale e di essere stato portato nel quartier generale del ministero dell’interno in città. I funzionari gli intimarono di ammettere di aver partecipato ad attentati incendiari contro auto della polizia l’anno precedente. Quando Khaled negò di avere alcunché a che fare con gli attentati, un funzionario gli strappò i vestiti di dosso e cominciò a dargli scariche con fili elettrificati. La tortura e gli interrogatori, che prevedevano l’uso di potenti scariche elettriche e posizioni stressanti, continuarono per quasi sei giorni, durante i quali a Khaled non fu permesso alcun contatto con parenti o avvocati. I funzionari lo obbligarono a leggere una confessione preparata, di fronte a una telecamera, in cui affermava di aver dato fuoco ad auto della polizia rispondendo ai comandi dei Fratelli Musulmani.

Dopo dieci giorni, un gruppo di procuratori interrogò Khaled e altri detenuti. Quando Khaled disse a un magistrato di essere stato torturato, il magistrato rispose che non erano affari suoi e gli ordinò di confermare la confessione filmata, altrimenti lo avrebbe rimandato a farsi torturare.

“Sei alla lore mercè, ‘Farai qualunque cosa ti diremo di fare.’ Mi diedero scariche alla testa, ai testicoli, sotto le ascelle. Riscaldavano acqua per buttartela addosso. Ogni volta che perdevo conoscenza, me la tiravano addosso” ha ricordato Khaled.

La storia di tortura dell’Egitto affonda le sue radici a oltre trent’anni fa, e Human Rights Watch registrò per la prima volta l’uso delle pratiche documentate già in un rapporto del 1992. L’Egitto è anche l’unico Paese ad essere oggetto di due inchieste pubbliche del Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite, che scrisse nel giugno del 2017 che le prove raccolte dal Comitato “portano alla conclusione ineluttabile che la tortura sia una pratica sistematica in Egitto.”

Da quando l’esercito ha deposto l’ex-presidente Morsy nel 2013, le autorità hanno ricostituito ed allargato gli strumenti repressivi che definirono il regime di Mubarak. La regolarità della tortura, e l’impunità per la sua pratica fin dal 2013, ha creato un clima in cui coloro che vengono abusati non vedono alcuna possibilità di rivalersi sui responsabili e spesso non si prendono neanche la briga di denunciarli alla giustizia.  

Tra luglio 2013 e dicembre 2016, i pubblici ministeri hanno ufficialmente indagato su almeno 40 casi di tortura, una piccola parte delle centinaia di accuse fatte; tuttavia, Human Rights Watch ha trovato solo sei casi in cui l’accusa ha ottenuto sentenze contro i funzionari del ministero dell’interno. Contro tutte queste sentenze è stato fatto appello, e solo una di esse interessa l’Agenzia di Sicurezza nazionale.

Al-Sisi dovrebbe ordinare al ministero della giustizia di nominare un procuratore speciale indipendente con facoltà di ispezionare i siti di detenzione, di indagare e perseguire gli abusi commessi dai servizi di sicurezza, e di pubblicare un resoconto delle misure prese, ha dichiarato Human Rights Watch. In mancanza di uno sforzo serio da parte dell’amministrazione di Sisi di affrontare l’uso diffuso di tortura, gli stati membri dell’Onu dovrebbero indagare e perseguire i funzionari egiziani accusati di commettere, ordinare o assistere in atti di tortura.

“In passato, l’impunità per atti di tortura ha arrecato un grave danno a centinaia di egiziani, gettando le basi per la rivolta del 2011,” ha detto Stork. “Lasciare che i servizi di sicurezza commettano questi crimini efferati in tutto il Paese porterà ad un altro ciclo di disordini.”
 

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