Verità e giustizia non possono aspettare

Sviluppi in tema di diritti umani in Libia e ostacoli istituzionali

 

Verità e giustizia non possono aspettare

Sviluppi in tema di diritti umani in Libia e ostacoli istituzionali

I. Sintesi
II. Raccomandazioni
III. Metodologia
IV. Contesto
Reintegro internazionale
Iniziative di riforma
V. Libertà di espressione
Procedimenti a carico di giornalisti
Obblighi internazionali della Libia e legislazione libica
VI. Libertà di riunione e di associazione
Libertà di riunione
Nessuna organizzazione non governativa indipendente
Criminalizzazione della libertà di associazione
Tentativo del 2008 di istituire una organizzazione per i diritti umani
Obblighi internazionali della Libia
VII. Violazioni da parte dell’Agenzia per la sicurezza interna
Detenzione arbitraria
Mahmoud Boushima
Abdellatif Al-Raqoubi
Prigionieri politici
Abdelnasser al-Rabbasi
Mahmud Matar
Fathi al-Jahmi
Sparizione
Jaballa Hamed Matar e Izzat al-Megaryef
Mansur al-Kikhya
Imam Sayyed Musa Sadr
Decesso in custodia
Ismail Ibrahim Al Khazmi
VIII. Violazioni gravi e impunità
Le uccisioni di Abu Salim del 1996
Dal diniego ufficiale ad una sommessa ammissione
Offerte di risarcimento ma non di verità
Attivismo senza precedenti – le richieste delle famiglie
Obblighi della Libia ai sensi del diritto internazionale
IX. Il Tribunale per la Sicurezza di Stato – un nuovo Tribunale del popolo?
Abdelhakim Al-Khoweildy
Mohamed al-Shoro’eyya
Il caso di Idris Boufayed, Jamal el Haji ed altri 12
Il caso di Shukri Sahil
X. La pena di morte
Ringraziamenti
Allegati: lettere alle autorità

Traduzione dall’inglese a cura di Anna Ongaro

I. Sintesi

“Ho bisogno di parlarne, sento che devo far sentire la mia voce, non soltanto la mia, ma quella di tutte le famiglie degli scomparsi. Per la mia famiglia, ogni anniversario, ogni festività diventa un funerale, perché loro non sono più con noi”.
—Mohamed Hamil Ferjany a Human Rights Watch, USA, agosto 2009.
“Nel 2005 non avrei potuto parlarvi così come riesco a fare oggi”.
—Un avvocato libico intervistato da Human Rights Watch, Tripoli, aprile 2009.

Nell’ultimo decennio la Libia ha trasformato in maniera del tutto clamorosa il suo status internazionale di Stato paria, soggetto a sanzioni da parte delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e degli USA in un Paese che, solo nel 2009, ha rivestito la presidenza del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la presidenza dell’Unione Africana e dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Ma questa trasformazione della politica estera della Libia non è stata accompagnata da una parallela trasformazione della situazione dei diritti umani nel Paese, che continua a essere precaria, malgrado alcuni limitati progressi fatti registrare negli ultimi anni.

Questo rapporto prende in esame i recenti sviluppi sui diritti umani in Libia, individua aree cruciali motivo di preoccupazione e sottolinea le iniziative che il governo libico deve intraprendere per soddisfare i propri obblighi ai sensi delle norme internazionali sui diritti umani. Il reintegro della Libia nella comunità internazionale significa che la sua situazione in materia di diritti umani è divenuta e sarà sempre più oggetto di crescente attenzione mentre il controllo assoluto che il governo libico ha da sempre esercitato sul flusso di informazioni al di fuori della Libia va continuamente assottigliandosi. Human Rights Watch ritiene che questo fatto rappresenti una valida opportunità di riforma in tema di diritti umani che le autorità libiche dovrebbero perseguire e che altri governi dovrebbero promuovere nelle loro relazioni con la Libia.

Questo rapporto costituisce un aggiornamento del precedente pubblicato sulla Libia nel 2006 da Human Rights Watch, Dalle parole ai fatti, e si concentra su aree che hanno fatto registrare alcuni limitati progressi, come la libertà di espressione, e su altre che continuano a essere soggette a forti restrizioni, come la libertà di associazione. Il rapporto affronta inoltre il ruolo attraverso cui l’Agenzia per la sicurezza interna continua a rendersi responsabile di sistematiche violazioni dei diritti dei cittadini libici, come la detenzione di prigionieri politici, le sparizioni forzate e i decessi in custodia. Il presente rapporto non prende in esame il trattamento di migranti, richiedenti asilo e rifugiati in Libia, ampiamente trattato nel recente rapporto di Human Rights Watch del 2009 Scacciati e schiacciati –  l’Italia e il respingimento di migranti e richiedenti asilo, la Libia e il maltrattamento di migranti e richiedenti asilo.

In linea generale, gli ultimi cinque anni sono stati testimoni di un miglioramento della situazione dei diritti umani benché in maniera molto inferiore di quanto promesso o richiesto. Si è avuto un numero inferiore di segnalazioni di arresti arbitrari e sparizioni forzate rispetto agli ultimi due decenni. Isolate iniziative verso una maggiore tolleranza del dissenso indicano quanto meno che alcuni esponenti del governo riconoscono la necessità di introdurre riforme. Due nuovi quotidiani privati e Internet hanno creato qualche nuovo, seppur limitato, spazio per la libertà di espressione e sono state autorizzate inedite manifestazioni pubbliche. Il ministero della Giustizia ha annunciato progetti di riforma delle disposizioni più repressive del codice penale. Il sistema giudiziario ha talvolta pronunciato decisioni indipendenti, ordinando al governo di provvedere a risarcire le persone che avevano visti violati i loro diritti e, in taluni casi, il governo vi si è conformato.

Tuttavia, malgrado gli sforzi per elaborare un nuovo codice penale, un quadro legislativo essenzialmente repressivo rimane, così come persiste la capacità delle forze di sicurezza governative di agire impunemente nei confronti del dissenso. Molti processi, specialmente quelli celebrati davanti al Tribunale per la sicurezza di Stato, continuano a non soddisfare gli standard internazionali di equità processuale. In generale, ingiustificate restrizioni alle libertà di espressione e di associazione sono rimaste la norma, comprese le disposizioni del codice penale che ascrivono a reato “l’oltraggio a pubblico ufficiale” o “l’opposizione all’ideologia della Rivoluzione”. Molti parenti di prigionieri uccisi in un episodio occorso nel 1996 nel carcere di Abu Salim aspettano tuttora di sapere come sono morti i loro congiunti e di veder puniti i responsabili. La giurisdizione dei tribunali, i doveri delle agenzie governative, il rispetto dei diritti legali dei prigionieri e l’adesione al proclamato elenco dei diritti umani del Paese restano, per lo più, episodi a carattere oscuro, frammentario e contraddittorio.

Questo rapporto si basa sulle ricerche condotte da Human Rights Watch durante una visita di dieci giorni condotta in Libia nell’aprile 2009, la missione più recente dell’organizzazione nel Paese, così come su ricerche generali e sul monitoraggio della situazione dei diritti in Libia dall’esterno del Paese. Human Rights Watch ha incontrato il Segretario alla pubblica sicurezza e il Segretario alla giustizia e ha visitato il carcere di Abu Salim, dove ha intervistato sei prigionieri. Human Rights Watch ha avuto inoltre incontri con membri dell’Ordine degli avvocati di Tripoli e con il Sindacato dei giornalisti, con i parenti dei reclusi e con un ex prigioniero politico.

La libertà di espressione continua ad essere fortemente limitata dal codice penale libico. Tuttavia, gli ultimi cinque anni sono stati testimoni della graduale apertura di un nuovo, benché fragile, spazio per la libertà di espressione. Le crepe nel muro costruito dal governo contro la libertà di espressione sono sottili ma evidenti. Oea e Quryna, due quotidiani privati fondati nell’agosto 2007, consentono ai propri giornalisti di scrivere in maniera più critica riguardo al governo di quanto non fosse in precedenza tollerato nel campo della stampa, benché tali critiche si mantengano in linea con l’agenda politica di Saif al-Islam al-Gheddafi, figlio di Mu’ammar al-Gheddafi. I corrispondenti libici dei siti web con base all’estero che di frequente pubblicano critiche nei confronti del governo, oltre che notizie di violazioni dei diritti umani, sono autorizzati ad operare in Libia e sono persino riusciti ad ottenere accrediti giornalistici. Questa graduale apertura di spazio ha portato con sé un aumento del numero di procedimenti giudiziari a carico di giornalisti, sebbene nessun giornalista sia stato finora condannato al carcere.

In Libia non esiste alcuna libertà di associazione giacché il concetto di società civile indipendente si scontra direttamente con la teoria di Gheddafi di governance da parte delle masse. La legge 71 continua a criminalizzare i partiti politici, e il codice penale ascrive a reato l’istituzione di organizzazioni che siano “contrarie ai principi del sistema della Giamahiria libica”. La legge 19, “Sulle associazioni”, richiede che tutte le organizzazioni non governative ottengano l’approvazione da parte di un organo politico, non consente ricorsi contro pareri negativi e prevede la continua interferenza governativa nella gestione dell’organizzazione. Il governo si è rifiutato di autorizzare organizzazioni indipendenti di giornalisti ed avvocati. La stessa legge consente al governo di revocare l’autorizzazione ad una associazione in qualsiasi momento e senza la necessità di fornire una giustificazione. Esistono alcune organizzazioni semi-ufficiali che svolgono attività di beneficenza, fornendo servizi e organizzando seminari, ma nessuna che assuma pubblicamente posizioni critiche nei confronti del governo.

In Libia non esistono organizzazioni non governative indipendenti. Le uniche organizzazioni che possono svolgere attività in favore dei diritti umani, tematica della massima delicatezza in Libia, traggono la loro forza politica dalla personale affiliazione con il regime. La principale organizzazione che può criticare pubblicamente le violazioni dei diritti umani è la Fondazione internazionale per la beneficenza e lo sviluppo Gheddafi (Fondazione Gheddafi), presieduta da Saif al-Islam al-Gheddafi. La seconda organizzazione, Waatasemu, è gestita dalla dottoressa Aisha al-Gheddafi, figlia di Mu’ammar al-Gheddafi, ed è intervenuta in casi capitali e in questioni riguardanti i diritti delle donne. L’International Organization for Peace, Care and Relief (IOPCR), presieduta da Khaled Hamedi, figlio di un membro del Consiglio del Comando rivoluzionario, è l’unica organizzazione in grado di accedere ai centri di detenzione per migranti.

Tentare di fondare un’organizzazione per i diritti umani si configura come una rischiosa avventura soggetta a potenziali vessazioni da parte delle agenzie libiche per la sicurezza oltre che a procedimenti giudiziari penali. Nel 2008, per citare un esempio, un gruppo di avvocati e giornalisti cercò di costituire due organizzazioni impegnate in tematiche inerenti i diritti umani e la democrazia. Inizialmente, le autorità approvarono la richiesta avanzata dal gruppo, ma l’Agenzia per la sicurezza interna, la sezione del Comitato generale del popolo (ministero) per la pubblica sicurezza, incaricato di controllare l’attività politica nazionale, ha successivamente bloccato l’iter. Il gruppo ha alla fine abbandonato l’iniziativa in seguito al rapimento e aggressione per un’intera giornata di uno degli avvocati (il quale era tra i membri fondatori di entrambe le organizzazioni). Il governo ha dichiarato che sul rapimento è in corso un’indagine.

L’Agenzia per la sicurezza interna mantiene il pieno controllo su due carceri in Libia: Abu Salim e Ain Zara, tristemente note per la detenzione arbitraria di prigionieri politici. Secondo il ministero della Giustizia, a tutt’oggi sono all’incirca 500 i prigionieri che, benché abbiano scontato la loro pena o siano stati prosciolti da un tribunale libico, continuano ad essere reclusi per ordine dell’Agenzia per la sicurezza interna. Quest’ultima si è rifiutata di dare attuazione alle decisioni della magistratura libica di rimettere in libertà i detenuti, malgrado le sollecitazioni avanzate dal Segretario libico alla giustizia a favore del loro rilascio. Alcuni prigionieri rimangono scomparsi, compresi esponenti di alto profilo dell’opposizione libica, le cui ultime notizie sono fatte risalire al carcere di Abu Salim. Inoltre, l’Agenzia per la sicurezza interna continua a detenere soggetti condannati dal Tribunale del popolo, purtroppo noto per aver processato persone per reati politici senza accesso a un collegio di difesa, e già abolito nel 2005. La mancanza di equità nei procedimenti a carico di questi detenuti fa sì che essi debbano essere rilasciati e processati nuovamente davanti a un tribunale ordinario.

Alla fine del giugno 1996 circa 1.200 prigionieri furono uccisi nel carcere di Abu Salim di Tripoli. Per anni le autorità hanno negato il fatto. Fino verso la fine del 2008, la stragrande maggioranza delle famiglie dei prigionieri che furono uccisi non avevano ricevuto alcuna informazione riguardo ai loro congiunti. Alcune delle famiglie di detenuti uccisi nella prigione citarono in giudizio il governo, nel tentativo di riuscire a sapere che cosa era successo ai loro familiari.

Nel giugno 2008, il tribunale di Bengasi Nord ordinò al Comitato generale del popolo (il gabinetto), al Comitato generale del popolo (ministero) della giustizia e al Comitato generale del popolo (ministero) per la pubblica sicurezza di informare i parenti di coloro che erano morti. Nel 2004 le autorità libiche riferirono a Human Rights Watch che sui fatti era in corso un’inchiesta; tuttavia, nell’aprile 2009 il Segretario alla giustizia ha confermato a Human Rights Watch che non era stata condotta alcun tipo di inchiesta. Nel settembre 2009, il Comitato generale del popolo per la difesa istituì un collegio di inchiesta formato da sette giudici inquirenti e presieduto da un ex giudice militare allo scopo di indagare sulle uccisioni di Abu Salim, 13 anni dopo che queste erano avvenute.

In seguito alla decisione del tribunale di Bengasi Nord, a partire dal dicembre 2008 le autorità libiche iniziarono a notificare certificati di morte alle famiglie, senza ammettere che si riferivano alle uccisioni di Abu Salim. Tali documenti erano privi di indicazioni come data precisa, luogo o causa del decesso. Le autorità hanno offerto un indennizzo pari a 200.000 dinari libici (162.300 dollari USA) in cambio di rassicurazioni che i familiari non avrebbero intrapreso altre cause legali presso le corti libiche o internazionali. Invocando verità, attribuzione di responsabilità e risarcimenti adeguati, diverse centinaia di famiglie si sono unite a formare un comitato per chiedere che sia fatta luce sui fatti che occorsero nel giorno in cui avvennero le uccisioni nonché il perseguimento dei responsabili. E la maggior parte delle famiglie di Bengasi si sono rifiutate di accettare i risarcimenti accordati su questi termini, insistendo sul fatto di voler conoscere la verità su ciò che accadde e vedere perseguiti i responsabili. Mohamed Hamil Ferjany, portavoce delle famiglie ora trasferitosi negli Stati Uniti, ha raccontato a Human Rights Watch che per lui “il denaro è irrilevante. La mia famiglia ha patito anni di sofferenze, senza sapere dove fossero i miei fratelli, soltanto per vedersi recapitare un documento 15 anni dopo che dice che sono morti e nient’altro. Vogliamo giustizia”.

Negli ultimi mesi, alcune delle famiglie che insistevano sull’accertamento delle responsabilità da parte del governo hanno manifestato soprattutto a Bengasi, ma anche ad Al Bayda e Derna. Il governo ha, per massima parte, consentito alle famiglie di manifestare, e la stampa libica ha dato notizia delle loro attività e richieste. Tuttavia, le famiglie sono anche andate incontro a vessazioni da parte delle forze di sicurezza e, in alcuni casi, anche all’arresto.

L’abolizione del 2005 del Tribunale del popolo fu accolta dalle organizzazioni per i diritti umani come un passo positivo sul cammino delle riforme. Tuttavia, nell’agosto 2007 fu istituito un nuovo Tribunale per la sicurezza di Stato con pressoché le medesime caratteristiche del Tribunale del popolo, il quale aveva spesso emesso sentenze al termine di processi iniqui. Human Rights Watch ha contattato diversi imputati processati davanti a questo tribunale che non erano stati in grado di incontrare il proprio difensore legale prima dell’udienza davanti alla corte. Inoltre, le decisioni del tribunale non sono rese disponibili al pubblico e neppure alle famiglie dei condannati. Non è chiaro se esista una corte in grado di rivedere le decisioni emesse dal Tribunale per la sicurezza di Stato, né se sia garantito il diritto di appello a quanti sono passati in giudicato.

Malgrado le dichiarazioni da parte di alti funzionari, compreso il leader libico Mu’ammar al-Gheddafi, secondo le quali il Paese è impegnato per l’abolizione della pena di morte e che questa raramente viene applicata, la Libia continua a condannare a morte persone e ad eseguirne le sentenze. Un sistema basato sulla legge e le consuetudini islamiche prevede la grazia soltanto quando la famiglia della vittima di un omicidio acconsente di concederla in cambio di un risarcimento economico, anche detto “blood money”.

Le iniziative intraprese dalla Libia per affrontare alcune delle problematiche in tema di diritti umani non vanno sufficientemente oltre nell’affrontare un quadro legale che sistematicamente priva i cittadini libici dei loro diritti umani fondamentali. La Libia deve assicurare la propria ottemperanza a tutti gli obblighi assunti in tema di norme internazionale sui diritti umani e dovrebbe dare immediata attuazione ad una serie di riforme in ambito politico, legislativo e procedurale. Il Congresso generale del popolo (l’assemblea legislativa) dovrebbe abrogare tutte le disposizioni del codice penale ed altre leggi, come la legge 71, che violano la libertà di espressione e di associazione, ed assicurare che i nuovi disegni legislativi siano in linea con gli standard internazionali sui diritti umani. L’Agenzia per la sicurezza interna dovrebbe rilasciare immediatamente tutti i prigionieri detenuti per aver pacificamente esercitato il loro diritto alla libera espressione o associazione e risarcirli per la loro detenzione. In aggiunta a ciò, gli agenti della Sicurezza interna dovrebbero provvedere all’immediato rilascio dei circa 200 prigionieri che continuano a detenere nella prigione di Abu Salim, malgrado il fatto che i tribunali libici ne abbiano sentenziato il proscioglimento disponendone il rilascio, o che abbiano già scontato la propria pena.

Human Rights Watch inoltre esorta i Comitati generali del popolo ad informare immediatamente le famiglie dei prigionieri morti nel massacro occorso nel carcere di Abu Salim nel 1996, in merito alle circostanze della morte dei loro congiunti consegnandone i resti per la sepoltura. Le autorità devono condurre un’inchiesta completa ed efficace rendendone noti i risultati. A ciò dovrebbe far immediatamente seguito il procedimento giudiziario nei confronti dei responsabili dell’esecuzione sommaria dei suddetti prigionieri. Ai sensi delle norme sui diritti umani, il governo libico ha l’obbligo di provvedere ad un rimedio legale e non deve esercitare pressioni sulle famiglie affinché accettino risarcimenti invece di perseguire l’accertamento delle responsabilità. Le famiglie dei prigionieri che furono uccisi ad Abu Salim hanno il diritto di manifestare pacificamente e di avanzare richieste alle autorità libiche senza intimidazioni e vessazioni da parte delle forze di sicurezza. In aggiunta a ciò, nel contesto della crescente integrazione politica ed economica nella comunità internazionale, Human Rights Watch sollecita tutte le organizzazioni e i governi che intrattengono relazioni con la Libia ad assicurare che la promozione dei diritti umani nel Paese sia parte integrante dei loro accordi.

II. Raccomandazioni

Al governo libico:

Human Rights Watch esorta le autorità libiche a dare attuazione alle riforme che esse hanno annunciato e ad assicurare che queste siano condotte in piena ottemperanza con le norme internazionali sui diritti umani. In particolare, Human Rights Watch chiede al governo libico di:

Con riferimento alla libertà di espressione:

  • Abrogare la legge 71 che vieta qualsiasi gruppo o attività basata su una ideologia politica che si oppone ai principi della Rivoluzione al-Fateh del 1969 quando Mu’ammar al-Gheddafi guidò un colpo di Stato militare rovesciando la monarchia libica;
  • Abrogare gli articoli del codice penale che criminalizzano la libertà di espressione, compresi gli artt.166, 178, 206, 207, ed assicurare che la bozza del nuovo codice penale sia riveduta al fine di essere in linea con le norme internazionali sui diritti umani;
  • Presentare una bozza riveduta del codice penale ai Congressi di base del popolo per essere discussa nel più breve tempo possibile;[1]
  • Rilasciare tutte le persone incarcerate o detenute unicamente per aver esercitato il loro diritto alla libertà di espressione;

Con riferimento alla libertà di associazione e di riunione:

  • Autorizzare l’istituzione di organizzazioni indipendenti che desiderino esercitare pacificamente la libertà di associazione;
  • Revocare la decisione di rifiutare la registrazione all’Associazione per la giustizia e al Centro per la democrazia, le organizzazioni che un gruppo di avvocati e giornalisti cercarono di fondare nel 2008;
  • Abrogare la legge 71 del 1972 e gli articoli relativi del codice penale che criminalizzano la libertà di associazione ed emendare la legge 19 al fine di permettere l’istituzione di organizzazioni non governative indipendenti;
  • Assicurare che i soggetti che cercano di fondare associazioni non subiscano vessazioni da parte delle forze di sicurezza o siano perseguiti per il conseguente esercizio della libertà di riunione;
  • Revocare la decisione n.312/2009 dei Comitati generali del popolo che pone ulteriori restrizioni alla libertà di riunione ed associazione attraverso requisiti sproporzionati e indebiti.

Con riferimento alle carceri sotto il controllo dell’Agenzia per la sicurezza interna:

  • Rilasciare immediatamente tutti i prigionieri prosciolti dai tribunali;
  • Rilasciare immediatamente tutti i prigionieri che hanno già scontato la propria sentenza;
  • Dare attuazione a tutte le decisioni legali emesse dalle corti libiche;
  • Consentire all’Ufficio del Procuratore generale di condurre indagini riguardanti la detenzione nelle carceri di Abu Salim e di Ain Zara;
  • Cassare tutte le sentenze a carico e rilasciare immediatamente tutti i prigionieri politici che sono incarcerati unicamente per la pacifica espressione delle proprie opinioni o per attività tutelate dalla libertà di associazione e di riunione;
  • Risarcire chiunque sia stato indebitamente detenuto;
  • Firmare e ratificare la Convenzione internazionale per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata;
  • Trasmettere un invito al Relatore Speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie;
  • Facilitare la visita del Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria ed autorizzarne il pieno accesso ai centri di detenzione, compresi quelli controllati dall’Agenzia per la sicurezza interna.

Con riferimento alle uccisioni nel carcere di Abu Salim del 1996:

  • Rendere pubblica la conclusione di qualsiasi indagine intrapresa sull’episodio di Abu Salim:
  • Assicurare che l’inchiesta sia condotta da un giudice indipendente e imparziale e che l’Agenzia per la sicurezza interna fornisca piena collaborazione alle indagini;
  • Identificare i responsabili delle uccisioni e procedere legalmente nei loro confronti in piena applicazione della legge e nel contesto di processi equi;
  • Dare attuazione alla decisione del Tribunale di Bengasi Nord di informare i familiari della sorte dei loro congiunti;
  • Ri-emettere certificati di morte di modo che siano completi di dati precisi come data, luogo e causa del decesso;
  • Cessare immediatamente di esercitare pressioni o minacce nei confronti delle famiglie ad accettare risarcimenti e, laddove richiesto, concedere a coloro che desiderino prendere in considerazione un risarcimento il tempo di riflettere;
  • Consentire alle famiglie delle vittime di Abu Salim di manifestare liberamente e di esprimere apertamente le proprie opinioni in merito alla questione senza intimidazioni o vessazioni da parte delle forze di sicurezza.

Con riferimento al Tribunale per la sicurezza di Stato:

  • Chiarire lo status del Tribunale per la sicurezza di Stato nel sistema legale libico.
  • Assicurare che ogni imputato possa disporre del diritto di appello e rendere chiaro quale sia il tribunale competente ad esaminare tale appello;
  • Assicurare che gli imputati abbiano il diritto a un avvocato di propria scelta e che dispongano di sufficiente accesso ai loro legali prima delle udienze di tribunale;
  • Assicurare che sia gli avvocati privati che quelli nominati d’ufficio abbiano parità e completezza di accesso ai fascicoli giudiziari;
  • Rendere pubbliche tutte le decisioni assunte dal Tribunale per la sicurezza di Stato, specialmente all’imputato e alla sua famiglia;

Con riferimento alla pena di morte:

  • Ordinare una moratoria immediata sulla pena capitale;
  • Commutare in pene detentive tutte le sentenze di morte;
  • Eliminare la pena di morte quale punizione prevista dal diritto interno libico;
  • Aderire al Secondo protocollo opzionale al Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR), che mira all’abolizione della pena di morte.

All’Unione Europea e ai suoi Stati membri:

  • Prima di finalizzare l’Accordo quadro con la Libia, assicurarsi che il governo libico si impegni a migliorare la situazione dei diritti umani nel Paese e a rispettare i diritti dei prigionieri, dei giornalisti e delle famiglie delle vittime di violazioni dei diritti umani.
  • In ottemperanza alle Linee guida dell’Unione Europea sui difensori dei diritti umani, impegnarsi presso il governo libico a promuovere i diritti dei difensori dei diritti umani.

Alle Nazioni Unite:

  • Il Relatore Speciale sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie dovrebbe richiedere di visitare la Libia;
  • Il Gruppo di lavoro sulle sparizioni forzate o involontarie dovrebbe richiedere di visitare la Libia;
  • I membri del Consiglio per i diritti umani dovrebbero trasmettere alla Libia le raccomandazioni espresse nel presente rapporto durante la prossima sessione della Revisione periodica universale.

III. Metodologia

Le informazioni riguardanti le violazioni dei diritti umani in Libia restano scarse a causa del persistente controllo esercitato dallo Stato sui media e del rischio elevato che il fornire informazioni a organizzazioni con base all’estero comporta. In Libia la stampa in generale e i corrispondenti esteri che vi operano raramente danno notizia di violazioni dei diritti umani. Avvocati, familiari e amici di persone che hanno visto violati i loro diritti spesso sono riluttanti a comunicare con organizzazioni internazionali per timore di ripercussioni.

Questo rapporto si basa principalmente su una visita di dieci giorni condotta in Libia nell’aprile 2009, così come su interviste a cittadini libici all’estero e su ricerche generali sul Paese. Durante la visita Human Rights Watch ha incontrato il Segretario del Comitato generale del popolo per la giustizia (ministero della Giustizia); il Segretario del Comitato generale del popolo per la pubblica sicurezza (ministero dell’Interno); il capo dell’Agenzia per la sicurezza interna presso il Comitato generale del popolo per la pubblica sicurezza; rappresentanti del Comitato generale del popolo per le Relazioni estere e la Cooperazione internazionale (ministero degli Affari Esteri) e il Procuratore generale incaricato. L’organizzazione ha inoltre incontrato avvocati, giornalisti, ex prigionieri e famiglie di prigionieri. Human Rights Watch ha visitato un carcere, Abu Salim a Tripoli, e ha intervistato sei prigionieri, con cui ha avuto brevi incontri, confermando la detenzione di un ulteriore recluso il quale si è rifiutato di essere intervistato. Le autorità carcerarie hanno respinto le richieste avanzate da Human Rights Watch di intervistare altri sette prigionieri.

Malgrado le tre ore di negoziazione con il funzionario dell’Agenzia per la sicurezza interna incaricato, Human Rights Watch non è stata in grado di assicurarsi interviste in privato con nessuno dei prigionieri. I colloqui sono avvenuti in un cortile dove un secondino si aggirava nei pressi per origliare rifiutando la richiesta di Human Rights Watch di spostarsi più in là. Ciò ha influenzato il valore complessivo delle testimonianze. Le autorità libiche hanno negato a Human Rights Watch l’accesso ad Ain Zara, l’altro cercere gestito dall’Agenzia per la sicurezza interna.

A causa del timore di compromettere l’incolumità degli intervistati, Human Rights Watch ha tenuto gli incontri con loro unicamente in luoghi pubblici e ha avviato i propri contatti soltanto dopo essersi accertata dell’intenzione dei soggetti a voler parlare con Human Rights Watch in pubblico. Human Rights Watch ha condotto due interviste con i familiari di vittime di violazioni dei diritti umani a Bengasi e altre quattro interviste telefoniche con altri parenti. L’organizzazione si è successivamente incontrata con due fratelli di prigionieri uccisi ad Abu Salim a Londra, nel Regno Unito, nel giugno 2009 e a Cleveland, in Ohio, nell’agosto 2009.

Human Rights Watch non è stata visibilmente seguita da alcun funzionario della sicurezza durante la visita, ma è risultato chiaro che la sicurezza libica aveva posto sotto sorveglianza l’organizzazione.

Nel giugno 2009, Human Rights Watch ha inviato lettere al Segretario alla giustizia e al Segretario alla pubblica sicurezza chiedendo maggiori chiarimenti riguardo a una serie di argomenti e questioni di primario interesse. Alla data di pubblicazione del presente rapporto Human Rights Watch non aveva ricevuto alcuna risposta alle suddette lettere nonostante i ripetuti tentativi di sollecito. Le lettere sono riportate negli “Allegati”.

IV. Contesto

La Libia, nota anche come Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista, ha un’estensione pari a 1.759.540 km², con una popolazione di poco superiore ai 6 milioni.[2] Il vasto deserto del Sahara occupa oltre il 90% del Paese, e la stragrande maggioranza della popolazione vive sulla costa del Mediterraneo. Il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite pone la Libia al 55° posto su 182 Paesi nel proprio Indice di sviluppo umano.[3]

Durante l’intero arco degli anni Settanta e Ottanta, la polizia e le forze di sicurezza arrestarono centinaia di oppositori libici, o persone ritenute possibili oppositori al nuovo sistema. Le autorità etichettarono le voci critiche come “cani randagi”, ed effettuarono retate di accademici, avvocati, studenti, giornalisti, trotskisti, comunisti, membri della Fratellanza Musulmana e altri considerati “nemici della rivoluzione”, incarcerandoli o sottoponendoli a sparizione forzata.[4] Un’altra ondata di repressione interna ebbe luogo nel 1989, quando il governo mise in atto “arresti arbitrari e detenzioni di massa, ‘sparizioni’, tortura, e pena di morte”.[5] Non era tollerata alcuna forma di dissenso e la Libia sposò apertamente la politica di assassinare i dissidenti libici all’estero.[6]

L’isolamento internazionale della Libia si intensificò alla fine degli anni Ottanta dopo che una serie di attentati all’estero furono attribuiti ad agenti libici. Nel dicembre 1988, il volo 103 della Pan Am esplose nei cieli di Lockerbie, in Scozia, uccidendo 270 persone. L’attentato fu seguito dall’abbattimento del volo 722 della UTA sul Niger nel 1989, in cui rimasero uccise 170 persone. Gli Stati Uniti e i governi europei attribuirono la paternità degli attentati ad al-Gheddafi. Nel gennaio 1992, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò la Risoluzione 731, che ordinava alla Libia di consegnare i sospetti dei due attentati aerei, collaborare alle indagini, risarcire le famiglie delle vittime, e cessare ogni sostegno al terrorismo. A questa fece seguito nel marzo 1992 la Risoluzione 748 del Consiglio di Sicurezza, la quale impose un embargo aereo e sulle armi alla Libia. L’embargo ebbe un impatto negativo sull’economia libica. Esso fu ulteriormente rafforzato con la Risoluzione 883 del novembre 1993 che impose un limitato congelamento dei beni e un embargo sulle raffinerie di petrolio.

Nel 1999 la Libia migliorò le proprie relazioni con l’Europa Occidentale e gli Stati Uniti consegnando due cittadini libici sospettati dell’attentato alla Pan Am. Una corte scozzese nei Paesi Bassi prosciolse successivamente uno degli uomini e nel 2001 condannò all’ergastolo l’altro, ‘Abd al-Basit al-Megrahi. Con una controversa decisione, il Segretario di gabinetto scozzese alla giustizia rilasciò al-Megrahi il 20 agosto 2009, citando la malattia terminale di quest’ultimo, e lo rimpatriò in Libia. Una folla di persone accolse all’aeroporto di Tripoli il suo ritorno sventolando bandiere scozzesi, evento orchestrato che fu condannato come l’accoglienza di un eroe da gran parte dei media occidentali e da molti governi.

Reintegro internazionale

La svolta nelle relazioni con la comunità internazionale avvenne nel dicembre 2003, quando la Libia annunciò che avrebbe abbandonato i suoi programmi riguardanti le Armi di distruzione di massa (WMD) e limitato i propri missili a lunga gittata.[7] La Libia affermò che si sarebbe conformata al Trattato di non proliferazione nucleare e alla Convenzione sulle armi batteriologiche, avrebbe firmato il Protocollo addizionale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica e aderito alla Convenzione sulle armi chimiche. Nell’agosto 2003, la Libia fece ammenda di “responsabilità per le azioni compiute da agenti libici” per gli attentati ai voli Pan Am e UTA e acconsentì di risarcire le famiglie delle vittime.[8] L’accordo di risarcimento tra Stati Uniti e Libia fu siglato nell’agosto 2008[9] ed entro il mese di novembre dello stesso anno le famiglie annunciarono di aver ricevuto il 100% dell’ammontare del risarcimento.[10] Come disse un funzionario del Dipartimento di Stato, gli ultimi sei anni hanno visto una “graduale, compassata normalizzazione” delle relazioni tra Stati Uniti e Libia.[11]

Nel maggio 2006 l’allora Segretaria di Stato americana Condoleezza Rice annunciò che gli Stati Uniti stavano “ristabilendo completamente le relazioni diplomatiche con la Libia” e che l’avrebbero tolta dall’elenco degli Stati che sponsorizzano il terrorismo in cui figurava dal dicembre 1979.[12] Nell’agosto 2008 Stati Uniti e Libia firmarono un accordo di chiusura della vertenza, in cui ciascuna delle parti risarciva l’altra in relazione alle istanze legali pendenti per gli attentati dinamitardi attribuiti alla Libia e gli attacchi aerei compiuti dagli Stati Uniti negli anni Novanta. Nel settembre 2008 Condoleezza Rice divenne il primo Segretario di Stato americano a compiere una visita in Libia dal 1953. Il 20 novembre 2008, il Senato degli Stati Uniti confermò Gene Cretz quale ambasciatore statunitense in Libia. Il primo ambasciatore americano nel Paese dopo più di 35 anni.[13]

Il disgelo delle relazioni tra Libia e Stati Uniti è risultato particolarmente significativo in termini di cooperazione contro il terrorismo. La Libia viene considerata un partner nella lotta al terrorismo e continua a condividere con i governi occidentali i dati di intelligence sui militanti islamisti.[14] A partire dal 2004, gli Stati Uniti hanno consegnato alla Libia diversi ex detenuti libici in mano della CIA,[15] cinque dei quali sono stati intervistati da Human Rights Watch nell’aprile 2009. Human Rights Watch è stata la prima organizzazione a confermare la loro detenzione in Libia. Inoltre, il 18 dicembre 2006, il governo degli Stati Uniti restituì il cittadino libico Mohamed al-Rimi da Guantánamo Bay alla Libia, rimpatrio cui fece seguito quello di Sofian Hamoodah il 30 settembre 2007.

Il 18 ottobre 2005, Libia e Regno Unito siglarono un Protocollo d’intesa “al fine di favorire l’espulsione di persone sospettate di attività associate con il terrorismo”,[16] in base al quale, secondo Human Rights Watch, esse si sarebbero trovate esposte al grave rischio di tortura.[17] Il 27 aprile 2007, la Commissione d’appello speciale sull’immigrazione sentenziò che il Regno Unito non poteva rimpatriare in Libia persone sospettate di terrorismo a causa del rischio di tortura e processi iniqui, una decisione confermata in appello il 9 aprile 2008.[18]

Anche altri governi europei e l’Unione Europea hanno recentemente rafforzato i loro legami con la Libia, spinti da interessi economici e incoraggiati dalla cooperazione della Libia nella lotta al terrorismo e all’immigrazione illegale. Le sanzioni dell’Unione Europea (UE) nei confronti della Libia furono revocate nel 2004 e Libia e UE firmarono un protocollo d’intesa il 23 luglio 2007. Nel novembre 2008, ebbero inizio a Bruxelles i negoziati relativi a un Accordo quadro UE-Libia, che coprivano tematiche come “il dialogo politico, il commercio, l’energia, la migrazione e l’ambiente”.[19] I negoziati sono ancora in corso con una sessione prevista per il mese di novembre 2009.

Anche la risoluzione di uno dei punti più spinosi nelle relazioni tra UE e Libia, vale a dire il caso delle cinque infermiere bulgare e un medico palestinese, ha aperto la strada al miglioramento delle relazioni. Gli operatori sanitari si trovavano in carcere dal 1999, giudicati colpevoli di aver deliberatamente infettato 426 bambini con il virus dell’HIV. Il loro rilascio nel luglio 2007 fu il risultato di negoziati che si intensificarono dopo l’ingresso della Bulgaria nell’Unione Europea nel gennaio dello stesso anno. Il Consiglio supremo della magistratura libica commutò le condanne a morte a carico degli operatori sanitari in seguito a un accordo con l’Unione Europea che prevedeva l’intensificazione delle relazioni tra UE e Libia e che, secondo fonti libiche, comprendeva anche indennizzi alle famiglie delle vittime pari a un milione di dollari USA per ciascuno dei bambini.[20]

L’intervento del presidente francese Nicolas Sarkozy nel caso si concluse con l’allora first-lady francese Cecilia Sarkozy che accompagnava le infermiere e il medico sul loro volo in uscita dalla Libia,[21] mentre Mu’ammar al-Gheddafi fu invitato a compiere una visita di Stato in Francia nel dicembre 2007, la sua prima visita in Europa in 34 anni.[22] In quell’occasione, il colonnello firmò contratti per miliardi di dollari durante la sua permanenza in Francia e Spagna.[23] In precedenza lo stesso anno, l’allora presidente russo Vladimir Putin firmò accordi per svariati miliardi di dollari in armi e risorse energetiche durante una visita in Libia condotta ad aprile, la prima da parte di un presidente russo.

Italia e Libia consolidarono le loro già strette relazioni grazie a una serie di accordi ed iniziative congiunte. Il 30 agosto 2008, i due Paesi firmarono il “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra la Repubblica italiana e la Gran Giamahiria Araba Libica Popolare Socialista” che prevedeva “l’intensificazione” della cooperazione nel “combattere il terrorismo, il crimine organizzato, il traffico di droga e l’immigrazione illegale”.[24] Nel settembre 2008, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi si recò in visita in Libia, impegnandosi a corrispondere 5 miliardi di dollari USA come risarcimento per “i danni inflitti” durante il dominio coloniale italiano. Berlusconi dichiarò che l’Italia ne avrebbe ricavato un accresciuto accesso alle risorse libiche di petrolio e gas e un “minor numero di immigrati clandestini”. Il 15 maggio 2009 ha visto l’entrata in vigore di un accordo per condurre pattugliamenti italo-libici congiunti delle coste libiche. Nel giugno 2009, Mu’ammar al-Gheddafi ha compiuto la sua prima visita di Stato in Italia[25] dove è ritornato il mese successivo per partecipare al summit G8 all’Aquila. Nel settembre 2009, Human Rights Watch ha pubblicato il rapporto Scacciati e schiacciati, che descrive gli effetti negativi del suddetto accordo sui diritti di rifugiati, richiedenti asilo e migranti.[26]

Nell’ottobre 2007 la Libia ottenne un seggio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di cui nel gennaio 2009 ha detenuto la presidenza a rotazione.[27] Nel febbraio 2009 il leader libico Mu’ammar al-Gheddafi ha assunto la presidenza dell’Unione Africana durante un summit ad Addis Abeba, in Etiopia, e il 10 giugno 2009 l’Assemblea Generale ha eletto l’ex Segretario libico per gli affari africani, Ali Treki, presidente della sua 64ª sessione. Il 23 settembre 2009, Mu’ammar al-Gheddafi ha tenuto un discorso di 96 minuti alla seduta d’apertura dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in cui ha criticato il sistema delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza. Tuttavia, egli si è trattenuto dall’esprimere osservazioni critiche nei confronti degli Stati Uniti o dell’Occidente in generale, evitando argomenti delicati come il rimpatrio di Megrahi, indice della sua volontà di mantenere buone relazioni con l’Occidente.

La Libia è Stato parte di sette trattati internazionali fondamentali sui diritti umani, sebbene non di tutti i rispettivi protocolli opzionali. La Libia ha ratificato il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR) e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (ICESCR) nel 1976, la Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) nel 1989, la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti (CAT) nel 1989, la Carta africana dei diritti umani e dei popoli nel 1986 e la Carta africana sui diritti e il benessere dell’infanzia nel 2003. La Libia ha assunto posizioni fortemente contrarie alla firma della Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951 e dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, con Mu’ammar al-Gheddafi che non ha esitato a definire quest’ultimo un “nuovo terrorismo mondiale”.[28]

Iniziative di riforma

Per anni, gli osservatori dei diritti umani hanno criticato il codice penale libico per la sua violazione della libertà di espressione ed associazione e per le sue sproporzionalmente pesanti sentenze.[29] Le autorità libiche annunciarono per la prima volta nel 2003 l’intenzione di emendare il codice penale. L’allora Segretario alla giustizia ‘Ali ‘Umar Abu Bakr riferì a Human Rights Watch nel maggio 2005 che entro la fine di quell’anno gli esperti avrebbero presentato un nuovo codice penale ai Congressi di base del popolo per essere dibattuto.[30] Una bozza ottenuta da Amnesty International nel 2004 conteneva molti articoli non conformi agli obblighi della Libia ai sensi delle norme internazionali sui diritti umani. In alcuni di questi, espressioni come “diffusione di dicerie”, “oltraggio”, e “nuocere alla reputazione del Paese”, apparivano come motivazioni che avrebbero potuto comportare l’imposizione della pena di morte per la pacifica espressione delle proprie opinioni politiche.[31] Nell’ottobre 2005, Mu’ammar al-Gheddafi parlò di fronte al Consiglio superiore della magistratura invocando una revisione del codice penale: “Voglio che uomini e donne di Libia creino il loro codice penale cosicché sia la prima volta che un popolo crea il proprio codice penale che poi andrà ad applicare”.[32]

Il presidente della Corte Suprema (Chief Justice), dottor Abdulrahman Tuta, ha raccontato a Human Rights Watch nell’aprile 2009 di aver presieduto un comitato formato da giudici, avvocati e accademici che aveva redatto un nuovo codice penale.[33] Il Segretario alla giustizia Mostafa Abdeljalil ha riferito a Human Rights Watch che la bozza del codice penale sarebbe stata presentata formalmente nell’estate 2009 ai Congressi generali del popolo per essere discussa. Si sarebbe trattato del primo passo verso la sua adozione, ma alla data di stesura del presente rapporto ciò non è ancora avvenuto.[34] Il sistema politico libico prevede per ciascun Congresso la facoltà di approvare o respingere la proposta, o di approvarla con riserva. Il codice entra quindi in vigore una volta ottenuta l’approvazione del Congresso generale del popolo.

In un raro incontro pubblico presso l’Ordine degli avvocati di Tripoli nell’aprile 2008, alcuni avvocati libici criticarono apertamente la versione più recente della bozza del codice penale per la sua continua repressione delle libertà fondamentali e per l’ampiezza del campo di applicazione della pena di morte.[35] Nel gennaio 2009, Human Rights Watch ha ricevuto l’ultima versione della bozza del codice penale e nel mese di giugno ha inviato alle autorità libiche i propri commenti e le proprie raccomandazioni sulle disposizioni proposte, al fine di allinearle con le norme internazionali sui diritti umani. La nuova bozza limita il numero di articoli che prevedono la pena di morte e riduce molte delle sentenze pur conservando disposizioni che criminalizzano la libertà di espressione e di associazione.[36]

Persino il Comitato generale del popolo per la pubblica sicurezza appare consapevole della necessità di mettersi al passo con i tempi; il suo sito web ora contiene un modulo per i “reclami per porre rimedio a ogni tipo di mancanza”.[37] Il Segretario libico alla pubblica sicurezza, generale Abdelfattah al-Obeidi, ha cercato di rassicurare Human Rights Watch affermando di aver deliberato lo scorso anno una decisione che imponeva a tutti i funzionari di non colpire o umiliare in alcun modo i cittadini durante l’espletamento del proprio servizio. Tuttavia, egli non è stato in grado di fornire a Human Rights Watch alcuna informazione riguardo al numero dei reclami ricevuti relativamente a questo tipo di trattamenti o al numero di casi indagati dal suo ministero.[38] Non sono disponibili dati sul numero di funzionari perseguiti, ma un avvocato ha riferito a Human Rights Watch che la cifra sarebbe molto esigua, giacché “il Procuratore generale non può interrogare un funzionario se non previa autorizzazione del Segretario alla pubblica sicurezza e quest’ultimo respinge regolarmente la richiesta”.[39]

Un altro segnale che il Comitato generale del popolo per la pubblica sicurezza riconosce la necessità di dimostrarsi interessato ad esternare una certa sensibilità in tema di diritti umani è dato dall’apparente creazione di un programma di formazione sui diritti umani. Nell’aprile 2009, il colonnello Kamal El Dib ha riferito a Human Rights Watch dei programmi di formazione sui diritti umani che aveva iniziato a gestire presso il Comitato generale per la pubblica sicurezza nel 2004. Egli ha dichiarato che circa 60.000 funzionari erano stati formati su tematiche come “il concetto di diritti umani, la non discriminazione, la sicurezza e la legittimità, la Convenzione sulla tortura, le modalità con cui la polizia dovrebbe interagire con i cittadini e la Grande carta verde dei diritti umani”.[40] Egli ha affermato che si trattava di un ampio progetto di formazione e sviluppo e che la Libia aveva coinvolto esperti provenienti dal Regno Unito, dagli Stati Uniti e dall’Egitto. Human Rights Watch non è stata in grado di accertare la portata di questo programma né di valutarne i contenuti. Mentre gli effetti di una formazione in tema di diritti umani sono spesso difficili da valutare, specialmente laddove esiste una cultura dell’impunità per le violazioni, essa è indice di una consapevolezza da parte del Comitato generale per la pubblica sicurezza della necessità di avere in agenda una qualche forma di programmazione in tema di diritti umani.

Saif al-Islam al-Gheddafi, figlio di Mu’ammar al-Gheddafi, viene generalmente considerato come il leader, o talvolta come portavoce, dell’ala “riformista” del governo di Tripoli. I suoi discorsi di agosto alle associazioni giovanili libiche erano divenuti una piattaforma per le riforme. Egli si era servito di questi discorsi per annunciare l’intenzione di redigere una nuova costituzione, una proposta radicale se rapportata alla visione di democrazia diretta del padre. Nell’agosto 2007, nel suo discorso “Libia – Verità per tutti”, egli parlò senza pudore delle passate violazioni dei diritti umani e del diritto delle famiglie a venire a conoscenza di ciò che era accaduto ai loro congiunti scomparsi.[41] Il 22 agosto 2008, tuttavia, Saif al-Islam annunciò il suo imminente ritiro dalla vita politica e la sua intenzione di dedicarsi ad attività di beneficenza tramite la sua fondazione.[42] Alcuni analisti interpretarono la sua decisione come il segnale di un suo indietreggiamento sul fronte del potere interno e pertanto anche dei cosiddetti esponenti riformisti del governo. Il 12 ottobre, tuttavia, due mesi dopo aver scortato il rientro in Libia di Abdelbaset al-Megrahi, i Comitati direttivi del popolo nominarono Saif al-Islam al-Gheddafi proprio coordinatore generale, rendendolo di fatto il secondo uomo più importante del Paese. Una settimana prima, il leader libico Mu’ammar al-Gheddafi aveva chiesto ai Comitati direttivi del popolo di trovare una posizione ufficiale per suo figlio Saif per “consentirgli di dare attuazione alle riforme”.[43]

V. Libertà di espressione

“In generale, è vero, abbiamo una maggiore libertà di espressione. Prima non avremmo neppure tentato di esprimerci. Ora corriamo dei rischi”.
—Un giornalista libico, Tripoli, aprile 2009.
“Le cose vanno molto meglio, ma potrebbe esserci un’inversione di tendenza, perché la legge non prevede alcuna liberalizzazione”.
—Un giornalista libico, Tripoli, aprile 2009.
“Le quattro “linee rosse” sono l’applicazione della legge islamica, il Corano e i suoi precetti, la sicurezza e la stabilità della Libia, la sua integrità territoriale e Mu’ammar al-Gheddafi.”
—Saif al-Islam al-Gheddafi, agosto 2007.

Gli ultimi cinque anni sono stati testimoni della graduale apertura di un nuovo, seppur fragile ma comunque tangibile, spazio per la libertà di espressione. Il governo conserva il controllo su gran parte dei media in Libia e sorveglia e censura i nuovi media privati. La creazione di due nuovi quotidiani privati e di un canale televisivo satellitare nell’agosto 2007 è stata all’inizio accolta con grande entusiasmo dai giornalisti mentre esploravano le nuove frontiere dell’espressione critica. In seguito, tuttavia, mentre il governo faceva marcia indietro, i giornalisti divennero più cauti e meno ottimisti nei confronti della sostenibilità di questa libertà. La continua esistenza di leggi repressive che criminalizzano la libertà di parola, getta un’ombra oscura sulla stampa. Il Procuratore per la stampa, uno dei procuratori specializzati in Libia che si occupa anche di narcotraffico, il Procuratore generale, e i procuratori per la Sicurezza di Stato giocano un ruolo sempre più attivo nell’avvio di indagini penali in casi di denunce per calunnia a carico di giornalisti. Molte persone incontrate da Human Rights Watch hanno sostenuto che negli ultimi cinque anni in Libia vi sono stati piccoli ma tangibili sviluppi, e un avvocato ha detto a Human Rights Watch: “Nel 2005 non avrei potuto parlarvi così come posso fare oggi”.[44]

La fondazione di due nuovi quotidiani privati, Oea[45]e Quryna[46], il 20 agosto 2007 ha aperto la strada a un certo grado di critiche nei confronti delle autorità che sarebbero risultate impensabili negli anni precedenti. Entrambi i giornali sono di proprietà di Al Ghad, una società strettamente affiliata al figlio di Mu’ammar al-Gheddafi, Saif al-Islam al-Gheddafi, la quale ha anche fondato il canale televisivo satellitare Al Libeyya. Le autorità libiche hanno nazionalizzato quest’ultimo nel giugno 2009 così come una nuova rete televisiva Al Wasat. Sono apparsi articoli che criticano il Procuratore generale per corruzione, violazione della legge e per il mancato avvio di indagini a seguito di denunce, oltre che nei confronti delle autorità locali di Bengasi per corruzione.[47] Il 3 settembre 2009, l’avvocato Mohamed Allagi ha scritto un articolo su Oea in cui criticava la mancanza di indipendenza della magistratura in Libia.[48] Questi giornali fungono da portavoce dei cosiddetti gruppi “riformisti”, strettamente affiliati alla posizione politica di Saif al-Islam al-Gheddafi, ma il fatto che queste critiche abbiano avuto voce in un forum pubblico denota l’esistenza di una qualche forma di tolleranza nei confronti delle divergenze politiche.

I siti web libici indipendenti con base all’estero, come Libya Al Youm, Al Manara e Jeel Libya, che pubblicano notizie critiche del governo, sono accessibili in Libia e i loro corrispondenti sono autorizzati ad operare, non senza, tuttavia, subire vessazioni. Libya al Youm, un sito web indipendente con sede nel Regno Unito, è uno dei principali riferimenti per chiunque cerchi notizie riguardo a ciò che accade in Libia. Benché pubblichi frequentemente articoli critici del governo e notizie relative ad argomenti tra i più delicati come le manifestazioni per Abu Salim, esso mantiene due corrispondenti in Libia con sede rispettivamente a Tripoli e Bengasi. Il corrispondente da Tripoli, Fathi Ben Eissa, ha raccontato a Human Rights Watch di possedere un accredito stampa e di essere in grado di intervistare funzionari libici e di partecipare a conferenze di alto livello malgrado il fatto che Libya Al Youm non sia registrato in Libia e continui a pubblicare articoli che criticano il sistema politico e le autorità.[49]

Il 22 novembre 2008, l’Agenzia France-Press fu la prima agenzia di stampa internazionale ad aprire ufficialmente un proprio ufficio a Tripoli con un corrispondente estero accreditato e il 24 febbraio 2009 quotidiani e riviste internazionali come International Herald Tribune e Newsweek sono apparsi in libera vendita in Libia per la prima volta dopo un quarto di secolo.

Questi mutamenti sono avvenuti nonostante il persistere di un quadro legale repressivo e assumono un significato ancor maggiore se considerati all’interno di questo contesto perché i giornalisti corrono notevoli rischi quando scrivono in maniera critica delle politiche e degli abusi del governo. Il Proclama costituzionale del dicembre 1969 che garantisce alcuni diritti, come il diritto al lavoro, alle cure sanitarie e all’istruzione, consente la libertà di opinione soltanto “entro i limiti del pubblico interesse e dei principi della Rivoluzione”.[50] L’art. 178 del codice penale prevede l’ergastolo per la diffusione di notizie ritenute “infangare la reputazione [del Paese] o comprometterne la fiducia all’estero”. L’art. 207 impone la pena di morte per “chiunque diffonda all’interno del Paese, attraverso un qualsiasi mezzo, teoria o principio finalizzati a cambiare i principi fondamentali della Costituzione o le strutture fondamentali del sistema socialista o a rovesciare le strutture politiche, sociali od economiche dello Stato o a distruggere qualsiasi struttura fondamentale del sistema sociale attraverso l’uso della violenza, del terrorismo o di qualsiasi altro mezzo illegale”. In Libia continuano ad esservi prigionieri politici incarcerati ai sensi di queste disposizioni che criminalizzano la libertà di parola, come nel caso di Abdelnasser al-Rabbasi, citato al cap. VII.

In un discorso tenuto nell’agosto 2007, Saif al-Islam al-Gheddafi ha parlato apertamente delle restrizioni alla libertà di espressione in Libia individuando quattro “linee rosse”, ovvero “l’applicazione della legge islamica, il Corano e i suoi precetti, la sicurezza e la stabilità della Libia, la sua integrità territoriale e Mu’ammar al-Gheddafi”.[51] L’esistenza di queste quattro linee rosse è stata confermata a Human Rights Watch da giornalisti e da funzionari come il Procuratore generale incaricato.[52] Nel novembre 2008, nel corso di una telefonata in diretta a un programma della radio locale di Bengasi, uno spettatore non identificato criticò Saif al-Islam affermando: “Chi è questo Saif al-Islam per conto del quale manifesta la gioventù libica? E dov’erano tutti, quando la gente veniva messa a morte in pubblico negli anni Ottanta?”.[53] A seguito della telefonata, Younis al-Magbari, direttore della stampa e delle trasmissioni presso il Comitato generale del popolo per i media e la cultura, dispose provvedimenti disciplinari nei confronti del conduttore e autore del programma. Nel corso di un’intervista ad Al Jazeera, al-Magbari dichiarò che avrebbe revocato tale decisione e si scusò con i giornalisti. Questo dopo che Saif al-Islam era intervenuto affermando che dal momento che egli non era una “linea rossa” poteva essere criticato.[54] Come ha raccontato a Human Rights Watch un giornalista, “il problema è che non si può mai dire quando una determinata linea è rossa”.[55]

Human Rights Watch ha incontrato un gruppo di giornalisti presso l’Associazione della stampa di Tripoli, la sezione più ampia del Sindacato dei giornalisti, per discutere la situazione relativa alla libertà di espressione in Libia. Uno dei giornalisti ha raccontato a Human Rights Watch che “esiste un margine di libertà, ma non si tratta di vera libertà perché dipende dall’umore dei ministri. Questa libertà ha alti e bassi”.[56] Un altro giornalista ha aggiunto che “esistono chiare linee di demarcazione, e si può perdere il lavoro se le oltrepassi, oppure possono congelarti lo stipendio”.[57] I giornalisti, i direttori di testata e persino il Procuratore generale incaricato, con i quali Human Rights Watch ha avuto incontri, tutti hanno indistintamente parlato delle quattro “linee rosse” individuate da Saif al-Islam al-Gheddafi nell’agosto 2007. Ciononostante, uno dei giornalisti ha affermato che “in generale, è vero, abbiamo un po’ più libertà di espressione. Prima, non avremmo neppure tentato di esprimerci. Ora però corriamo dei rischi”.[58]

Procedimenti a carico di giornalisti

Questa limitata espansione della libertà di stampa ha comportato un corrispondente aumento del numero di denunce per diffamazione a carico di giornalisti. Disposizioni oltremodo ampie stabilite dal codice penale criminalizzano la libertà di parola. Ai sensi del codice penale e della legge sulla stampa del 1972, una condanna per diffamazione prevede una sentenza al carcere, il che non fa che cementare la tendenza dei giornalisti all’autocensura.

Per citare un esempio, il giornalista Tarek al-Houny, che scrive per Quryna, ha firmato un articolo dal titolo “Il Governatore non sta governando”, criticando la mancanza di disponibilità di moneta circolante nel Paese quale risultato di politiche della Banca centrale libica. Il 30 novembre 2008, il Procuratore per la stampa lo convocò con l’accusa di diffamazione dopo che il governatore della Banca centrale, Farahat Ben Qaddara, aveva sporto denuncia contro di lui, sostenendo che l’articolo era calunnioso. Tarek al-Houny ha raccontato a Human Rights Watch di aver criticato le politiche finanziarie del governatore e non l’uomo in sé stesso, ma il procuratore lo interrogò riguardo all’articolo imponendogli successivamente di presentarsi una volta alla settimana presso l’ufficio del procuratore per apporre la firma.[59] A due mesi dai fatti, egli scoprì che il suo caso giudiziario era approdato in tribunale. Il processo fu sospeso in seguito all’intervento di Saif al-Islam al-Gheddafi. El-Houny ha raccontato a Human Rights Watch che una simile esperienza avrebbe accresciuto ancor più il grado di autocensura, affermando che “questa esperienza mi ha reso molto nervoso. Ora ci penso due volte prima di scrivere una riga e sono diventato molto cauto”.[60]

L’11 gennaio 2009, il Procuratore per la sicurezza di Stato ha convocato il professore di scienze politiche dell’Università di Garyounis, Fathi el Baaga con l’accusa di “incitamento contrario al sistema della Giamahiria” per aver pubblicato un articolo il 5 maggio 2007 nel quotidiano Quryna, dal titolo “Dov’è la guida della Libia?” in cui si criticava il sistema politico vigente in Libia.[61] Egli è stato rilasciato su cauzione a condizione di presentarsi una volta alla settimana presso l’ufficio del Procuratore per la stampa di Bengasi per apporre la firma. Il 16 gennaio, Libya Al Youm ha riportato che il Pubblico ministero Mohamed al-Misrati aveva archiviato tutte le accuse nei suoi confronti in seguito all’intervento di Saif al-Islam al-Gheddafi.[62]

Il 21 ottobre 2009, Mohamed al-Sareet, un giornalista libico, ha pubblicato su Jeel Libya, un sito web indipendente con base a Londra, un articolo riguardante un raro caso di manifestazione tenuta a Bengasi da alcune donne che vivono in un istituto a gestione statale per donne e ragazze rimaste orfane da bambine, le quali chiedevano di porre fine alle molestie sessuali che asserivano aver subito nel centro. Le manifestanti chiedevano inoltre il ritorno del precedente direttore dell’istituto. Il 22 ottobre, la polizia locale ha convocato al-Sareet presso la stazione di polizia di Hadaek per essere interrogato. Il 26 ottobre, l’Ufficio del Procuratore generale lo ha convocato per un ulteriore interrogatorio e lo ha incriminato per diffamazione penale, reato che prevede la condanna al carcere. Il direttore di Jeel Libya ha raccontato a Human Rights Watch che al-Sareet aveva ricevuto minacce di veder bruciata la sua casa, un’intimidazione per costringerlo a ritrattare l’articolo.[63] Il 29 ottobre, tuttavia, l’Ufficio del Procuratore generale ha aperto un’inchiesta sui reclami e il 31 ottobre ha incriminato per molestie sessuali l’ex direttore dell’istituto. Anche la Fondazione Gheddafi ha incontrato al-Sareet e lo ha rassicurato che le accuse a suo carico sarebbero state archiviate.

Obblighi internazionali della Libia e legislazione libica

Il controllo stringente esercitato dal governo sui media contravviene agli obblighi assunti dalla Libia ai sensi del diritto internazionale. L’art. 9 della Carta africana dei diritti umani e dei popoli, ratificata dalla Libia nel 1986, garantisce che “ogni individuo ha il diritto all’informazione”, e che “ogni individuo ha il diritto di esprimere e diffondere le proprie opinioni nell’ambito della legge”. L’art. 19 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, di cui la Libia è Stato parte, stabilisce standard minimi internazionali per la libertà di espressione. In esso si dichiara: “Ogni individuo ha il diritto a non essere molestato per le proprie opinioni; ogni individuo ha il diritto alla libertà di espressione; tale diritto comprende la libertà di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee di ogni genere, senza riguardo a frontiere, oralmente, per iscritto, attraverso la stampa, in forma artistica o attraverso qualsiasi altro mezzo di sua scelta”.[64] Ogni restrizione a tale diritto deve essere necessaria, proporzionata e sancita dalla legge.

La legislazione libica applicabile è lungi dall’essere allineata con gli standard internazionali. La Dichiarazione costituzionale del 1969 comprende una disposizione restrittiva dall’enunciato vago che apre le porte all’abuso. In essa si afferma: “La libertà di opinione è garantita nei termini del pubblico interesse e dei principi della Rivoluzione”.[65] La Grande carta verde dei diritti umani, approvata nel 1988, non sancisce esplicitamente il principio della libertà di parola o del diritto all’informazione. La legge 20, sul rafforzamento della libertà, adottata nel 1991, stabilisce che “ogni cittadino ha il diritto di esprimere apertamente il proprio pensiero e le proprie opinioni ai Congressi dei popoli e nei [mass] media della Giamahiria”, a meno che “egli si serva [di tale diritto] per violare l’autorità del popolo per motivi personali”.[66]

La bozza del codice penale proposta nel 2009 contiene alcuni miglioramenti generali ma conserva disposizioni che violano la libertà di espressione. L’art.198 stabilisce che l’offesa a pubblico ufficiale è punibile con il carcere. L’art.155 prevede il carcere per aver insultato Mu’ammar al-Gheddafi e l’art.167 punisce con l’ergastolo l’aver promosso principi finalizzati a cambiare il sistema della Giamahiria utilizzando mezzi illegali. Le limitazioni alla libertà di espressione contenute negli artt.155, 156, 159, 167, 198 e 230 scavalcano quanto garantito ai sensi del diritto internazionale e creano un clima che soffoca la libertà di parola e di critica. In particolare, il diritto di criticare il proprio governo assume un’alta priorità nelle garanzie di tutela stabilite dal diritto internazionale, in quanto è esattamente uno dei diritti che più facilmente incontra vessazioni, abusi e diniego da parte dei governi. La Dichiarazione dei principi sulla libertà di espressione in Africa, adottata dalla Commissione africana dei diritti umani e dei popoli nel 2002, afferma che gli Stati devono assicurare che le loro leggi sulla diffamazione ottemperino allo standard secondo cui “alle personalità pubbliche è richiesto di tollerare un maggior grado di critiche”.[67]

VI. Libertà di riunione e di associazione

“Lo Stato ha ingoiato la società civile e non darà spazio ai difensori dei diritti umani”.
—Un avvocato libico, 22 aprile 2009.

In Libia non esiste praticamente libertà di riunione o di associazione perché il concetto di società civile indipendente si scontra in maniera diretta con la teoria di Gheddafi sul governo delle masse senza intermediari.[68] La legge 71 vieta qualsiasi attività di gruppo che si opponga all’ideologia della rivoluzione del 1969 e impone la pena di morte a quanti formino, entrino a far parte o sostengano gruppi di questo tipo.

Libertà di riunione

La libertà di riunione è fortemente limitata in Libia. Il 29 giugno, il Comitato generale del popolo ha emesso una delibera (312/2009) che richiede l’approvazione con 30 giorni di anticipo da parte di un nuovo comitato creato dal governo per organizzare un qualsiasi incontro o evento, e che richiede agli organizzatori di fornire l’elenco di tutti i partecipanti e degli argomenti in agenda. Ai sensi del diritto internazionale, tali requisiti non soddisfano gli standard relativi a necessarie e proporzionate restrizioni della libertà di riunione e di associazione, come stabiliscono, ad esempio, gli artt.10 e 11 della Carta africana.

I tentativi di organizzare una manifestazione continuano a essere illegali. Nel febbraio 2007 agenti della sicurezza libica arrestarono 14 organizzatori di una manifestazione pacifica programmata per commemorare l’anniversario di una violenta repressione sui dimostranti a Bengasi. Le forze di sicurezza li trattennero in incommunicado nelle carceri di Ain Zara e al-Al-Jdaida fino al 24 giugno 2007, quando comparvero innanzi a un tribunale per rispondere delle accuse di “tentato rovesciamento del sistema politico” e “comunicazione con potenze nemiche”.[69] Accede sempre più spesso, tuttavia, che alcune manifestazioni si svolgano nonostante queste restrizioni. A Bengasi, i familiari di un gruppo di prigionieri uccisi nel carcere di Abu Salim hanno organizzato una serie di manifestazioni pubbliche. Sebbene funzionari della sicurezza continuino a vessare e intimidire coloro che partecipano alle manifestazioni, il fatto che esse si svolgano comunque e che siano seguite dai media non ha precedenti. (V. cap.VIII, “Attivismo senza precedenti”).

Nessuna organizzazione non governativa indipendente

In Libia non esiste alcuna organizzazione non governativa indipendente. Il governo si è rifiutato di autorizzare organizzazioni indipendenti dei giornalisti e degli avvocati. La legge 19, “Sulle associazioni”, stabilisce che sia un organo politico ad approvare questo tipo di organizzazioni, non permette alcun ricorso contro i pareri negativi e consente la continua interferenza del governo nella gestione dell’organizzazione. Se l’organizzazione intende operare a livello nazionale, la sua domanda deve essere inoltrata al segretariato del Congresso generale del popolo.[70] Se l’attività proposta è limitata a un governatorato, la domanda va inoltrata al Congresso del popolo di quel governatorato. Se l’attività è a livello internazionale, la richiesta va al Comitato generale del popolo nel suo complesso. La stessa legge consente al governo di revocare l’autorizzazione di una associazione in qualsiasi momento e senza necessità di motivare tale decisione. Esistono alcune organizzazioni semi-ufficiali che svolgono attività di beneficenza, fornendo servizi e organizzando seminari, ma nessuna che assuma pubblicamente posizioni critiche nei confronti del governo. Le uniche organizzazioni che possono svolgere attività in favore dei diritti umani, tematica della massima delicatezza in Libia, traggono la loro forza politica dalla personale affiliazione con il regime. A tutti gli effetti, essi svolgono il ruolo di commissioni dei diritti umani o di difensori civici presso il governo, benché siano chiari i limiti riguardanti il genere di tematiche di cui andranno ad occuparsi e la portata delle pressioni che andranno ad esercitare in un determinato momento. Con la nomina di Saif al-Islam nell’ottobre 2009 quale Coordinatore generale dei Comitati direttivi del popolo, la natura governativa della Fondazione Gheddafi si è consolidata.

La principale organizzazione in grado di svolgere attività in tema di diritti umani in Libia è la Società dei diritti umani della Fondazione internazionale Gheddafi per la beneficenza e lo sviluppo (GDF), presieduta da Saif al-Islam al-Gheddafi, figlio del colonnello Mu’ammar al-Gheddafi. Essa è intervenuta in una serie di casi per assicurare il rilascio di prigionieri politici o per favorire il ritorno di cittadini libici.[71] Talvolta ha assunto posizioni pubblicamente critiche nei confronti delle autorità, come nel caso del Procuratore generale in occasione dell’arresto del procuratore Gum’a Atiga, ex segretario dell’Associazione per i diritti umani della GDF. La GDF “ha fortemente condannato quest’azione arbitraria e ha richiesto al segretariato del Congresso generale del popolo di richiamare coloro che hanno proceduto all’arresto della persona in questione e di procedere al suo rilascio nel più breve tempo possibile”.[72] Su molte altre questioni, tuttavia, essa si muove con molta cautela e preferisce cercare di trattate casi e problematiche su un piano che non sia pubblico.

Un’altra organizzazione che svolge una qualche attività sui diritti umani è Waatasemu. Presieduta da Aisha al-Gheddafi, avvocata e figlia del colonnello Mu’ammar al-Gheddafi, Waatasemu è intervenuta con successo in alcuni casi capitali, riuscendo a raggiungere un accordo di risarcimento, il cosiddetto “blood money”, al fine di ridurre in ergastolo la sentenza[73] (v. cap.X sotto). L’International Organization for Peace, Care and Relief (IOPCR), presieduta da Khaled Hamedi, figlio di un membro del Consiglio di Comando rivoluzionario, è l’unica organizzazione in grado di accedere ai centri di detenzione per migranti.[74] Fu soltanto sulla base di un accordo del 2008 con l’IOPCR che l’UNHCR (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) fu in grado di ottenere l’accesso a Misrata per intervistare i richiedenti asilo.[75]

In Libia tutte le organizzazioni professionali e i sindacati sono sotto controllo statale. Tuttavia, all’interno dell’Ordine degli avvocati e dell’Organizzazione dei giornalisti vi sono diverse persone che esprimono opinioni indipendenti e che assumono posizioni critiche nei confronti del governo pur cercando di operare nell’ambito delle strutture esistenti. Tuttavia, le opportunità restano limitate. Come ha raccontato a Human Rights Watch un avvocato, “lo Stato ci guarda con sospetto, noi dell’Ordine degli avvocati di Tripoli, perché siamo i più grossi”.[76] Ciononostante, gli avvocati dell’Ordine di Tripoli stanno cercando di assumere un ruolo sempre più attivo nel monitoraggio e nell’affermazione dei diritti umani. Gli avvocati hanno raccontato a Human Rights Watch di aver recentemente creato un comitato di ricerca che aveva chiesto di poter accedere al carcere di Ain Zara nell’aprile 2009 ma che l’Agenzia per la sicurezza interna aveva dato parere negativo. Essi rimangono fiduciosi di riuscire alla fine ad ottenere l’accesso in quanto un comitato sui diritti umani affiliato all’Ordine degli avvocati aveva già visitato la prigione nel 1998.[77]

Il 22 aprile 2008, l’Ordine degli avvocati di Tripoli tenne un seminario per discutere la bozza del nuovo codice penale. Gli avvocati rigettarono la bozza chiedendone la revisione e domandando un processo di consultazione più ampio.[78] Come ha detto a Human Rights Watch un avvocato, “ogni cosa che avete scritto nel vostro ultimo rapporto [Dalle parole ai fatti, del 2006] riguardo al carattere repressivo del quadro legale continua a essere valida”.[79]

Criminalizzazione della libertà di associazione

La bozza del nuovo codice penale conserva disposizioni che violano la libertà di associazione. L’art.166 criminalizza l’istituzione di qualsiasi organizzazione che sia “contraria al sistema della Giamahiria” o “ne minacci l’autorità popolare”, senza definire in termini più precisi il contenuto di tali espressioni. L’art.167 criminalizza chiunque promuova “il cambiamento del sistema della Giamahiria”, sebbene appaia limitarsi a quanti agiscano “utilizzando la violenza o altri mezzi illegali”. Tali disposizioni sono oltremodo ampie in quanto non danno una definizione specifica del reato di modo da permetterne l’accertamento sul piano giudiziario, oltre a limitare i diritti delle persone a formare associazioni o ad affermare le proprie opinioni. A tutti gli effetti, tali disposizioni riguarderebbero organizzazioni o gruppi che assumono posizioni pubblicamente critiche nei confronti delle politiche del governo, così come commenti sulla situazione dei diritti umani. Esse potrebbero persino criminalizzare gli istituti di ricerca quando questi giungano a conclusioni critiche per la politiche attuate dal governo. Analogamente, l’art.169 tenta di limitare la libertà dei cittadini libici ad aderire o a fondare organizzazioni internazionali a meno di non ottenere l’autorizzazione del governo, senza definire i criteri per ottenere questo tipo di autorizzazione. Ai sensi del diritto internazionale, mentre il governo può richiedere la notifica della fondazione di una associazione, la domanda per ottenere l’autorizzazione per istituire un’associazione dovrebbe avvenire sulla base di criteri che siano chiari, obiettivi ed appellabili.

Cercare di creare un’organizzazione per i diritti umani rimane un’operazione molto rischiosa, come dimostra il caso di Shukri Sahil. Nel marzo 2004, l’imprenditore libico Shukri Sahil, assieme ad alcuni amici, decise di provare a istituire un’organizzazione per i diritti umani in Libia e a tal scopo avviò una serie di consultanzioni informali con amici e contatti che aveva in Libia. I suoi amici lo informarono che avrebbe dovuto ottenere un’autorizzazione dall’Ufficio per la sicurezza esterna, così che egli chiese un incontro con il suddetto ufficio nel maggio 2004. Shukri Sahil ha raccontato a Human Rights Watch che il funzionario della sicurezza con cui parlò reagì con molta rabbia quando gli disse che intendeva istituire un’organizzazione, accusandolo di avere “ambizioni politiche” e di essere una “persona molto pericolosa”. Shukri Sahil ritiene che ogni successiva vessazione da lui subita da parte della sicurezza di Stato fosse collegata a questo iniziale episodio.[80]

Le forze di sicurezza arrestarono Shukri Sahil il 20 maggio 2004 e lo trattennero in isolamento presso il carcere della sicurezza esterna per 13 mesi. Egli ha raccontato a Human Rights Watch che gli agenti della sicurezza lo torturarono ogni giorno per due settimane ed ogni due-tre giorni durante le successive tre settimane. Essi lo picchiarono sul corpo, in special modo sotto le piante dei piedi (falaka), e lo fecero aggredire da un cane. Nel marzo 2005 egli comparve per la prima volta davanti a un giudice il quale lo incriminò per violazione della legge 71, che vieta qualsiasi attività di gruppo basata su un’ideologia politica contraria ai principi della Rivoluzione al-Fateh del 1969. Nel giugno 2005, le autorità lo trasferirono nel carcere di Abu Salim, dove fu tenuto in isolamento per due mesi.[81] Il processo a suo carico davanti al Tribunale per la sicurezza di Stato è descritto di seguito, al cap. IX.

Tentativo del 2008 di istituire una organizzazione per i diritti umani

Il tentativo più significativo di fondare un’organizzazione per i diritti umani indipendente risale al febbraio 2008, quando un gruppo di avvocati, giornalisti e altri professionisti libici crearono due organizzazioni non governative che assunsero il nome di Centro per la democrazia ed Associazione per la giustizia e i diritti umani. I loro obiettivi comprendevano la diffusione dei valori democratici e la formulazione di raccomandazioni per avviare riforme legislative al fine di promuovere le attività democratiche e i diritti umani.[82]

Il 17 marzo 2008, i 90 membri fondatori dell’Associazione per la giustizia e i diritti umani inviarono la loro domanda di registrazione al Comitato generale del popolo per le politiche sociali. Il Centro per la democrazia inoltrò la propria domanda al Comitato generale del popolo per le politiche sociali il 4 maggio 2008, e il 25 dello stesso mese la Direzione ONG presso il Comitato generale del popolo per le politiche sociali inviò loro una lettera che confermava l’approvazione della richiesta.[83] Il 4 maggio Libya Al Youm riportò che la Direzione ONG aveva inviato l’elenco dei membri di entrambe le organizzazioni all’Agenzia per la sicurezza interna[84] e il 19 maggio i membri fondatori annunciarono che l’Agenzia aveva disposto la rimozione da tale elenco di 12 membri dell’Associazione per la giustizia prima di autorizzare la fondazione della stessa. Tra i 12 membri figuravano ex prigionieri politici, tra cui Gum’a Atiga, avvocato ed ex segretario della Società per i diritti umani presso la Fondazione Gheddafi. Di fatto, la legge 19 non prescrive un ruolo nell’iter di approvazione riservato all’Agenzia per la sicurezza interna, affermando all’art.6 che “la creazione di un’associazione a livello nazionale avviene previa delibera del Comitato generale del popolo”. Il capo della Sicurezza interna, colonnello Al-Tohamy Khaled, negò che la sua agenzia fosse mai intervenuta, dichiarando a Human Rights Watch che “per legge l’Agenzia per la sicurezza interna non ha il diritto di intervenire e di richiedere la rimozione di determinati membri ma ha il dovere di indagare la storia di ciascun individuo e di controllare se abbia dei precedenti”.[85]

Il 10 giugno, la Direzione ONG presso il Comitato generale del popolo per le politiche sociali ha revocato la sua iniziale autorizzazione e ha ufficialmente respinto le domande di registrazione del Centro per la democrazia e dell’Associazione per la giustizia e i diritti umani, un provvedimento che gli avvocati hanno attribuito all’intervento dell’Agenzia per la sicurezza interna.[86]

L’avvocato Dhaw al-Mansuri, presidente del Centro per la democrazia, ha affermato di essere stato fermato per strada il 30 giugno 2008, attorno alle ore 20, nei pressi del suo ufficio, da uomini in borghese, e di essere stato costretto a salire su un’auto, bendato, ammanettato e condotto fuori città in una località sconosciuta. Fu percosso e gli fu intimato di recedere dal tentativo di fondare il Centro per la democrazia. Il 6 luglio 2008, l’Ordine degli avvocati di Tripoli tenne una riunione di emergenza per discutere del rapimento.[87] L’Ordine inviò una lettera aperta al Segretario alla giustizia ed a Saif al-Islam al-Gheddafi, in qualità di presidente della Fondazione Gheddafi, protestando per l’episodio e chiedendo un’inchiesta. Il capo della Sicurezza interna, Al-Tohamy Khaled, ha riferito a Human Rights Watch che sull’episodio stava procedendo un’inchiesta. Tuttavia, egli ha dichiarato di non credere che il fatto fosse realmente accaduto, aggiungendo: “Chi è questo Dhaw di cui lo Stato si starebbe occupando? Non penso che la sicurezza farebbe una cosa del genere”.[88]

Poco dopo l’episodio, il gruppo abbandonò il tentativo di fondare le due nuove organizzazioni. Come ha detto un avvocato, “quella porta, che era stata aperta dopo il discorso di Saif al-Islam dell’agosto 2006, ora è chiusa”.[89]

Obblighi internazionali della Libia

Quale Stato parte alla Carta africana dei diritti umani e dei popoli, la Libia ha l’obbligo di garantire il diritto alla libera associazione, sancito dall’art.10. Questo si riflette anche nell’art.22 dell’ICCPR che stabilisce inoltre che qualsiasi restrizione deve essere “necessaria a una società democratica”. Le restrizioni “necessarie” devono anche essere proporzionate: vale a dire, attentamente bilanciate contro la motivazione specifica per la quale tale restrizione è stata creata.[90] Il Comitato diritti umani delle Nazioni Unite ha ripetutamente sottolineato l’importanza del principio di proporzionalità.[91] Nell’applicare una restrizione, un governo non dovrebbe utilizzare mezzi più restrittivi di quanto non sia assolutamente richiesto. La Commissione africana ha stabilito che “la libertà di associazione è enunciata in quanto diritto individuale ed è in primo luogo e soprattutto un dovere dello Stato astenersi dall’interferire con la formazione delle associazioni”.[92]

Questi obblighi internazionali si riflettono anche nell’art.6 della Grande carta verde dei diritti umani che afferma che i cittadini libici sono liberi di formare “associazioni, sindacati e leghe che difendano i loro diritti professionali”, sebbene tale enunciato non faccia riferimento alle associazioni che si occupano di tematiche sociali o politiche. Secondo l’art.9 della legge sul rafforzamento della libertà, “i cittadini sono liberi di fondare e di far parte di sindacati, ordini e federazioni professionali nonché di associazioni di beneficenza allo scopo di difendere i propri interessi o di raggiungere gli obiettivi legittimi per i quali tali istituzioni sono state create”.

VII. Violazioni da parte dell’Agenzia per la sicurezza interna

“Quello che voglio è sapere che cosa è accaduto a mio padre. Se è vivo, desidero poter parlargli e vederlo. Se ha infranto la legge, dovrebbe essere processato e avere la possibilità di difendersi. E se è morto, allora voglio sapere come, dove e quando è successo. Voglio una data, un resoconto dettagliato e sapere dove si trova il suo corpo”.[93]
—Hisham Matar, luglio 2006.

In Libia, la struttura, il mandato e la linea di comando delle varie agenzie per la sicurezza rimangono elementi poco chiari, in primo luogo perché queste istituzioni detengono un elevato grado di potere politico non ufficiale, oltre ad operare senza controllo disciplinare o trasparenza. L’Agenzia per la sicurezza interna e l’Agenzia per la sicurezza esterna dipendono ufficialmente dall’autorità del Comitato generale del popolo per la pubblica sicurezza.

Le uniche statistiche disponibili sulla popolazione carceraria in Libia risalgono al giugno 2007, alla cui data vi erano 12.748 prigionieri suddivisi in 36 istituti di pena.[94] Queste carceri sono sotto la giurisdizione del Comitato generale per la giustizia. Tuttavia, le due più famigerate, Abu Salim ed Ain Zara, note per detenere prigionieri politici senza processo per anni, non dipendono dal Comitato generale del popolo per la giustizia ma dall’Agenzia per la sicurezza interna.[95]

Poiché le autorità non rivelano informazioni, poco si sa sulla popolazione carceraria di Abu Salim ed Ain Zara. Le uniche informazioni provengono da ex prigionieri che spesso sono troppo intimiditi per parlare delle loro esperienze. Nel corso di una visita condotta in Libia nell’aprile 2009, Human Rights Watch ha visitato il carcere di Abu Salim a Tripoli e ha potuto accedere all’infermeria del carcere.[96] Quando l’organizzazione si è incontrata con il vice direttore della Sicurezza interna incaricato dell’istituto e gli ha chiesto della popolazione carceraria, questi ha risposto di “non sapere” quanti fossero i reclusi di Abu Salim perché “il loro numero cambia ogni giorno”.[97] Quando Human Rights Watch lo ha incalzato chiedendogli quanti pasti vengono serviti quotidianamente, egli ha risposto “prepariamo sempre dei pasti in più così ce n’è sempre più che a sufficienza”.[98] La sua risposta è tipica della mancanza di trasparenza che caratterizza l’Agenzia per la sicurezza interna.

Le carceri libiche continuano a detenere centinaia di prigionieri politici che non hanno utilizzato mezzi violenti né hanno promosso la violenza. Molti dei reclusi di Abu Salim appartengono a gruppi islamisti. Sebbene alcuni abbiano invocato la violenza, molti non lo hanno fatto e nessuno ha avuto un processo equo. Negli ultimi due anni, le autorità libiche hanno rilasciato 238 prigionieri, 40 a marzo e più recentemente 88 a ottobre. Complessivamente, 136 di questi prigionieri erano membri del Gruppo combattente islamico libico, incarcerati al termine di processi iniqui, celebrati davanti al Tribunale del popolo o al Tribunale per la sicurezza di Stato, al di fuori delle debite procedure, per “appartenenza a un’organizzazione illegale” (v. cap.IX).

Detenzione arbitraria

Centinaia di prigionieri sono detenuti dall’Agenzia per la sicurezza interna senza alcuna base legale. Negli ultimi anni, si è sviluppato un confronto senza precedenti tra il Comitato generale del popolo per la giustizia e il Comitato generale del popolo per la pubblica sicurezza riguardo alla mancata attuazione delle decisioni dei tribunali libici da parte dell’Agenzia per la sicurezza interna. Quest’ultima continua a rifiutarsi di rilasciare dalle carceri di Abu Salim ed Ain Zara prigionieri che, o sono stati prosciolti dai tribunali, oppure hanno già scontato i termini della condanna comminatagli dai tribunali. Il Segretario libico alla giustizia Mostafa Abdeljalil ha confermato a Human Rights Watch che “almeno 200” prigionieri che erano stati o prosciolti o che avevano scontato la loro pena continuavano ad essere reclusi ad Abu Salim ed Ain Zara.[99] Il 2 novembre 2009, nel corso di un’intervista ad Oea, il Segretario alla giustizia Mostafa Abdeljalil ha affermato che vi erano “più di 500 prigionieri che erano stati prosciolti dai tribunali nel giugno 2008 e che dovevano essere ancora rilasciati” e ha criticato i servizi di sicurezza per non aver rispettato le decisioni dei tribunali.[100]

Il Segretario Abdeljalil ha riferito a Human Rights Watch che “queste carceri sono affiliate alla Sicurezza interna e il ministero della Giustizia non ha alcuna giurisdizione su di esse. L’Ufficio del Procuratore generale ha disposto il loro rilascio ma ciò non è avvenuto [...] il Procuratore generale non può avviare un’indagine sulla loro detenzione continuata”.[101] Il capo dell’Agenzia per la sicurezza interna, Al-Tohamy Khaled, ha negato l’esistenza di questi prigionieri. Egli ha riferito a Human Rights Watch che le sentenze di proscioglimento emesse in favore di alcuni prigionieri erano ora in corso d’appello presso l’Alta Corte perché il pubblico ministero aveva presentato nuovi capi d’imputazione a loro carico.[102]

Human Rights Watch ha ottenuto la copia di una lettera, a firma del Segretario alla giustizia e datata 26 giugno 2008, fatta trapelare e indirizzata al Segretario generale (primo ministro), che è stata anche pubblicata su vari siti web libici. Nella lettera si afferma che del gruppo di 189 imputati del caso riguardante il Gruppo combattente islamico libico, caso giudiziario n.120 del 1998, tutti si trovavano in carcere dal 1995:

La corte ha sentenziato il 16 giugno 2008 la condanna a morte per fucilazione per 19 di loro, l’ergastolo per 50, pene detentive variabili dai 10 ai 15 anni per altri 15, e ha assolto con formula piena 130 imputati. Sulla base di questa motivazione il Procuratore per la sicurezza di Stato ha disposto il rilascio di tutti gli imputati giudicati innocenti e di quanti avevano già scontato i termini della loro sentenza, ma a tutt’oggi la Sicurezza interna non ha dato attuazione a questa decisione.[103]

La pubblicazione di questa posizione del Segretario alla giustizia pare aver incoraggiato i parenti dei prigionieri a chiedere apertamente il loro rilascio. Il 14 giugno 2009, un articolo di Al Jazeera citava Saleh al Bakkoush, padre del prigioniero Anis Al Bakkoush,[104] che chiedeva il rilascio del figlio, incarcerato dal 1999 e successivamente assolto con formula piena da un tribunale, il quale continua ad essere detenuto nel carcere di Ain Zara. Un altro familiare ha raccontato a Human Rights Watch “mio fratello è stato giudicato innocente nel 2005 dal Tribunale specializzato di Tripoli ma si trova ancora ad Abu Salim. Continuiamo a sperare che venga rilasciato”.[105]

Di seguito sono riportati alcuni esempi di prigionieri che si trovano arbitrariamente detenuti e dei cui casi Human Rights Watch è riuscita ad ottenere delle informazioni. Data la mancanza di trasparenza e la segretezza che caratterizza il sistema, è estremamente difficile ottenere informazioni dettagliate riguardanti i singoli casi.

Mahmoud Boushima

Mahmoud Boushima, un cittadino libico nato nel 1962, ritornò in Libia il 17 luglio 2005 dopo aver ricevuto rassicurazioni da parte della Fondazione Gheddafi che agenti della sicurezza libici non lo avrebbero arrestato al suo rientro in patria. Egli viveva nel Regno Unito con la sua famiglia dal 1981 e aveva passaporto britannico. Il 28 luglio 2005, le forze della Sicurezza interna lo arrestarono e lo incarcerarono ad Abu Salim. Il Procuratore per la sicurezza di Stato quindi lo incriminò per appartenenza a un’organizzazione illegale, nella fattispecie il Gruppo combattente islamico libico, ai sensi dell’art.206 del codice penale e degli artt.2,3 e 4 della legge 71. Il 18 marzo 2006, il tribunale specializzato d’appello (Mahkama Takhasusiyya) lo prosciolse dal caso giudiziario 411/2005. Il pubblico ministero presentò ricorso contro la decisione il 22 aprile 2006 e il 20 febbbraio 2007 la corte sentenziò ancora una volta in favore di Boushima. Il suo caso approdò alla fine davanti alla Corte Suprema, la quale emise sentenza in suo favore il 30 marzo 2008. Egli continua ad essere recluso nel carcere di Abu Salim.

Suo fratello, che risiede in Europa, ha raccontato a Human Rights Watch che Boushima versa in precarie condizioni di salute, esendo affetto da asma, epatite B e depressione. Per undici mesi ai familiari è stato negato il permesso di recargli visita. Tra dicembre 2006 e ottobre 2007 i secondini li hanno cacciati dai cancelli del carcere senza alcuna spiegazione.

Abdellatif Al-Raqoubi

Il 19 giugno 2006, funzionari della Sicurezza interna arrestarono Abdellatif al-Raqoubi, nato nel 1975, mentre si recava al lavoro a Sabha. La sua famiglia afferma che da quasi un anno non ha più sue notizie né è a conoscenza di dove sia detenuto. Nel maggio 2007, le autorità locali comunicarono alla famiglia che egli era stato arrestato dai Combattenti-Heresy (zandaqa), il reparto della sicurezza che si occupa di sospetti islamisti e che si trovava nel carcere di Abu Salim.

Al-Raqoubi fu condotto per la prima davanti a un tribunale volta il 15 maggio 2007 per rispondere delle accuse di oltraggio al leader Mu’ammar al-Gheddafi e possesso di armi. Le prove a carico di al-Raqoubi erano basate sulle confessioni di altri due imputati, i quali in seguito raccontarono al giudice di averle firmate sotto tortura. Il 18 giugno 2008, il Tribunale per la sicurezza di Stato lo prosciolse assieme ad altri 19 imputati del caso n.314. la sicurezza di Stato rilasciato al-Raqoubi  del carcere di Abu Salim il 15 ottobre 2009. .

La continua detenzione di questi prigionieri costituisce una violazione dell’art.9 dell’ICCPR che sancisce che “nessuno può essere privato della propria libertà se non per i motivi e secondo le procedure stabilite dalla legge”, oltre che dell’art.6 della Carta africana. Il mancato rilascio viola anche l’art.434 del codice penale libico relativo alla privazione della libertà.

La detenzione continuata di questi prigionieri in assenza di un’ordinanza di tribunale che l’autorizzi costituisce una detenzione arbitraria e si configura quale violazione dell’art.9 dell’ICCPR. Essa costituisce inoltre una violazione dell’art.434 del codice penale libico relativo alla privazione della libertà.

Prigionieri politici

“Non abbiamo prigionieri di coscienza, abbiamo soltanto dei terroristi”.
—Il capo della Sicurezza interna, colonnello Al-Tohamy Khaled, 25 aprile 2009.

Le carceri libiche continuano a detenere centinaia di prigionieri, condannati al termine di processi iniqui per l’espressione delle proprie opinioni. Il codice penale libico e la legge 71 criminalizzano le attività tutelate dalla libertà di espressione e dalla libertà di associazione ai sensi del diritto internazionale. Agli inizi di quest’anno, la Libia ha rilasciato l’ultimo gruppo di 14 prigionieri arrestati per aver organizzato una manifestazione.[106] Human Rights Watch ha scritto alle autorità libiche chiedendo quanti fossero le persone ancora recluse a seguito di tali provvedimenti ma alla data di pubblicazione del presente rapporto non aveva ancora ricevuto una risposta. A causa della generale mancanza di trasparenza che circonda le carceri controllate dall’Agenzia per la sicurezza interna, nonché della pratica della detenzione in incommunicado e della sparizione forzata, è impossibile stabilire quanti siano i prigionieri politici che continuano a essere reclusi in Libia. I due casi descritti qui sotto sono tipici della politica adottata dalle autorità libiche nei confronti di qualsiasi espressione del dissenso. Il caso di Fathi al-Jahmi, tra i prigionieri politici maggiormente di spicco, è trattato di seguito ed esemplifica la crudeltà intrinseca della detenzione continuata di questi prigionieri.

Abdelnasser al-Rabbasi

“Sono stato incarcerato per questioni di cui ora parla il Leader stesso, ovvero per aver criticato la situazione nel mio Paese. Ora anch’egli critica la corruzione e la situazione economica. Pertanto non so per che cosa sono stato incarcerato. Non portavo la pistola, usavo solo una penna”.

Abdelnasser al-Rabbasi, 43 anni, lavorava come operatore sociale a Bani Walid, oltre ad essere uno scrittore freelance. Un giorno inviò un breve racconto alla redazione di Arab Times, un quotidiano con sede negli Stati Uniti, intitolato “Caos, corruzione e suicidio della Mente della Libia” (Al Fawda Al Fawda, Al Fasad Al Fasad, wa Entihar Al Aql fi Libya maa Qeyam Okhra), un gioco di parole sul titolo di un pezzo scritto dal colonnello Mu’ammar al-Gheddafi. Il 3 gennaio 2003, agenti della Sicurezza interna in borghese lo arrestarono nella sua abitazione e lo trattennero in incommunicado per sei mesi.

Human Rights Watch ha intervistato al-Rabbasi nel carcere di Abu Salim il 27 aprile 2009. Malgrado il fatto che un secondino continuasse a origliare l’intervista, al-Rabbasi ha coraggiosamente raccontato a Human Rights Watch la sua storia:

Scrivevo della corruzione e dei diritti umani. Scrissi in un racconto della corruzione in campo economico. Il 18 agosto del 2003 fui condannato a 15 anni di carcere. Avrei anche potuto avere una pistola o essermi fatto saltare in aria con dell’esplosivo. Non avevo un avvocato, niente di niente. Non avevo niente da nascondere. Non faccio parte di un gruppo o qualcosa del genere. Tutto quello che avevo a casa erano dei documenti. Non ho niente in contrario se rendete pubblici questi fatti. Non ho nulla da perdere.

Al Karana, un’organizzazione per i diritti umani con sede a Ginevra, ha presentato il suo caso al Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria, che nel 2005 rilevò che “la privazione della libertà del sig. Abdenacer [sic] Younes Meftah Al Rabassi è arbitraria, in quanto contraria agli artt.14 e 19 del Patto internazionale sui diritti civili e politici”.[107]

Il 28 luglio 2003, il Tribunale del popolo, un’istituzione purtroppo nota per celebrare processi di natura politica, condannò al-Rabbasi a 15 anni di carcere per “aver disonorato la guida della rivoluzione” (Mu’ammar al-Gheddafi), ai sensi dell’art.164 del codice penale. Il Congresso generale del popolo aveva abolito il Tribunale del popolo il 12 gennaio 2005 e funzionari libici della Giustizia avevano affermato che all’epoca i casi in corso di esame erano stati deferiti ai tribunali penali ordinari.[108] Human Rights Watch ha richiesto al governo di riprocessare tutti i casi giudicati dal Tribunale del popolo a causa delle sistematiche violazioni in materia di equità processuale da parte dello stesso, come i lunghi periodi di detenzione pre-processuale e le restrizioni di accesso a un avvocato.[109] Alla data di settembre 2009, nessun tribunale aveva riesaminato il caso di Abdelnasser al-Rabbasi.

Mahmud Matar

Funzionari della sicurezza arrestarono Mahmud Matar, assieme ai suoi due nipoti Saleh e Ali Abdel Eshnaqet, nel marzo 1990 e li rinchiusero nel carcere di Abu Salim. Per i primi due anni, le autorità carcerarie confinarono Matar in isolamento. Dopo oltre 11 anni dal suo arresto, il Pubblico ministero del popolo lo incriminò assieme ad altre nove persone ai sensi della legge 71 per appartenenza a un’organizzazione illegale i cui principi sono contrari alla rivoluzione Fateh e per possesso di armi ai sensi del codice penale. Il 5 febbraio 2002, il Tribunale militare permanete condannò Matar, all’ergastolo assieme a Saleh e Ali Ali Ashneqat e Hamed Said Khanfoor, assolse un altro imputato e condannò gli altri cinque a pene detentive variabili dai 10 ai 12 anni. Il processo fu guastato da una serie di irregolarità processuali. Durante il procedimento, gli avvocati della difesa argomentarono che le confessioni ammesse agli atti erano state estorte sotto tortura e che dovevano essere cassate. In aggiunta a ciò, l’accesso degli imputati ai loro avvocati era stato oggetto di gravi restrizioni.

Mahmud Matar si trova ancora detenuto nel carcere di Abu Salim. Egli soffre di diabete, ipertensione, una grave forma di cataratta e negli ultimi cinque mesi ha sviluppato un’infiammazione alla prostata, ma le autorità carcerarie di Abu Salim non gli hanno permesso di essere visitato da un medico nonostante ripetute richieste.

Fathi al-Jahmi

Il 20 maggio 2009, il dissidente maggiormente di spicco in Libia, Fathi al-Jahmi, è morto all’ospedale giordano dopo sei anni e mezzo di detenzione. Egli era rimasto recluso in Libia, sotto il controllo dell’Agenzia per la sicurezza interna, fino a due settimane prima della sua morte.

Le forze della Sicurezza interna arrestarono al-Jahmi, ingegnere ed ex governatore provinciale, il 19 ottobre 2002, dopo che questi aveva criticato il governo e il leader libico, Mu’ammar al-Gheddafi, in merito alle libere elezioni in Libia, la libera stampa, e il rilascio di prigionieri politici. Un tribunale lo condannò a cinque anni di carcere ai sensi degli artt.166 e 167 del codice penale: tentato rovesciamento del governo; oltraggio a Mu’ammar al-Gheddafi; e contatti con autorità straniere. Il 10 marzo 2004, un tribunale d’appello lo condannò a un anno di carcere con sospensione della pena e il 12 marzo ne dispose il rilascio. Lo stesso giorno, al-Jahmi rilasciò un’intervista al canale televisivo a capitale statunitense al-Hurra, in cui egli ribadì il suo appello per un processo di democratizzazione della Libia. Quattro giorni dopo, egli rilasciò un’altra intervista al canale televisivo, in cui definiva al-Gheddafi un dittatore e affermava: “La sola cosa che è capace di fare è darci un tappeto per pregare e chiederci di inchinarci davanti alla sua immagine e adorarla”. Due settimane dopo, il 26 marzo 2004, agenti della sicurezza arrestarono al-Jahmi una seconda volta, e lo trattennero in una struttura speciale sulla costa, nei pressi di Tripoli.

Human Rights Watch visitò al-Jahmi nel maggio 2005 presso la struttura speciale di Tripoli.  Egli affermò di dover rispondere di tre capi di imputazione ai sensi degli artt.166 e 167 del codice penale: tentato rovesciamento del governo; oltraggio a Mu’ammar al-Gheddafi; e contatti con autorità straniere. Il terzo capo d’imputazione, disse, scaturiva da conversazioni che aveva avuto con un diplomatico statunitense a Tripoli. Nel settembre 2006, un tribunale confinò al-Jahmi in un ospedale psichiatrico, dichiarando che era “mentalmente instabile”. Durante il periodo di poco meno di un anno trascorso da al-Jahmi presso l’ospedale psichiatrico, le sue condizioni di salute si deteriorarono rapidamente, rendendone necessario il trasferimento al Centro medico di Tripoli nel luglio 2007.

I ricercatori di Human Rights Watch hanno visitato al-Jahmi presso il Centro medico di Tripoli il 25 e 26 aprile 2009. La delegazione constatò il grave deterioramento delle sue condizioni rispetto alla sua ultima visita del marzo 2008 nello stesso Centro: egli appariva debole ed emaciato, riusciva a parlare a malapena, e non era in grado di sollevare le braccia o la testa. Quando i ricercatori gli chiesero se era libero di andarsene, egli disse: “No”. Quando gli chiesero se voleva tornare a casa, disse: “Sì”. Invece, Fathi al-Jahmi, di 68 anni, entrò in coma il 3 maggio e due giorni dopo fu trasferito in volo presso il Centro medico di Amman, accompagnato da suo figlio. Fu sottoposto a intervento chirurgico il 7 maggio per cause ignote 13 giorni più tardi. Il 21 maggio 2009, suo figlio dispose il volo di rientro del suo corpo in Libia, dove fu sepolto dai familiari.

Funzionari libici annunciarono nel marzo 2008 che al-Jahmi era stato liberato e che poteva lasciare l’ospedale in ogni momento ma Human Rights Watch ha avuto conferma che egli rimase detenuto per tutto il tempo presso il Centro medico di Tripoli. Quando i ricercatori dell’organizzazione lo visitarono nel marzo 2008, essi osservarono la presenza di guardie davanti all’ospedale e che né egli né la sua famiglia potevano prendere decisioni riguardo alle cure mediche, a causa delle reali o percepite pressioni esercitate dal governo. Nell’aprile 2009, quattro uomini in borghese si trovavano nella stanza a fianco della sua camera; al-Jahmi disse che erano soliti stazionare lì. Agenti della sicurezza controllavano l’accesso dei visitatori. Le autorità libiche avevano dunque la piena responsabilità del suo stato.

Human Rights Watch ha ripetutamente richiesto l’immediato e incondizionato rilascio di al-Jahmi, in quanto prigioniero di coscienza incarcerato per la pacifica espressione delle sue opinioni. Sebbene al-Jahmi non sia morto in detenzione, la sua carcerazione ha contribuito al deterioramento delle sue condizioni di salute.

Sparizione

“La Sicurezza interna è una spada di Damocle che pende sulla testa del popolo libico. Voglio soltanto la verità”.[110]
— Il familiare di un prigioniero libico.

La pratica della sparizione forzata attuata dalla Sicurezza interna libica continua a persistere. Negli ultimi decenni, agenti della Sicurezza interna hanno regolarmente detenuto persone in incommunicado presso carceri o uffici della Sicurezza interna. Associazioni libiche hanno calcolato che i funzionari della sicurezza libica abbiano fatto sparire migliaia di persone negli ultimi trent’anni.[111] Centinaia di casi di sparizioni sono stati ufficialmente riconosciuti quest’anno nel contesto del dibattito sul massacro del carcere di Abu Salim del 1996, trattato al cap.VIII. Di molti altri, tuttavia, non si è parlato e le famiglie degli scomparsi continuano a soffrire senza poter sapere.

Accade comunemente che funzionari della sicurezza detengano le persone arrestate in località segrete senza che queste possano accedere alle loro famiglie o ad un avvocato, anche nel caso in cui vengano successivamente rilasciate dopo qualche mese. Molte, tuttavia, sono detenute da svariati anni ed alcune da oltre un decennio. Ad esempio, Mohamed Milad El Seheili ha raccontato a Human Rights Watch come le forze di sicurezza libiche vennero a casa sua la notte del 18 novembre 1998 e lo arrestarono. Essi arrestarono anche i suoi due fratelli, Omar e Boubakr, che all’epoca si trovavano in appartamenti differenti. Mohamed Milad Al Seheili ha raccontato a Human Rights Watch di non essere mai stato incriminato o informato dei motivi per cui era stato arrestato. Egli fu rilasciato nel marzo 1999. In ogni caso, a tutt’oggi Mohamed e la sua famiglia non sono riusciti ad ottenere alcuna informazione sui suoi due fratelli e non sanno dove si trovano né che ne è stato di loro.[112]

Quelli che seguono sono alcuni dei casi più emblematici di sparizione rimasti irrisolti:

Jaballa Hamed Matar e Izzat al-Megaryef

Gli esponenti di spicco dell’opposizione Jaballa Hamed Matar e Izzat al-Megaryef scomparvero al Cairo il 13 marzo 1990. Entrambi membri del Fronte nazionale di salvezza della Libia, essi avevano cercato rifugio al Cairo in fuga dalla politica di assassinii mirati lanciata da Gheddafi nei confronti di quanti si dichiaravano suoi oppositori.

Hisham Matar ha raccontato a Human Rights Watch che per due anni dopo la scomparsa di suo padre al Cairo nel marzo 1990, la sicurezza egiziana aveva detto alla famiglia che Jaballa Hamed Matar si trovava in Egitto. Nel 1993, tuttavia, un amico di suo padre portò alla famiglia al Cairo una lettera con la grafia di suo padre. La lettera portava la data del 1992 e confermava che Jaballa Hamed Matar si trovava incarcerato nella prigione di Abu Salim e che funzionari della sicurezza egiziana lo avevano consegnato alla sicurezza libica nel marzo 1990. Una seconda lettera datata 1995 giunse alla famiglia nel 1996. Nel 2002, un prigioniero che era appena arrivato nel carcere di Abu Salim inviò un messaggio alla famiglia di Matar, in cui affermava di aver visto Jaballa Hamed Matar in un carcere di massima sicurezza di Tripoli lo stesso anno.[113]

La famiglia Matar non ha mai ricevuto una risposta da parte delle autorità libiche in merito all’interrogativo di dove si trovasse il padre, malgrado le lettere inviate nell’arco degli anni in cui chiedevano informazioni. In un editoriale autobiografico pubblicato da The Independent, Hisham Matar scriveva: “La vita cerca di fornirci degli insegnamenti riguardo a una perdita: che si può trovare la pace persino nella perdita estrema della morte. E tuttavia, la mia perdita non trova pace. Mio padre non è incarcerato, e non è neppure libero; non è morto, e non è neppure vivo. La mia perdita si autorigenera, insistente e mai sazia”.[114]

Youcif al-Megaryef, figlio di Izzat al-Megaryef, il quale ora risiede negli Stati Uniti, ha raccontato a Human Rights Watch che “il 13 marzo 1990 l’ufficiale dell’intelligence egiziana colonnello Mohamad Hassan si presentò a casa nostra dicendo a mio papà di seguirlo per un controllo di routine. Mio padre se ne andò con lui, e da allora non l’abbiamo più rivisto”.[115] La famiglia ricevette in seguito alcune lettere scritte nel 1993 e una registrazione audio di Izzat in cui affermava che agenti della sicurezza egiziana lo avevano interrogato e quindi consegnato all’intelligence libica il 14 marzo 1990. Funzionari della sicurezza libica prelevarono sia Izzat al-Megaryef che Jaballa Matar e li incarcerarono ad Abu Salim. Ex prigionieri di Abu Salim hanno raccontato alla famiglia al-Megaryef di essere stati trattenuti in incommunicado assieme a Izzat al-Megaryef. Le ultime notizie su di lui ricevute dalla famiglia risalgono all’aprile 1996. Le autorità libiche non hanno mai risposto alle richieste di informazioni della famiglia riguardo al destino di Izzat al-Megaryef.

Mansur al-Kikhya

Il 10 dicembre 1993, l’oppositore libico Mansur al-Kikhya si trovava al Cairo per un incontro dell’Organizzazione araba per i diritti umani di cui era membro direttivo. Quel giorno egli scomparve al Cairo e i suoi amici ritengono che funzionari della sicurezza egiziana lo abbiano consegnato alla controparte libica. Già rappresentante libico presso le Nazioni Unite e successivamente ministro degli Esteri negli anni Settanta, al-Kikhya lasciò la Libia nel 1980 per unirsi all’opposizione libica all’estero. Nel febbraio 2009, il sito web libico Al Manara ha riportato che il Tribunale di Bengasi Nord aveva tenuto la prima udienza di una causa intentata dalla famiglia di al-Kikhya in merito a questioni inerenti eredità e documenti. Era la prima volta che un tribunale libico si occupava della sparizione di un dissidente di alto profilo.

Imam Sayyed Musa Sadr

Uno dei casi di sparizione più clamorosi è quello del religioso libanese Imam Sayyed Musa Sadr. Il 25 agosto 1978, Imam Sayyed Musa Sadr giunse in Libia accompagnato da Sheikh Mohamad Yacoub e dal giornalista Abbas Badreddine per un incontro con il colonnello Gheddafi. Il 31 agosto, i tre uscirono dal loro albergo di Tripoli per recarsi all’incontro e da allora non furono più visti. Il colonnello Gheddafi negò che l’incontro abbia mai avuto luogo e le autorità libiche dichiararono che i tre avevano lasciato la Libia alla volta di Roma. La Libia si è in seguito rifiutata di incontrare un gruppo investigativo.

Decesso in custodia

Ismail Ibrahim Al Khazmi

Agenti della Sicurezza interna arrestarono Ismail Ibrahim Al Khazmi, nato nel 1976, nella sua abitazione nel giugno 2006. Nonostante i molti tentativi, la sua famiglia non è mai riuscita ad ottenere informazioni su di lui e al-Khazmi risulta scomparso. Nel 2006 Al-Khazmi morì sotto tortura. Il 1° maggio 2007, la sua famiglia ricevette un referto medico in cui si affermava che egli era deceduto per insufficienza renale. A metà marzo 2009 alla famiglia fu chiesto di prelevare il suo corpo ma suo padre si rifiutò di farlo, affermando che voleva un’autopsia e un’indagine appropriata sulla morte del figlio.[116]

Ai sensi dell’art.2(3), la Libia ha il dovere di indagare e perseguire tutte le violazioni che costituiscono reato, come quelle che negano il diritto alla vita, il diritto alla libertà e alla sicurezza della persona e il diritto al riconoscimento davanti alla legge, che è negato nel caso di sparizione forzata. Il Commento 31 del Comitato diritti umani delle Nazioni Unite afferma che la mancata indagine da parte di uno Stato membro può costituire in sé una violazione separata della Convenzione.[117] In aggiunta a ciò, i Principi delle Nazioni Unite sull’effettiva prevenzione e indagine delle esecuzioni extragiudiziali, arbitrarie e sommarie stabilisce che “tutti i casi sospetti di esecuzioni extragiudiziali, arbitrarie e sommarie dovranno essere indagati in maniera esauriente, tempestiva e imparziale, compresi i casi in cui le denunce da parte dei familiari o altre fonti attendibili suggeriscano il decesso per motivi non naturali nelle sopraccitate circostanze”.[118] La Libia è pertanto obbligata ad adottare misure al fine di prevenire analoghe violazioni in futuro.

VIII. Violazioni gravi e impunità

L’eredità delle violazioni praticate nei decenni passati in Libia è davvero pesante.[119] La maggior parte dei dissidenti libici finiti nel mirino del regime hanno cercato asilo all’estero, benché molti siano gli scomparsi. Il governo libico non ha ancora affrontato le passate violazioni attraverso indagini o perseguimenti giudiziari. Uno degli episodi più bui tra le gravi violazioni dei diritti umani compiute in Libia, dove è divenuto un caso emblematico, è l’uccisione di massa di 1.200 prigionieri avvenuta nel carcere di Abu Salim nel 1996.

 

Le uccisioni di Abu Salim del 1996

Il 28 e 29 giugno 1996 un numero pari a circa 1.200 prigionieri furono uccisi nel carcere di Abu Salim. Questa cifra fu inizialmente resa pubblica da Hussein Al Shafa’i, un ex prigioniero che lavorava nelle cucine di Abu Salim il quale fece il calcolo contando il numero dei pasti che aveva preparato prima e dopo l’episodio.[120] Questa cifra è stata confermata anche dal Segretario libico alla giustizia a Human Rights Watch nell’aprile 2009[121] e in un comunicato stampa della Fondazione Gheddafi del 10 agosto 2009 che pone il numero a 1.167.[122]

Nel giugno 2004 e nuovamente nel giugno 2006, Human Rights Watch intervistò Hussein al-Shafa’i, il già citato ex prigioniero di Abu Salim, ora residente negli Stati Uniti, il quale afferma essere stato testimone delle uccisioni. Benché l’organizzazione non sia stata in grado di verificare in modo indipendente le sue dichiarazioni, molti dettagli combaciano con i resoconti di altri ex prigionieri.

Secondo al-Shafa’i, l’episodio ebbe inizio attorno alle 16.40 del 28 giugno, quando i prigionieri del Blocco 4 sequestrarono un secondino di nome Omar il quale stava portando loro le razioni di cibo. Centinaia di prigionieri dei blocchi 3,5 e 6 fuoriuscirono dalle loro celle. Essi erano arrabbiati riguardo alle restrizioni imposte alle visite delle famiglie e alle precarie condizioni di vita, che erano andate deteriorandosi dopo che alcuni prigionieri erano evasi l’anno precedente. Ecco quello che al-Shafa’i raccontò a Human Rights Watch:

Cinque-sette minuti dopo l’inizio di tutto, i secondini sui tetti spararono sui prigionieri: spararono ai prigionieri che si trovavano all’aperto. Le pallottole fecero 16 o 17 feriti. Il primo a morire fu Mahmoud al-Mesiri. I prigionieri presero in ostaggio due guardie.

Mezz’ora dopo, affermò al-Shafa’i, due alti funzionari della sicurezza, Abdallah Sanussi, sposato con la sorella di al-Gheddafi, e Nasr al-Mabrouk, arrivarono a bordo di un’Audi verde scuro assieme a un contingente del personale di sicurezza. Sanussi ordinò di interrompere il fuoco e disse ai prigionieri di nominare quattro rappresentanti per condurre delle trattative. I prigionieri scelsero Muhammad al-Juweili, Muhammad Ghlayou, Miftah al-Dawadi e Muhammad Bosadra.

Secondo al-Shafa’i, il quale affermò di aver osservato e origliato i negoziati dalle cucine, i prigionieri fecero richiesta ad al-Sanussi di avere dei vestiti puliti, una ricreazione all’aperto, cure mediche migliori, le visite dei propri familiari, e il diritto a veder esaminati i loro casi giudiziari davanti a un tribunale; molti dei prigionieri erano in carcere senza processo. Al-Sanussi disse che avrebbe affrontato la questione delle condizioni fisiche, ma che i prigionieri dovevano rientrare nelle loro celle e rilasciare i due ostaggi. I prigionieri acconsentirono e rilasciarono una guardia di nome Atiya, ma l’altro secondino di nome Omar era già morto.

Il personale della sicurezza raccolse i corpi degli uccisi e mandò in infermeria i feriti. Circa altri 120 prigionieri malati furono fatto salire a bordo di tre autobus, apparentemente per andare in ospedale.

Stando al racconto di al-Shafa’i, egli vide gli autobus portare i prigionieri sul retro del carcere.

All’incirca alle 5 del mattino del 29 giugno, le forze di sicurezza spostarono alcuni dei prigionieri dalle ali civili a quelle militari del carcere. Alle 9 avevano fatto entrare centinaia di prigionieri dei blocchi 1,3,4,5 e 6 in cortili differenti dai loro. Essi spostarono i prigionieri ordinari del blocco 2 nell’ala militare facendo rimanere i prigionieri dei blocchi 7 e 8, quelli delle celle singole, dentro. Al-Shafa’i, il quale in quel momento si trovava dietro l’edificio dell’amministrazione con altri lavoranti delle cucine, raccontò a Human Rights Watch ciò che accadde dopo:

“Alle 11.00 fu lanciata una granata in uno dei cortili. Non riuscii a vedere chi l’aveva gettata ma sono sicuro che era una granata. Sentii una deflagrazione e subito dopo ebbe inizio una martellante sassaiola di colpi sparati da sopra i tetti sparati con armi pesanti e kalashnikov. La sparatoria continuò dalle 11.00 fino alle 13.35”.

E proseguì:

Non riuscivo a vedere i prigionieri colpiti, ma potevo vedere quelli che sparavano. Si trattava di una unità speciale e portavano cappelli militari color kaki. Sei impiegavano kalashnikov. Li vidi – almeno sei uomini – sui tetti dei blocchi delle celle. Vestivano uniformi beige e kaki e portavano una bandana verde, una specie di turbante.

Attorno alle 14.00, le forze usarono delle pistole per “finire quelli che non erano ancora morti”.

Circa alle 11.00 del giorno successivo, il 30 giugno, le forze di sicurezza portarono via i corpi dei morti con delle carriole. Essi gettarono i corpi in trincee, profonde dai 2 ai 3 metri, di un metro di ampiezza e lunghe un centinaio di metri, che erano state scavate per la costruzione di un nuovo muro. “Le guardie carcerarie mi chiesero di lavare gli orologi che erano stati presi dai prigionieri morti e che erano sporchi di sangue”, disse al-Shafai’i.

Un familiare di un prigioniero di Abu Salim che era morto nell’episodio raccontò a Human Rights Watch che un ex recluso che all’epoca si trovava in un’altra ala del carcere gli aveva detto:

Lui ed altri andarono nelle celle degli uomini che si erano rifiutati di spostarsi. Disse che avevano trovato capelli, pelle e sangue di persone schizzati sui muri. Videro un pezzo di mandibola di un uomo sul pavimento. Sebbene avessero ripulito dei corpi le celle, non avevano fatto un bel lavoro, infatti c’erano ancora resti sui muri e sui pavimenti.[123]

L’uccisione dei 1.200 prigionieri di Abu Salim costituisce una violazione del diritto alla vita, sancito dall’art.6 del Patto internazionale sui diritti civili e politici  (ICPPR) e principio fondamentale del diritto internazionale riconosciuto dalla comunità internazionale. Esso può configurarsi anche come crimine contro l’umanità, uno dei reati più gravi al sensi del diritto internazionale.[124]

Inoltre, nella maggioranza dei casi i prigionieri di Abu Salim erano stati sottoposti a detenzione arbitraria in violazione dell’art.9 dell’ICCPR e a sparizione forzata.

La Libia è uno dei due Stati arabi (l’altro è l’Algeria) ad aver firmato il primo Protocollo opzionale all’ICCPR, che consente ai singoli individui di comunicare direttamente con il comitato che sovrintende l’ICCPR relativamente alle presunte infrazioni al Patto.[125] Nell’ottobre 2007, il Comitato diritti umani delle Nazioni Unite ha ritenuto la Libia responsabile per la detenzione illegale, la tortura e la sparizione forzata di Abu Baker El Hassy, il quale era stato arrestato arbitrariamente e detenuto ad Abu Salim nel 1995 e del quale si continuava non sapere nulla, 11 anni dopo che il fratello aveva presentato istanza al Comitato.[126] L’11 luglio 2007, il Comitato diritti umani delle Nazioni Unite ha ritenuto inoltre la Libia responsabile di tortura, sparizione ed esecuzione arbitraria nel caso El Alwani v. Libya, Comunicazione n.1295/2004.[127] Il Comitato ha ritenuto che la Libia aveva violato l’art.6 dell’ICCPR sul diritto alla vita:

Il Comitato osserva che in un dato momento del 2003, al ricorrente fu fornito il certificato di morte del fratello, senza alcuna spiegazione riguardo a una data precisa, causa o luogo della sua morte né alcuna informazione in merito alle indagini intraprese dallo Stato parte. Inoltre, lo Stato parte non ha negato che la sparizione e la successiva morte del fratello del ricorrente fossero state causate da individui appartenenti alle forze di sicurezza governative.

Il Commento generale n.6 all’art.6 afferma che “La protezione contro la privazione arbitraria della vita secondo quanto esplicitamente richiesto al terzo comma dell’art.6(1) è di primaria importanza. Il Comitato ritiene che gli Stati parte debbano adottare provvedimenti non soltanto al fine di prevenire e punire la privazione della vita per mezzo di atti criminali, ma anche di impedire l’uccisione arbitraria da parte delle forze di sicurezza. La privazione della vita da parte delle autorità dello Stato è una questione di estrema gravità”.

Dal diniego ufficiale ad una sommessa ammissione

Per anni le autorità libiche hanno negato che le uccisioni di Abu Salim abbiano mai avuto luogo. La prima ammissione pubblica giunse nell’aprile 2004 quando il leader libico Mu’ammar al-Gheddafi dichiarò pubblicamente che le uccisioni di Abu Salim ebbero luogo, affermando che le famiglie dei prigionieri avevano il diritto di sapere che cosa era avvenuto. Il 26 luglio 2008, Saif al-Islam al-Gheddafi tenne un discorso in cui parlò delle uccisioni di Abu Salim, dichiarando che:

Le indagini sono completate e sono state presentate alla magistratura. Questa darà inizio alle proprie indagini ed emetterà delle convocazioni. Non ci vorrà molto perché il fascicolo approdi in tribunale e vengano pronunciate le sentenze. Ci saranno giudici rispettabili ed imparziali, e in tribunale presenzieranno degli osservatori. [...] Ci saranno tutti: le famiglie, la stampa, ONG per i diritti umani e civili, ambasciatori, e ciascuno si troverà di fronte alla verità.[128]

Non esiste alcun resoconto ufficiale sugli eventi del carcere di Abu Salim e non vi è prova che una qualsiasi indagine sui fatti abbia mai avuto luogo. Secondo la legge libica 47 del 1975 sulle carceri, il governo deve informare immediatamente le famiglie di un recluso in caso di decesso, e deve restituire il corpo su richiesta.[129] Nel maggio 2005, il capo dell’Agenzia per la sicurezza interna Al-Tohamy Khaled riferì a Human Rights Watch che il governo aveva aperto un’inchiesta sull’episodio del 1996. Egli negò che alcun reato fosse mai stato commesso e disse a Human Rights Watch che “quando il comitato avrà concluso il suo lavoro, perché questo è già iniziato, forniremo un rapporto dettagliato che darà risposta a tutte le vostre domande”.[130]

Quattro anni dopo, il 25 aprile 2009, Human Rights Watch ha interpellato il Segretario alla pubblica sicurezza, generale Abdelfattah al-Obeidi, in merito alle indagini ed egli ha replicato che “erano ancora in corso” e che erano ora in mano del Segretario alla giustizia.[131] Non più tardi di un giorno, tuttavia, quando Human Rights Watch ebbe un incontro con il Segretario alla giustizia Mostafa Abdeljalil, questi disse che “a tutt’oggi non c’è mai stata alcuna indagine su questo episodio”.[132]

L’ammissione del Segretario alla giustizia a Human Rights Watch è significativa in quanto si tratta di un funzionario libico che cerca di affrontare la questione tramite le vie legali. Ed è ancor più significativo il fatto che egli non sia stato in grado di ottenere tutte le informazioni rilevanti riguardo alle uccisioni di Abu Salim dall’Agenzia per la sicurezza interna. Nell’aprile 2008, il Segretario alla giustizia Mostafa Abdeljalil rilasciò un’intervista a Libya Al Youm. In essa, egli affermò che il suo ministero aveva chiesto alla Sicurezza interna l’elenco dei nomi di coloro che erano morti nell’episodio del 1996 ma che non era riuscito a ottenerne informazioni precise.[133]

Nel marzo 2007 un gruppo di 30 famiglie di Bengasi intentò una causa civile presso il Tribunale di Bengasi per obbligare il governo libico a rivelare la sorte dei loro parenti detenuti. Si trattava della prima class action da parte delle famiglie perché prima di allora, come raccontò a Human Rights Watch uno dei familiari coinvolti, “molte famiglie avevano troppa paura per muoversi”.[134] Inizialmente la corte archiviò la loro istanza per motivi procedurali, sentenziando il 24 giugno 2007 di non avere giurisdizione per riesaminare le decisioni amministrative. Le famiglie si appellarono alla decisione e il 19 aprile 2008 la corte sentenziò in loro favore accettando la giurisdizione. L’8 giugno 2008, il Tribunale di Bengasi Nord sentenziò in favore delle famiglie:

La Corte ordina che gli interpellati 1, 2 e 3 [il primo ministro, il Segretario alla pubblica sicurezza e il Segretario alla giustizia] rivelino la sorte dei seguenti detenuti e il loro luogo di detenzione e le motivazioni per la loro detenzione e forniscano ai ricorrenti informazioni ufficiali riguardo alla loro sorte.[135]

Tuttavia, la corte non affrontò la questione ben più ampia dell’attribuzione delle responsabilità. Non prese in esame se era stata condotta un’inchiesta né ordinò il perseguimento dei responsabili. La decisione rappresentò una vittoria per le famiglie in quanto si trattava del primo riconoscimento formale della legittimità delle loro richieste, benché la corte non fosse ancora riuscita a ordinare, o non avesse voluto, un’inchiesta esauriente sugli eventi di Abu Salim.

Nel dicembre 2008, nel corso di un’intervista con Quryna, uno dei quotidiani a capitale privato della Libia, il Segretario libico alla giustizia Mostafa Abdeljalil affermò che aveva richiesto al Comitato generale del popolo (il gabinetto) di dare attuazione alla decisione della corte.[136] Fu in seguito a quest’ordinanza di tribunale che il governo diede seriamente inizio al processo di notificare alle famiglie il decesso dei loro congiunti emettendo certificati di morte e mettendo a disposizione risarcimenti.

Nel contesto del continuo blackout ufficiale che circonda le uccisioni di Abu Salim, il rilascio del prigioniero Mohamed Bousidra nel giugno 2009 è significativo in quanto, essendo uno dei testimoni chiave di una uccisione di massa che le autorità hanno sempre negato sia mai accaduta, per lo più ci si aspettava che sarebbe rimasto detenuto a tempo indefinito. Figura rispettata in carcere, Bousidra fu uno dei rappresentanti dei prigionieri che trattò le richieste con l’alto funzionario Abdallah al-Sanussi e si ritiene sia stato testimone diretto degli eventi che svelò. Le forze di sicurezza lo arrestarono, assieme ai suoi quattro fratelli, il 19 gennaio 1989 ad Al Baydaa, e lo condussero nel carcere di Abu Salim. I fratelli di Bousidra furono rilasciati dopo sei anni di detenzione senza accusa. Nel 1999, a più di 10 anni dal suo arresto, il Tribunale del popolo processò Bousidra condannandolo all’ergastolo. Dopo l’abolizione del Tibunale nel gennaio 2005, egli fu riprocessato davanti a un tribunale speciale nel giugno 2005 che ridusse a 10 anni la sentenza. All’epoca egli si trovava in carcere già da 16 anni e il giudice che presiedeva la corte ne ordinò pertanto il rilascio. Ma egli rimase detenuto presso il centro di detenzione della Sicurezza interna prima di essere spostato nel 2008 nel carcere di Abu Salim. Suo figlio Tarek ha potuto visitarlo il 31 gennaio 2009, la prima volta dal 21 maggio 2005. La Sicurezza interna ha infine rilasciato Mohamed Bousidra dal carcere di Abu Salim il 7 giugno 2009 ed egli si è trasferito a Bengasi dove abita la sua famiglia. Bousidra non ha parlato di ciò di cui fu testimone.

Offerte di risarcimento ma non di verità

“Mio fratello è scomparso da 13 anni. Mio padre è morto per il dolore. La giustizia per noi è un diritto”.[137]
—Il familiare di una delle vittime di Abu Salim, 9 marzo 2009.

“Lo nascondono e lo uccidono e noi non sappiamo dov’è il suo corpo e poi ci chiedono di accettare questo denaro e di riconciliarci con lo Stato?” Il fratello di una vittima di Abu Salim, 20 maggio 2009.

Tra il 2001 e il 2006 le autorità notificarono a circa 112 famiglie, una piccola percentuale del numero complessivo di prigionieri scomparsi, che un loro familiare recluso nel carcere di Abu Salim era deceduto, senza consegnare il corpo o fornire dettagli riguardo alla causa della morte.[138] Tuttavia, fino a poco tempo fa, la maggior parte delle famiglie non aveva mai ricevuto una notifica ufficiale riguardante la sorte dei loro cari. Da gennaio a marzo 2009, il governo ha avviato il processo, fornendo la notifica a circa 351 famiglie, di cui 160 residenti a Bengasi e il resto a Tripoli, Derna, Al Bayda e Misrata. Il Segretario libico alla giustizia Mostafa Abdeljalil ha riferito a Human Rights Watch nell’aprile 2009 che, a tutt’oggi, i Comitati direttivi del popolo avevano informato i parenti di circa 800-820 vittime del loro decesso ed avevano recapitato loro i certificati di morte; le famiglie di 350-400 vittime non erano state ancora informate.[139]

Nella maggior parte dei casi, i commissariati locali di polizia e gli uffici della Sicurezza interna hanno convocato i familiari sopravvissuti e li hanno informati della morte dei loro congiunti, fornendo loro un certificato ufficiale di morte da firmare. In alcuni casi, le famiglie sono state convocate al Comitato direttivo del Popolo e da questo direttamente informate.[140] I certificati di morte non riportavano né la causa né specificavano il luogo del decesso, tranne che ad indicare “Tripoli”. Le date dei decessi specificate andavano da giugno, luglio o settembre ma nessuna che Human Rights Watch abbia visto datata 28 o 29 giugno.

Molti dei prigionieri uccisi nel 1996 si trovavano nel carcere di Abu Salim dal 1989 o 1995, anni in cui erano stati effettuati arresti di massa al fine di reprimere quanti erano percepiti come oppositori. Per anni, molte famiglie non hanno saputo per certo se i loro parenti fossero detenuti ad Abu Salim, avendo perso qualsiasi contatto con loro all’epoca dell’arresto. Per queste famiglie, i loro cari erano scomparsi.

Mohamed Hamil Ferjany, ex portavoce del comitato delle famiglie, residente ora negli Stati Uniti, ha raccontato dei suoi due fratelli uccisi ad Abu Salim:

I miei fratelli Al-Sanussi e Khaled Ferjany furono arrestati nel 1995. Ogni tre mesi la mia famiglia caricava l’auto di vestiti, cibo e lenzuola e faceva 12 ore di viaggio da Bengasi al carcere di Tripoli. Mettevamo le cose in sacchi con i nomi dei miei fratelli e li lasciavamo al cancello della prigione. Ogni volta che lasciavamo loro le cose, pensavamo che stessero bene e ogni volta essi erano invece morti e i secondini si tenevano i vestiti.[141]

Un altro familiare ha raccontato a Human Rights Watch:

Sapevamo che sarebbe stato preso dalla Sicurezza interna di Bengasi ma dopo non abbiamo saputo più nulla. Andai io, andò mio fratello, andò mia madre, andammo in ogni prigione, non sapevamo dove fosse, e loro si rifiutavano di dircelo. Agli inizi del 1996 sentimmo di qualcosa che era successo nel carcere, e poi la storia cominciò ad emergere dopo che fu rilasciato qualcuno. Quattordici anni dopo la sua scomparsa, nel marzo 2009, la Sicurezza interna ci ha chiamati dicendo che dovevamo andare da loro; una volta lì ci hanno detto questo è il certificato di morte di vostro fratello e nient’altro.[142]

Un terzo ha dichiarato:

La moglie di mio fratello ha aspettato 10 anni di sapere qualcosa di mio fratello, suo marito. Poi è morta. Essi avevano una figlia, che era nata poco tempo prima che lo portassero in prigione. Ora sua nonna, la madre di mia cognata, la sta crescendo, ma anche noi l’aiutiamo. Non ha mai visto suo padre, lui non l’ha mai tenuta in braccio, non l’ha mai stretta a sé.[143]

Per alcune famiglie il ricevere il certificato di morte è stato il primo riconoscimento ufficiale della loro detenzione e insieme la distruzione di qualsiasi speranza. In un solo giorno la famiglia Taiib di Mistarah ha appreso della morte di cinque dei suoi membri, il più giovane dei quali aveva 14 anni quando fu arrestato.[144]

Un familiare di Bengasi si è incontrato con Human Rights Watch il 24 aprile 2009, con grave rischio personale:

Circa un mese fa [...] qualcuno della Sicurezza interna venne a casa mia. Disse: ‘Vieni con me’ Non mi disse perché o per che cosa. Ero spaventato; tremavo. Perché mi chiamavano? Che cosa mi sarebbe successo ora? Mi chiesero la carta di identità, e annotarono i dati. Mi portarono nel quartiere dove si trovano gli edifici della Sicurezza interna. Mi portarono in un ufficio. Dentro c’era un uomo, e c’era un’arma – un fucile, un kalashnikov credo, appeso alla parete. Non mi disse il suo nome. Era della Sicurezza interna. Disse: ‘Devo parlarti. Tuo fratello se n’è andato. Firma qui questa carta’. Vidi il documento. Era un certificato di morte. Non era riportata la causa del suo decesso. Rimasi sconvolto. Dissi: ‘Anche per i cani esiste una causa di morte’. Mi rifiutai di firmare quella carta.[145]

Inizialmente il governo offrì alle famiglie 120.000 dinari (98.590 dollari USA) quale risarcimento se il detenuto deceduto era single, e 130.000 (106.800 dollari USA) se era sposato. Alla data di giugno 2009, tuttavia, le autorità aumentarono l’offerta iniziale a 200.000 dinari libici (164.300 dollari USA). Il fratello di una vittima di Abu Salim ha raccontato a Human Rights Watch che quando la sua famiglia rifiutò per principio il risarcimento, agenti della Sicurezza interna si offrirono di pagare il doppio della cifra e di cercare di favorire il rilascio di altri familiari incarcerati ad Abu Salim.[146]

L’offerta di risarcimento arriva con attaccate delle clausole restrittive: le famiglie devono rinunciare a qualsiasi ulteriore causa legale. Per alcune delle famiglie che hanno patito il dolore della scomparsa di un loro congiunto, il denaro non basta.[147] Molte famiglie hanno detto di avere diritto alla giustizia e qualsiasi cosa che sia meno di questa è insufficiente. È interessante notare che le autorità hanno specificato che le famiglie che accettano il risarcimento del governo devono rinunciare a qualsiasi altra istanza legale sia sul piano interno che internazionale, aspetto che indica la consapevolezza delle possibilità di chiedere giustizia attraverso i meccanismi internazionali.

Sebbene diverse famiglie di Tripoli e di altre città sembrano aver accettato il risarcimento, gran parte delle famiglie di Bengasi lo hanno rifiutato, insistendo per voler sapere chi erano i perpetratori e per vederli chiamati a risponderne legalmente. Il Segretario libico alla giustizia, Mostafa Abdeljalil, ha riferito a Human Rights Watch nell’aprile 2009 che “le offerte di risarcimento sono state fatte in un contesto di riconciliazione. Cira il 30% delle famiglie che sono state sin qui informate della morte dei loro parenti hanno accettato l’offerta di risarcimento, il 60% lo hanno rifiutato perché ritengono la cifra insufficiente e il 10% lo hanno rifiutato per principio”.[148] Il 10 agosto 2009 la Fondazione Gheddafi ha dichiarato in una nota che 569 famiglie avevano ricevuto un risarcimento e che ne restavano altre 598.[149] Si tratta delle uniche statistiche ufficiali disponibili alla data di redazione del presente rapporto e la loro incongruità denota la difficoltà di ottenere informazioni dall’Agenzia per la sicurezza interna.

Un uomo ha ricevuto un certificato di morte dal Comitato direttivo del popolo il 24 maggio 2009 che lo informava del decesso di suo fratello Fathi. Egli ha raccontato a Human Rights Watch che aveva rifiutato l’offerta di risarcimento di 120.000 dinari in quanto “insufficiente” perché “hanno pagato 10 milioni di dollari per le vittime di Lockerbie e ci offrono 120.000 dinari libici? Non vogliamo i loro soldi, vogliamo la verità e seppellire i nostri cari”.[150] Il figlio di Saad el Ferjany fu arrestato il 14 gennaio 1989. Da quel momento Saad el Ferjany ha potuto visitarlo soltanto una volta nei primi anni ad Abu Salim e teme che suo figlio sia tra gli uccisi ma non ha ricevuto alcuna notifica ufficiale. Egli ha raccontato a un giornalista che “poiché lo Stato libico si rifiuta di dirci che ne è stato dei nostri figli, chiederemo al mondo esterno di affermare i nostri diritti [...] Voglio sapere che ne è stato di mio figlio, e quest’offerta di risarcimento non è giusta”.[151]

Attivismo senza precedenti – le richieste delle famiglie

Con il divenire negli anni sempre più vigorose e organizzate, le famiglie delle vittime di Abu Salim iniziarono a costituirsi in azioni legali collettive. Nell’aprile 2008, alcune famiglie, che già avevano fatto approdare il loro caso in tribunale, andarono a formare il Comitato di coordinazione delle famiglie delle vittime in rappresentanza delle loro istanze.[152] In un contesto in cui la legislazione libica limita fortemente la libertà di riunione e di associazione e in cui manca una qualsiasi ONG indipendente, la creazione del comitato fu un elemento di assoluta novità. Un membro del comitato raccontò a Human Rights Watch che essi avevano cercato di registrarsi come organizzazione non governativa ma che la Sicurezza interna aveva respinto sin da subito la richiesta.[153]

Il comitato ha inoltre organizzato manifestazioni delle famiglie, esponendosi a rischi elevati, in quanto in Libia le manifestazioni sono vietate. Le prime dimostrazioni da parte delle famiglie si svolsero a Bengasi nel giugno 2008 e in seguito hanno continuato ad aver luogo all’incirca ogni due mesi. La loro partecipazione varia da 30-40 persone fino a contare 150 persone il 30 novembre 2008.[154] Nel marzo 2009, un familiare ha raccontato a Human Rights Watch delle intimidazioni subite, come i membri più attivi del comitato vengono convocati per essere interrogati e che alle manifestazioni “le forze di sicurezza arrivano in assetto, filmano tutti i familiari che partecipano. Alti funzionari della sicurezza vengono alle manifestazioni e dicono ai familiari più anziani di tornarsene a casa. Tutti i nostri manifesti sono dei nostri figli, la verità, niente contro Gheddafi”.[155]

Un altro familiare ha raccontato a Human Rights Watch:

Ogni volta che vado a una manifestazione mi preparo ad essere arrestato, la mia famiglia teme per me. La Sicurezza interna mi ha chiamato una volta dopo una manifestazione e mi ha minacciato con il carcere. Ma non ho niente da temere, perché i miei fratelli furono incarcerati ad Abu Salim e due di loro sono morti. Non ho più paura. Ho bisogno di parlarne; sento che parlandone con voi, voi riuscirete a far sentire la mia voce, non soltanto la mia, ma quella di tutte le famiglie.[156]

Un terzo ha riferito:

La Sicurezza interna ci impedisce di parlare alla gente di Tripoli. Vogliono che tutto passi attraverso loro. A loro non piace quello che la Fondazione Gheddafi sta cercando di fare per la gente. Ci seguono dappertutto. Ci molestano continuamente. Amo il mio Paese. il mio sogno è di migliorare il sistema scolastico di questo Paese. Voglio laurearmi; voglio aiutare il mio popolo. Ma essi mi considerano un uomo cattivo, un cattivo cittadino. Perché? Che cosa ho fatto?.[157]

Nel marzo 2009, il comitato ha pubblicato su alcuni siti web libici con base all’estero un elenco di richieste avanzate dalle famiglie, in cui si chiede alle autorità libiche di:[158]

1.       rivelare la verità sulla sorte dei loro parenti

2.      perseguire i responsabili

3.      consegnare i resti alle famiglie o rivelare il luogo di sepoltura

4.      emettere certificati di morte appropriati, completi di data e luogo del decesso

5.       fare ammenda ufficiale attraverso i media

6.      rilasciare tutti gli altri familiari delle vittime di Abu Salim detenuti arbitrariamente

7.       aumentare il risarcimento equiparandolo a quello per le vittime di Lockerbie

Uno dei principali coordinatori del comitato, Mohamed Hamil al-Ferjany, il quale ha lasciato la Libia nel marzo 2009 ed attualmente si trova negli Stati Uniti, ha raccontato a Human Rights Watch che, all’inizio, alti funzionari della sicurezza e ministri interagivano con il comitato. I funzionari della sicurezza lo invitarono a partecipare a delle consultazioni svoltesi nell’arco di due settimane nel febbraio 2009, in cui egli poté incontrare l’alto funzionario della sicurezza Abdallah al-Sanussi e il Segretario alla giustizia Mostafa Abdeljalil. Tuttavia, risultò ben presto chiaro che non vi era alcuna volontà da parte delle autorità di perseguire un qualsiasi responsabile delle uccisioni di Abu Salim, disse. Poiché questa era una richiesta imprescindibile del comitato, i negoziati furono interrotti. “Credono di poter risolvere tutto con i soldi e basta, così hanno smesso di trattare con le famiglie”, ha raccontato al-Ferjany a Human Rights Watch.[159]

Il 25 e 26 marzo 2009, le forze della Sicurezza interna hanno arrestato quattro membri del comitato delle famiglie di Bengasi.[160] La sera del 25 marzo, funzionari della Sicurezza interna hanno arrestato i familiari Hussein Al Madany e Fouad Ben Omran nelle loro abitazioni. Agenti armati hanno anche perquisito, senza mandato, l’abitazione dell’avvocato Fathi Terbil, che in quel momento non si trovava in casa, e ne hanno confiscato il computer portatile. Il mattino dopo, a un’altra manifestazione del gruppo, agenti della sicurezza hanno arrestato Fathi Terbil. Questi ha raccontato a Human Rights Watch che durante l’arresto gli agenti della sicurezza gli chiesero: “Perché lo fai Fathi, perché in questo modo illegale? Dissi loro che lo Stato non voleva ascoltarmi; io voglio soltanto sapere la verità, mia nipote non ha mai visto suo padre”.[161] Funzionari della Sicurezza interna li hanno detenuti tutti e tre in incommunicado per quattro giorni per poi rilasciarli il 30 marzo 2009, in seguito allo scalpore destato dai media e all’intervento di Saif al-Islam al-Gheddafi.

Quando Human Rights Watch ha espresso la propria preoccupazione riguardo agli arresti al colonnello Al Tohamy Khaled, capo della Sicurezza interna, questi ha replicato che avevano “arrestato i soggetti che avevano fomentato la violenza” e che i suddetti familiari avevano utilizzato “mezzi illegali perché non avevano ottenuto il permesso per tenere la loro manifestazione”.[162]

Malgrado la minaccia di arresto e il clima di intimidazione, le manifestazioni delle famiglie sono continuate. Da marzo, anche le famiglie di al-Baida e Derna hanno iniziato ad organizzare manifestazioni davanti agli uffici dell’Agenzia per la sicurezza interna. La manifestazione più imponente sino ad oggi si è svolta il 29 giugno 2009, in occasione dell’anniversario delle uccisioni, quando oltre 200 persone, tra uomini, donne e bambini, hanno marciato per le strade di Bengasi portando striscioni e fotografie dei loro parenti deceduti.

Sul quotidiano on-line Al-Manara è stata postata la registrazione video di alcune donne che cantano:

“Non vogliamo denaro; vogliamo i macellai”.
“Oh Gheddafi dove sono i nostri figli? Vogliamo i corpi dei martiri”.
“No, no, no – non venderemo il sangue dei nostri figli”.[163]

In seguito a queste manifestazioni il Segretario alla giustizia Mostafa Abdeljalil ha affermato che coloro che non avevano accettato l’offerta di risarcimento erano liberi di ricorrere in tribunale e che lo Stato avrebbe dato attuazione a qualsiasi decisione finale emessa dalle corti”.[164]

Obblighi della Libia ai sensi del diritto internazionale

Ai sensi del diritto internazionale, i governi hanno l’obbligo di fornire alle vittime di violazioni dei diritti umani un indennizzo concreto, comprendente giustizia, verità e risarcimenti adeguati, a seguito di un abuso subito. Quale Stato parte all’ICCPR, la Libia ha l’obbligo di fornire un rimedio giuridico accessibile, concreto ed applicabile “determinato dalle competenti autorità giudiziarie, amministrative o legislative o da qualunque altra autorità prevista dal sistema legislativo dello Stato, e di elaborare le possibilità di un rimedio giudiziario”.

Le vittime e i loro familiari hanno il diritto di conoscere la verità riguardo alle violazioni subite. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha accolto il principio in base al quale il rimedio giuridico per le vittime comprende l’accesso a informazioni rilevanti che riguardano le violazioni dei diritti umani.[165] I principi internazionali adottati dall’ex Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani affermano che “indipendentemente da qualsiasi procedura legale, le vittime, le loro famiglie e i parenti hanno l’imprescrittibile diritto di conoscere la verità riguardo alle circostanze in cui hanno avuto luogo le violazioni”.[166] Gli organismi internazionali sui diritti umani hanno enfatizzato l’obbligo dello Stato di informare le vittime, in particolare nei casi di sparizione forzata. Il Comitato diritti umani delle Nazioni Unite ha ritenuto che l’angoscia estrema inflitta ai parenti degli “scomparsi” li rende anch’essi vittime dirette della violazione.[167] Oltre ad informare le vittime e le loro famiglie, lo Stato ha l’obbligo di informare la società in generale in riferimento alle violazioni dei diritti umani, in particolare quando queste sono gravi.[168] Tale obbligo deriva in parte dal suo dovere di impedire violazioni future.

Il dovere di fornire un rimedio giuridico concreto deve inoltre comprendere la restituzione dei resti degli uccisi alle loro famiglie affinché possano provvedere a una degna sepoltura. Nel caso Trujillo Oroza v. Bolivia, la Corte interamericana dei diritti umani ha sentenziato che “la restituzione dei resti mortali nei casi di persone scomparse è, in sé, un atto di giustizia e un risarcimento. È un atto di giustizia conoscere la localizzazione della persona scomparsa ed è una forma di risarcimento perché permette alle vittime di essere onorate, in quanto i resti mortali di una persona meritano di essere trattati con rispetto dai familiari, cosicché questi ultimi possano seppellirli degnamente”.[169]

Diversi trattati internazionali, tra cui l’ICCPR e la Carta africana, richiedono che ciascun individuo sia processato da un “tribunale indipendente e imparziale”.[170] Gli organismi internazionali sui diritti umani hanno coerentemente respinto il ricorso a pubblici ministeri e corti militari nei casi che implicano abusi nei confronti di civili, affermando che la giurisdizione delle corti militari dovrebbe limitarsi ai reati strettamente di natura militare. Anche il Corpus dei principi presentato all’ex Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani raccomanda che i casi riguardanti i diritti umani siano trasferiti ai tribunali civili. I principi guida che governano l’amministrazione della giustizia attraverso i tribunali militari, presentati alla Commissione nel gennaio 2006, affermano che “in ogni circostanza, la giurisdizione delle corti militari dovrebbe essere posta in secondo piano in favore della giurisdizione dei tribunali ordinari nel condurre le inchieste su gravi violazioni dei diritti umani come esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e tortura, e nel perseguire le persone accusate di tali crimini”.[171]

IX. Il Tribunale per la Sicurezza di Stato – un nuovo Tribunale del popolo?

La Libia istituì il Tribunale del popolo nel 1988 al fine di processare i reati politici e inerenti la sicurezza contro lo Stato. Questo comprendeva una corte d’appello e un servizio di pubblica accusa, l’Ufficio del pubblico ministero popolare. Molti casi riguardavano accuse di attività politiche illecite, in particolare, presunte violazioni della legge 71, che vieta qualsiasi attività di gruppo che sia basata su una ideologia politica opposta ai principi della rivoluzione del 1969 che portò al potere al-Gheddafi. Il Tribunale del popolo è stato ampiamente criticato per i suoi processi politicamente motivati che non garantivano i diritti di difesa o di appello e per aver ammesso agli atti confessioni estorte sotto tortura.[172]

Human Rights Watch ed altre associazioni hanno accolto con favore l’abolizione del Tribunale del popolo nel 2005[173] ma ha insistito sul fatto che  coloro che erano stati giudicati colpevoli per la pacifica espressione delle proprie opinioni politiche dovessero essere rilasciati immediatamente e risarciti per il tempo trascorso in carcere. Human Rights Watch ha richiesto che coloro che erano stati giudicati colpevoli dal Tribunale del popolo avessero un nuovo processo presso i tribunali ordinari penali libici, in completa trasparenza e con garanzie di tutela processuale. Il presidente (Chief Justice) della Corte Suprema libica, dottor Abdulrahman Abu Tuta, ha riferito a Human Rights Watch che il Tribunale del popolo era un tribunale eccezionale e che dopo la sua abolizione tutti i casi furono trasferiti ai tribunali ordinari.[174] Il Comitato diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso il timore che ciò non fosse avvenuto, affermando nelle sue Osservazioni conclusive al rapporto periodico della Libia del novembre 2007 che “le sentenze di colpevolezza e di condanna comminate dal Tribunale del popolo dovrebbero essere rivedute dall’autorità giudiziaria dello Stato parte alla luce delle garanzie contenute nell’art.14 del Patto”.[175]

Il Consiglio superiore della magistratura, che ha il potere di rivedere le decisioni della Corte Suprema e di commutare le sentenze di morte, istituì il Tribunale per la sicurezza di Stato il 19 agosto 2007 tramite la decisione 27 finalizzato a trattare “i reati relativi alla sicurezza di Stato”.[176] Esso fu stabilito in conformità con la legge n.6 e la decisione n.3 del Consiglio superiore della magistratura sull’istituzione dei tribunali speciali. Il Comitato diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione riguardo al nuovo tribunale, affermando che non è chiara “la differenza tra il Tribunale per la sicurezza di Stato e l’ex Tribunale del popolo”.[177]

Gli avvocati libici hanno raccontato a Human Rights Watch che sebbene il Tribunale del popolo fosse stato abolito nel 2005, le sue leggi continuano ad essere in vigore e il nuovo Tribunale per la sicurezza di Stato utilizza le stesse procedure del Tribunale del popolo.[178] Molti giudici del Tribunale per la sicurezza di Stato erano stati in precedenza giudici del Tribunale del popolo. Le decisioni del Tribunale per la sicurezza di Stato non sono rese note agli imputati, alle loro famiglie o, spesso, ai loro avocati. Alcuni ex imputati di questo tribunale hanno raccontato a Human Rights Watch che non era stato loro concesso alcun appello. La Sicurezza interna impedisce agli avvocati di accompagnare i loro clienti durante gli interrogatori e spesso gli avvocati non riescono ad accedere ai fascicoli del caso per preparare la loro difesa. Al Tribunale per la sicurezza di Stato compete processare casi giudiziari di presunte violazioni della legge 71 che vieta qualsiasi attività di gruppo che sia basata su una ideologia politica opposta ai principi della rivoluzione del 1969 che portò al potere al-Gheddafi.

Quale Stato parte all’ICCPR, la Libia è obbligata ai sensi dell’art.14 a garantire il diritto a un equo processo. Ciò comprende l’assicurare che i diritti della difesa siano pienamente rispettati al fine di garantire la parità rispetto alla pubblica accusa e che ad ogni imputato sia garantito il diritto di appellarsi contro la decisione. La corte deve altresì assicurare che le confessioni ottenute sotto tortura non siano ammesse agli atti del procedimento. Human Rights Watch si oppone alla creazione di tribunali speciali al fine di processare reati inerenti la sicurezza. Questo tipo di tribunali sono tipicamente irrispettosi dei diritti degli imputati. I processi dovrebbero essere celebrati davanti a tribunali penali ordinari nel pieno rispetto delle garanzie di tutela processuale stabilite dal diritto internazionale.

Human Rights Watch ha intervistato cinque prigionieri processati e giudicati colpevoli dal Tribunale per la sicurezza di Stato. Quelli che seguono sono esempi di casi giudicati dal Tribunale per la Sicurezza di Stato che rivelano una serie di irregolarità processuali che non rispondono agli standard internazionali sull’equo processo. Human Rights Watch chiede alle autorità libiche di cassare le sentenze o di riprocessare, con le debite garanzie di tutela, tutti i prigionieri condannati al termine di processi iniqui.

Abdelhakim Al-Khoweildy

Durante una missione di ricerca in Libia nell’aprile 2009, Human Rights Watch ha intervistato l’ex detenuto segreto della CIA Abdelhakim Al-Khoweildy (conosciuto anche come Abdallah al-Sadeq). Al-Khoweildy è uno dei leader del Gruppo combattente islamico libico che per anni ha cercato di rovesciare il regime di Gheddafi ma che ha recentemente rinunciato alla violenza nell’agosto 2009 e che negli ultimi anni ha negoziato il rilascio di centinaia dei suoi membri dal carcere di Abu Salim. Al-Khoweildy ha raccontato a Human Rights Watch che il Tribunale per la sicurezza di Stato lo aveva condannato a morte nel 2008. Funzionari della sicurezza malaysiana lo avevano arrestato il 3 marzo 2004 e consegnato alla CIA dalla quale egli afferma essere stato interrogato e torturato in Thailandia.[179] La CIA consegnò Abdelhakim Al-Khoweildy alla Libia il 9 marzo 2004.[180] Egli ha raccontato a Human Rights Watch:

Dopo due anni di interrogatori da parte della Sicurezza esterna, fui portato davanti al tribunale. Questo si trovava nel nuovo edificio, la Sicurezza di Stato. Erano 13 i capi di imputazione a mio carico per le mie attività in Libia. Fui portato in tribunale, lessero le accuse nei miei confronti, poi mi riportarono in carcere. Sei mesi dopo mi informarono del verdetto. Nominarono un avvocato del Bureau del popolo (muhamat shaabiya) ma non l’ho mai visto in faccia. C’erano altri sette imputati nello stesso procedimento, caso giudiziario n.1. Avere effettivamente un processo fu un fatto positivo, ma l’aspetto negativo che vorrei sottolineare è che non potei incontrare un avvocato.[181]

Abdelhakim Al-Khoweildy continua ad essere detenuto nel carcere di Abu Salim.

Mohamed al-Shoro’eyya

Il 28 agosto 2004, la CIA consegnò Mohamed al-Shoro’eyya (conosciuto anche come Hassan Rabi’i) alla Libia dopo all’incirca 17 mesi di custodia in mano della CIA. Il Tribunale per la sicurezza di Stato condannò al-Shoro’eyya all’ergastolo per appartenenza a un’organizzazione illegale, il Gruppo combattente islamico libico, il 16 giugno 2006. Egli ha parlato a Human Rights Watch nel carcere di Abu Salim alla presenza di una guardia che ha rifiutato di allontanarsi, e ha detto:

Fui interrogato, poi portato davanti al Tribunale per la sicurezza di Stato. Fui condannato all’ergastolo il 17 luglio 2006. Mi fu assegnato un avvocato d’ufficio ma non ho mai avuto l’opportunità di sedermi davanti a lui e di parlargli. Fui accusato di appartenenza a un’organizzazione illegale, il Gruppo combattente islamico libico. Caso giudiziario n.120.[182]

Il caso di Idris Boufayed, Jamal el Haji ed altri 12

Nel febbraio 2007 agenti della sicurezza libici arrestarono 14 organizzatori di una manifestazione pacifica programmata per commemorare l’anniversario di una violenta repressione sui dimostranti a Bengasi. Le forze di sicurezza li trattennero in incommunicado nelle carceri di Ain Zar e Al-Jdaida fino al 24 giugno 2007 quando dodici del gruppo comparvero di fronte a una corte per rispondere delle accuse di “tentativo di rovesciare il sistema politico” e “comunicazione con potenze nemiche”. Il loro caso giudiziario fu trasferito all’appena istituito Tribunale per la sicurezza di Stato il 6 novembre 2007. Gli imputati non furono in grado di vedere i loro avvocati al di fuori dell’aula di tribunale[183]e questa era stata una delle prime richieste che avevano avanzato al giudice. Il giudice accolse la loro richiesta ordinando alla sicurezza libica di permettere loro di incontrare gli avvocati.[184] Il 10 giugno 2008, il Tribunale per la sicurezza di Stato condannò i 12 uomini a pene detentive variabili dai 6 ai 25 anni.

Le forze di sicurezza arrestarono anche Jum’a Boufayed, fratello di Idris, e Abderrahman al-Qotaiwi, assieme agli altri, ma essi non comparirono in tribunale, facendo temere che fossero “scomparsi”. Tuttavia, nel maggio 2008, le autorità rilasciarono Jum’a Boufayed senza accusa, e rilasciarono al-Qotaiwi a metà febbraio 2009. Il principale organizzatore della manifestazione programmata, Idris Boufayed, fu condannato a 25 anni di carcere, ma venne rilasciato dalla detenzione per motivi di salute nell’ottobre 2008 a causa dello stadio avanzato di un cancro al polmone. Egli partì per la Svizzera l’11 dicembre 2008 per essere curato. La Libia rilasciò nove dei prigionieri tra il giugno e il dicembre 2008 e gli ultimi due nel marzo 2009.

Il Tribunale condannò Jamal al-Haji, uno scrittore con cittadinanza danese, a 12 anni di carcere. Le autorità libiche respinsero seccamente ogni richiesta del governo danese di visitarlo. Le autorità carcerarie confinarono Al-Haji in isolamento nel novembre 2008 dopo che si era rifiutato di porre fine a uno sciopero della fame intrapreso per protestare contro il protrarsi della sua detenzione.[185] Le autorità lo hanno alla fine rilasciato il 10 marzo 2009.

Il caso di Shukri Sahil

Funzionari della Sicurezza interna arrestarono Shukri Sahil, il cui caso è stato descritto in precedenza al cap.VI, nel maggio 2004 per aver tentato di formare un’organizzazione per i diritti umani e lo rinchiusero nel carcere di Abu Salim. Nel gennaio 2006 la Corte d’appello di Tripoli lo prosciolse. Sahil fu rilasciato il 28 febbraio 2006. Dopo che il pubblico ministero si era appellato contro la decisione, la Corte Suprema ordinò un nuovo processo. Il caso fu trasferito al Tribunale per la sicurezza di Stato in seguito alla sua creazione nell’agosto 2007. Il 6 giugno 2008, il Pubblico ministero del Tribunale per la sicurezza di Stato emise un mandato di comparizione ordinando a Shukri Sahil di presentarsi in tribunale il 17 giugno. Sahil affermò di aver deciso di lasciare la Libia per la Turchia il 16 giugno 2008, perché sapeva che non avrebbe avuto un equo processo davanti a questo tribunale. Il 18 novembre 2008, il Tribunale per la sicurezza di Stato lo condannò a morte in contumacia. Sahil ha raccontato a Human Rights Watch: “Avevo potuto nominare un avvocato che mi rappresentasse in tribunale, ma dopo la pena di morte cessò di rispondere alle mie telefonate. La mia famiglia e i miei amici non sono riusciti ad ottenere il testo della sentenza dalla corte o dall’avvocato”.[186] Shukri Sahil si trova attualmente in Europa.

X. La pena di morte

Malgrado le asserzioni da parte di alcuni funzionari libici secondo cui la nazione starebbe lavorando all’eliminazione della pena di morte, nel Paese si continuano a comminare condanne a morte e a portare a termine esecuzioni.

Il presidente (Chief Justice)  della Corte Suprema, dottor Abdulrahman Abu Tuta ha riferito a Human Rights Watch che ogni anno in Libia vengono condannate a morte dalle 35 alle 40 persone, ma che soltanto dal 5% al 7% di queste sentenze sono eseguite annualmente.[187] Egli ha dichiarato:

Le sentenze di morte non sono mai applicate fino a che il Consiglio superiore della magistratura, che è presieduto dal Segretario alla giustizia, non ha riveduto la decisione del tribunale di primo grado sia sul piano sostanziale che procedurale. Anche dopo la ratifica della decisione, questa non viene eseguita se non dopo quattro anni in quanto il codice penale libico consente alle famiglie della vittima il diritto di emettere un perdono in cambio del diyya (“blood money”). Se viene concordato un pagamento, il caso viene deferito dal procuratore generale al tribunale che ha pronunciato la prima sentenza, e questa viene sostituita dall’ergastolo. Sono veramente poche le condanne a morte che vengono di fatto eseguite poiché spesso si arriva a un perdono della famiglia. È attraverso un processo di riconciliazione sociale che la società civile libica lavora per una riduzione della pena di morte.[188]

Il dottor Abdulrahman Abu Tuta ha affermato che circa la metà dei condannati a morte sono cittadini stranieri, o lavoratori migranti egiziani o migranti irregolari provenienti da altri Paesi africani.

A tutti gli effetti, l’unica possibilità per un prigioniero di sfuggire a una condanna a morte è il raggiungimento del cosiddetto accordo “blood money”. La legge libica n.6 prevede il diritto al qisas (risarcimento) alla famiglia di una vittima, un concetto applicato dalla legge della shari’a, che riecheggia fortemente nella società libica dove i legami tribali e familiari continuano ad essere altrettanto fortemente radicati. Pertanto, l’unico modo per ottenere la commutazione di una sentenza di morte che non sia su ordine del Consiglio superiore della magistratura, eventualità che si presenta soltanto nei casi di alto profilo, è portare la famiglia della vittima a rinunciare al proprio diritto al qisas in cambio del“blood money”. Questo sistema consente la commutazione soltanto nei casi in cui qualcuno è in grado di pagare, escludendo pertanto quanti non possono permetterselo. Esso si è dimostrato inaffidabile in quanto i ritardi burocratici hanno talvolta portato ad esecuzioni premature mentre erano in corso trattative di negoziazione di un accordo.

Il braccio della morte in Libia conta numerosi cittadini egiziani. I loro casi sono stati resi noti a causa dei tentativi da parte del ministero degli Esteri egiziano di intervenire in loro favore.[189] Le autorità libiche hanno comunque portato a termine molte esecuzioni, compresa quella di un altro cittadino egiziano messo a morte il 10 novembre 2008.[190] Una ONG egiziana, il Centro arabo per l’indipendenza della magistratura e della libera professione lavora assieme a Waatasemu, l’organizzazione presieduta dalla dottoressa Aisha al-Gheddafi, riuscendo ad ottenere diversi accordi diyya (“blood money”).

La natura inaffidabile di questo sistema resa evidente dal fatto che si sono verificati casi in cui la sentenza di morte è stata eseguita malgrado un accordo di “blood money” per motivi riconducibili a ritardi burocratici. Il 29 luglio 2009, le autorità libiche hanno messo a morte per omicidio il cittadino egiziano Fadl Ismail Heteita, dopo oltre tre anni trascorsi nel braccio della morte. Con la famiglia della vittima era stato raggiunto un accordo di commutazione della sentenza in cambio di 30.000 sterline egiziane (5.400 dollari USA) ma il Procuratore generale libico non aveva riconosciuto il documento poiché questo non era stato autenticato dal ministero degli Esteri egiziano.

Il dibattito in Libia riguardante l’abolizione della pena di morte è vivace ma ha fatto registrare pochi progressi dal suo inizio nel 1988 quando fu adottata la Grande carta verde dei diritti umani. L’art.8 della Carta afferma: “Obiettivo della società giamahiriana è abolire la pena capitale”. Il 18 aprile 2004, Mu’ammar al-Gheddafi tenne un discorso davanti al Consiglio supremo per l’autorità giudiziaria ed altri alti esponenti della magistratura in cui invocava una serie di riforme legislative, compresa la riduzione del numero dei reati che prevedono l’applicazione della pena di morte. Nonostante il richiamo del leader, i Congressi di base del popolo espressero parere contrario all’abolizione della pena capitale. Al-Gheddafi ribadì il suo richiamo nel novembre 2004, durante un discorso davanti ai giudici libici e a studenti di giurisprudenza che fu trasmesso alla televisione di Stato libica. L’abolizione della pena di morte dovrebbe scaturire da un progresso sociale, disse, e “non dovrebbe essere il risultato di pressioni economiche, politiche o inerenti la sicurezza come quelle esercitate sulla Turchia per ottenere l’ingresso nell’Unione Europea”.[191]

Malgrado queste posizioni espresse, il codice penale libico prevede la pena di morte per una vasta gamma di reati, comprese azioni che dovrebbero essere tutelate dai diritti alla libertà di associazione e di espressione. L’art.3 della legge 71 criminalizza la formazione, l’appartenenza o il sostegno a qualsiasi attività di gruppo che si opponga all’ideologia della rivoluzione del 1969 che portò al potere al-Gheddafi. L’art.206 del codice penale impone la pena di morte su chiunque invochi “l’istituzione di qualsiasi raggruppamento, organizzazione o associazione vietata dalla legge” e a quanti appartengono o sostengono questo tipo di organizzazioni. Il Comitato diritti umani delle Nazioni Unite ha osservato con preoccupazione nei suoi Commenti conclusivi al rapporto sulla situazione della Libia che “ai sensi della legislazione vigente la pena di morte può essere applicata per reati dalla vaga e ampia definizione e che questi non sono necessariamente configurabili tra i reati più gravi stabiliti all’art.6, par.2,[192] del Patto”.

Le proposte di riforma al codice penale libico restringerebbero il campo di applicazione della pena di morte ma continuerebbero a prevedere una serie di reati come l’acquisto di armi non regolari o pericolose (art.145), attacchi a capi di Stato esteri (art.172), omicidio (art.273) ed omicidio associato a rapina in autostrada (art.345). Human Rights Watch osserva e apprezza il fatto che vi è stata una riduzione nella nuova bozza del numero dei reati per cui può essere applicata la pena di morte e che questa in molti casi è stata sostituita con l’ergastolo. Tuttavia, l’organizzazione chiede che la pena di morte nelle rimanenti disposizioni sia sostituita con il carcere in quanto pena più umana e moderna e in quanto non vi è prova che la pena di morte funzioni da deterrente.

L’attuale tendenza mondiale verso l’abolizione della pena di morte è stata esemplificata il 18 dicembre 2007 dalla Risoluzione 62/149 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per una moratoria mondiale sulle esecuzioni. La Risoluzione è stata adottata con una maggioranza di 104 Stati membri a favore, 54 Paesi contrari e 29 astensioni. Human Rights Watch si oppone all’imposizione della pena di morte in ogni circostanza per la sua crudeltà intrinseca e per il carattere discriminatorio con cui viene applicata.

Ringraziamenti

 

Questo rapporto è stato curato, per le ricerche e la stesura, da Heba Morayef, ricercatrice di Human Rights Watch. È stato riveduto da Sarah Leah Whitson, direttrice del Dipartimento Medio Oriente e Africa del Nord e da Lisa Anderson ed Encore Fellow del Columbia Journalism Review and freelance editor. Clive Baldwin, consulente legale senior ne ha curato la revisione terminologica giuridica. Il rapporto è stato editato da Iain Levine, direttore dell’Ufficio Programmazione. I collaboratori del Dipartimento MENA Lara Haddad e Felix Legrand hanno contribuito alla ricerca e formattazione del testo. La traduzione in italiano è stata curata da Anna Ongaro, traduttrice editoriale e consulente di Amnesty International Italia.

La delegazione di Human Rights Watch che ha visitato la Libia ad aprile 2009 era formata da Heba Morayef, ricercatrice del Dipartimento Medio Oriente e Africa del Nord, Sarah Leah Whitson, direttrice esecutiva del Dipartimento Medio Oriente e Africa del Nord di Human Rights Watch e da Bill Frelick, direttore del Programma per i rifugiati di Human Rights Watch. Human Rights Watch ringrazia la Fondazione Gheddafi per aver facilitato il viaggio e le autorità libiche per aver concesso gli incontri e la visita al carcere di Abu Salim.

Human Rights Watch ringrazia inoltre le molte persone che in Libia, nel Regno Unito e in altri Paesi hanno contribuito ad aggiungere accuratezza e spessore al presente rapporto. L’organizzazione ringrazia in particolare Libya Human Rights Solidarity per l’assistenza fornita.

Allegati: lettere alle autorità

Lettera al Segretario libico alla giustizia

Sua Eccellenza Mostafa Abdeljelil

Segretario del Comitato generale del popolo per la giustizia

Tripoli

Giamahiria libica

25 giugno 2009

Eccellenza,

Le scrivo per ringraziarla ancora una volta per il Suo incontro con la delegazione di Human Rights Watch del 26 aprile. Abbiamo molto apprezzato l’opportunità di parlare con Lei e l’apertura con cui ha risposto alle nostre domande, specialmente sapendo quanto Lei fosse impegnato quel giorno.

È per noi importante incontrare i funzionari libici e comprendere la posizione del Comitato generale del popolo per la giustizia riguardo alle varie questioni da noi sollevate. Come Le abbiamo spiegato, la metodologia impiegata da Human Rights Watch comprende colloqui con le autorità, organizzazioni e singole persone riguardo argomenti diversi in modo da poter ottenere il quadro più completo possibile.

Stiamo per iniziare la stesura del rapporto relativo alla nostra missione e desidereremmo porle alcune domande. Alcune fanno riferimento agli argomenti di cui abbiamo discusso con Lei, altre agli sviluppi successivi all’incontro. Ci farebbe piacere ricevere una risposta dal Suo ufficio su queste questioni di modo che sia per noi possibile riflettere pienamente il punto di vista delle autorità libiche nel nostro rapporto. A tale scopo apprezzeremmo molto ricevere una risposta prima del 5 luglio.

Gli argomenti e le domande su cui vorremmo chiedere alcuni chiarimenti sono i seguenti:

Abbiamo appreso da Lei e da altre fonti dell’esistenza di alcune persone che continuano ad essere incarcerate ad Abu Salim le quali o hanno già scontato la loro sentenza o sono state prosciolte da un tribunale. Sappiamo, come Lei ci ha spiegato, che né il carcere di Abu Salim né quello di Ain Zara ricadono sotto la giurisdizione del ministero della Giustizia e pertanto desidereremmo sapere:

-          Che tipo di ricorso è previsto per i prigionieri che intendono contestare il protrarsi della loro detenzione da parte della Sicurezza interna?

-          Qual è il numero dei prigionieri che hanno completato i termini della loro sentenza e che tuttavia restano incarcerati ad Abu Salim ed Ain Zara?

-          Qual è la base legale formale per la loro detenzione continuata?

Saremmo interessati a ricevere maggiori informazioni riguardanti il Tribunale per la sicurezza di Stato e il suo funzionamento. Le saremmo grati se potesse farci sapere se gli imputati davanti a questo tribunale (1) possono appellarsi contro il verdetto della corte e, in caso affermativo, su quali basi e a quale tribunale; e (2) hanno diritto di nominare avvocati di propria scelta.

-          Potrebbe fornirci dettagli sulla legge che ha istituito il tribunale e il codice di procedura penale che si applica a tale tribunale?

-          Hanno gli avvocati della difesa il diritto di accedere a tutti gli elementi contenuti nei fascicoli degli imputati davanti al Tribunale per la sicurezza di Stato?

-          Quanti sono i prigionieri attualmente incarcerati ad Abu Salim o Ain Zara dopo essere stati giudicati colpevoli dal Tribunale per la sicurezza di Stato?

Vorremo inoltre assicurarci di aver pienamente compreso il rapporto tra il Tribunale del popolo e il Tribunale per la sicurezza di Stato. La legge n.5 del 1988, con cui fu istituito il Tribunale del popolo, si trova ancora sul sito web del Comitato generale del popolo per la giustizia. Significa questo che la legge è ancora in vigore? In caso affermativo, come si spiega che la legge n.7 del 1373[193], con cui è stato abolito il Tribunale del popolo, è anch’essa disponibile sullo stesso sito web?

-          I casi che in precedenza venivano inviati all’esame del Tribunale del popolo sono ora tutti trasferiti al Tribunale per la sicurezza di Stato?

-          Ai soggetti che stanno scontando sentenze comminate dal Tribunale del popolo è stata data la possibilità di esser riprocessati dopo l’abolizione del Tribunale del popolo? In caso affermativo, quali sono i tribunali competenti a rivedere i verdetti del Tribunale del popolo?

Abbiamo discusso con Lei delle procedure con cui vengono informate le famiglie delle vittime delle uccisioni di Abu Salim del 1996 in merito alla morte dei loro parenti.

-          A chi spetta informare i familiari? Quali informazioni vengono fornite alle famiglie in merito alla causa e alle circostanze della morte?

-          Le richieste del Comitato delle famiglie delle vittime di Abu Salim vengono prese in considerazione dal Comitato generale del popolo? In caso affermativo, a chi spetta discutere e trattare le richieste del Comitato assieme ai suoi membri?

-          A che punto sono le indagini sugli eventi occorsi nel carcere di Abu Salim alla fine di giugno 1996?

Siamo al corrente che negli ultimi due anni diversi giornalisti sono stati condotti davanti al Pubblico ministero o al Pubblico ministero per la stampa.

-          Quanti sono i giornalisti perseguiti per accuse di diffamazione negli ultimi due anni?

-          Quanti sono i giornalisti giudicati colpevoli e quali erano nello specifico le accuse a loro carico? Quanti sono i giornalisti attualmente incarcerati per qualcosa che hanno scritto?

-          Può il Procuratore generale o il Pubblico ministero per la stampa avviare un procedimento penale nei confronti di un giornalista senza l’autorizzazione del Comitato generale del popolo per i media?

Uno dei punti che destano in noi particolare interesse è il tema dell’attribuzione delle responsabilità: in altre parole che tipo di procedure esistono per sporgere querela contro poliziotti ed agenti della Sicurezza interna o esterna.

-          Può il Comitato generale del popolo per la giustizia avviare un’inchiesta su presunte violazioni commesse da agenti di polizia o funzionari della Sicurezza interna? Oppure ciò richiede l’approvazione del Comitato generale del popolo per la sicurezza?

-          Quanti sono gli agenti di polizia e i funzionari della sicurezza accusati di tortura, maltrattamento o arresto e detenzione arbitrari negli ultimi tre anni? Quanti di loro sono stati giudicati colpevoli e quali sono i loro nomi, grado e sentenze?

Abbiamo appreso con particolare interesse del tentativo da parte di alcuni cittadini libici di fondare due nuove organizzazioni non governative, l’Associazione per la verità e la giustizia e il Centro per la democrazia.

-          È vero che la Sicurezza interna ha obiettato all’inserimento di dodici persone quali membri dell’Associazione ed è a seguito di questa motivazione che l’agenzia ha revocato l’originale autorizzazione concessa all’organizzazione?

-          Abbiamo appreso che uno dei membri del Centro per la democrazia fu rapito a Tripoli il 30 giugno 2008 e duramente picchiato. Quali indagini sono state avviate sull’episodio e quali sono i responsabili individuati?

-          Quanti sono le organizzazioni non governative registrate negli ultimi 5 anni?

Infine, vorremo chiederle una copia dei seguenti testi legali:

-          La bozza di legge sui rifugiati

-          La bozza di legge sulle associazioni

-          La legge che istituisce il Tribunale per la sicurezza di Stato nonché il suo statuto e le sue procedure.

Nel ringraziarla sentitamente per l’incontro, auspichiamo di poter ritornare in Libia per discutere i nostri rapporti con Lei in un prossimo futuro.

*              *              *

 

Lettera al Segretario libico alla pubblica sicurezza:

Sua Eccellenza generale Abdelfattah El-Abeidi

Segretario del Comitato generale del popolo per la pubblica sicurezza

Tripoli

Giamahiria libica

25 giugno 2009

Eccellenza,

Le scrivo per ringraziarla per averci ricevuto presso il Suo ufficio il 25 aprile 2009. Abbiamo apprezzato molto l’opportunità di discutere con Lei argomenti di reciproco interesse. Desidero inoltre ringraziarla per l’incontro che abbiamo avuto presso l’Ufficio relazioni con il pubblico la settimana precedente dove abbiamo appreso della formazione sulla normativa dei diritti umani e il diritto internazionale che il Suo ministero fornisce agli agenti di polizia e della sicurezza oltre che delle modalità con cui il Vostro governo affronta il tema dell’immigrazione.

È per noi importante incontrare i funzionari libici e comprendere la posizione del Comitato generale del popolo per la pubblica sicurezza riguardo alle varie questioni da noi sollevate. Come Le abbiamo spiegato, la metodologia impiegata da Human Rights Watch comprende colloqui con le autorità, organizzazioni e singole persone riguardo argomenti diversi in modo da poter ottenere il quadro più completo possibile.

Stiamo per iniziare la stesura del rapporto relativo alla nostra missione e desidereremmo porle alcune domande per maggiori chiarimenti. Alcune fanno riferimento agli argomenti di cui abbiamo discusso con Lei, altre agli sviluppi successivi all’incontro. Ci farebbe piacere ricevere una risposta dal Suo ufficio su queste questioni per permetterci di riflettere pienamente il punto di vista delle autorità libiche nel nostro rapporto. A tal scopo apprezzeremmo molto ricevere una risposta prima del 5 luglio.

Abbiamo appreso dell’esistenza di alcune persone che continuano ad essere incarcerate ad Abu Salim le quali o hanno già scontato la loro sentenza o sono state prosciolte da un tribunale. Siamo a conoscenza che né il carcere di Abu Salim né quello di Ain Zara ricadono sotto la giurisdizione del Comitato generale del popolo per la giustizia e pertanto desidereremmo sapere:

-          Qual è il numero dei prigionieri attualmente detenuti nel carcere di Abu Salim?

-          Qual è il numero dei prigionieri che hanno scontato la loro sentenza e che tuttavia restano incarcerati ad Abu Salim? Qual è la base legale per la loro carcerazione continuata?

-          Qual è il numero dei prigionieri che sono stati prosciolti da un tribunale e che tuttavia restano incarcerati ad Abu Salim ed Ain Zara? Qual è la base legale per la loro detenzione continuata?

Abbiamo discusso con Lei anche del tema delle uccisioni occorse nel carcere di Abu Salim nel 1996. Siamo a conoscenza che la Sicurezza interna ha informato alcune famiglie della morte dei loro parenti. Abbiamo inoltre appreso che alcune famiglie hanno rifiutato l’offerta di risarcimento e che insistono sul loro diritto a conoscere la verità su ciò che è accaduto.

-          Qual è il numero dei prigionieri che morirono nel carcere di Abu Salim durante gli eventi che occorsero alla fine di giugno 1996? Quante sono le famiglie alle quali le autorità hanno formalmente notificato la morte di un parente nel contesto dei suddetti eventi?

-          Perché i seguenti familiari delle vittime di Abu Salim, Fouad Ben Omran, Hussein Al Madany, Farag al Sharrani e Fathi Terbil, sono stati arrestati a Bengasi il 26 marzo 2009? Quali sono, se esistono, le accuse a loro carico?

-          Stanno le autorità esaminando le richieste delle famiglie delle vittime di Abu Salim che hanno rifiutato il risarcimento e stanno consultandosi con le suddette famiglie?

Come sa, durante la nostra visita al carcere di Abu Salim il 27 aprile 2009, abbiamo avuto un breve incontro con Ali al Fakheri, conosciuto come Ibn al Sheikh al Libi.

-          Quando hanno le autorità scoperto che Ibn al Sheikh al Libi era morto?

-          Quando hanno le autorità avviato un’indagine sulla sua morte e quando la porteranno a termine?

Le chiediamo cortesemente una copia o una sintesi dei risultati di tale indagine.

In merito ai migranti e richiedenti asilo:

-          Quanti migranti su barconi sono stati intercettati e rimpatriati in Libia dal 1° maggio? Quali sono le loro nazionalità?

-          Dove sono stati detenuti questi migranti? È prevista per legge una pena per ingresso o soggiorno illegale, e in caso affermativo, di che cosa si tratta? Qual è la base legale per la detenzione di questi migranti, ed esiste un limite di tempo massimo per il quale un migrante può essere trattenuto in detenzione amministrativa? Hanno le autorità libiche autorizzato o promesso all’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati l’accesso a tutti i migranti a bordo di barconi che sono stati rimpatriati in Libia dal 1° maggio?

-          Quante sono le persone che le autorità libiche hanno espulso via aerea nel 2006, 2007 e 2008? Voglia cortesemente fornire i dettagli delle loro nazionalità.

-          Quante sono le persone che le autorità libiche hanno espulso via terra nel 2006, 2007 e 2008? Voglia cortesemente fornire i dettagli delle loro nazionalità.

Vorremmo inoltre sapere:

-          Il cittadino marocchino Issam Morchid è attualmente detenuto dalla Sicurezza esterna o da qualsiasi altra agenzia della sicurezza libica? In caso affermativo, dov’è trattenuto e con quali accuse?

-          È vero che le donne libiche coniugate con un uomo non libico non possono dare la cittadinanza libica ai loro figli? Qual è la legge interna applicata nello specifico?

-          L’indagine sul presunto rapimento di Daww Mansuri, avvenuto il 30 giugno 2008 a Tripoli, è stata completata? In caso affermativo, voglia cortesemente fornirci i risultati di tale indagine.

Tra gli argomenti di cui abbiamo discusso durante il nostro incontro figurano le procedure previste per i soggetti che intendono sporgere denuncia contro agenti di polizia e della sicurezza e il tipo di prassi seguita internamente presso il Comitato generale del popolo prima che un determinato caso sia trasmesso al tribunale.

-          Qual è il numero delle cause civili ricevute dal Comitato generale del popolo per la sicurezza nel 2008 e 2007?

-          Nel 2006, 2007 e 2008, quanti sono stati i poliziotti processati, quanti sono stati prosciolti e quanti giudicati colpevoli? Di quelli processati, quanti casi riguardavano denunce di tortura, maltrattamenti e altre violazioni dei diritti umani? Può il Procuratore generale avviare un’indagine sugli abusi commessi da agenti della Sicurezza interna oppure ciò richiede prima l’approvazione del Suo ministero?

Nel ringraziarla ancora una volta per il nostro incontro, auspichiamo di poter ritornare in Libia per discutere con Lei dei nostri rapporti in un prossimo futuro.

Cordiali saluti,

Sarah Leah Whitson

Direttore

Dipartimento Medio Oriente e Africa del Nord

 

 

[1] Gli organismi legislativi pertinenti. Per maggiori informazioni sul sistema politico cfr. “Contesto”.

[2] Programma di sviluppo delle Nazioni Unite sulla Libia, informazioni sul Paese, cfr. http://www.undp-libya.org/countryinfo.php (accesso del 29 settembre 2009).

[3] Rapporto 2009 del Programma di sviluppo umano delle Nazioni Unite, Giamahiria Araba Libica, http://hdrstats.undp.org/en/countries/country_fact_sheets/cty_fs_LBY.html (accesso del 23 ottobre 2009).

[4] L’elenco del Fronte nazionale per la salvezza della Libia cita la cifra di 2.626 prigionieri, ricavata da varie fonti differenti, offre una panoramica delle diverse ondate di arresti che ebbero luogo. Cfr. Fronte nazionale per la salvezza della Libia, Human Rights Report, dicembre 1998, http://www.libyanfsl (accesso del 7 novembre 2009).

[5] Per un elenco dei prigionieri arrestati cfr. Libya Human Rights Solidarity, “Mass Trial of 98 Prisoners of Conscience”, 18 giugno 2001, http://www.lhrs.ch/english/default.asp?page1=v_bayan&id=4 (accesso del 29 settembre 2009); Amnesty International, Libya: Time to Make Human Rights a Reality, AI Index: MED 19/002/2004, April 26, 2004, http://www.amnesty.org/en/library/asset/MDE19/002/2004/en/0f0c0416-d631-11dd-ab95 a13b602c0642/mde190022004en.pdf (accesso del 29 settembre 2009).

[6] Riguardo all’assassinio di dissidenti libici nel Regno Unito da parte della sicurezza libica, cfr. Christopher Andrew, The Defence of the Realm: The Authorized History of MI5, Londra, Allen Lane, 2009).

[7] “Libyan WMD: Tripoli’s statement in full”, in BBC News Online, 20 dicembre 2003, http://news.bbc.co.uk/2/hi/africa/3336139.stm (accesso del 23 agosto 2009).

[8] Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Risoluzione 1505 (2003), S/RES/1506 (2003) http://www.unhcr.org/refworld/docid/3f8d2e164.html (accesso del 29 settembre 2009). La Libia accordò di corrispondere un risarcimento pari a 10 milioni di dollari USA a ciascuna delle famiglie delle vittime, di cui 4 milioni dopo la revoca delle sanzioni delle Nazioni Unite, altri 4 milioni dopo la revoca delle sanzioni USA in base al International Emergency Economic Powers Act (IEEPA) e gli ultimi 2 milioni alla rimozione della Libia dall’elenco degli Stati che sponsorizzano il terrorismo, stilato dal Dipartimento di Stato americano.

[9] “US-Libya compensation deal sealed”, in BBC News Online, 14 agosto 2008, http://news.bbc.co.uk/2/hi/americas/7561271.stm (accesso del 2 luglio 2009).

[10] Matthew Weaver, “Families of Lockerbie bombing victims receive compensation from Libya,” in The Guardian, 21 novembre, 2008, http://www.guardian.co.uk/uk/2008/nov/21/lockerbie-libya (accesso del 21 luglio 2009).

[11] Dichiarazione del Sottosegretario agli Affari Politici William J. Burns, alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, sessione tenuta davanti al Comitato relazioni internazionali, “Libya: Progress on the Path Toward Cautious Reengagement”, 16 marzo 2005, 109° Congresso, n. 109-25,  http://www.foreignaffairs.house.gov/archives/109/20056.pdf  (accesso del 29 settembre 2009), p. 4.

[12] “U.S. Diplomatic Relations with Libya”, U.S. Department of State, Ufficio del portavoce, 15 maggio 2006, http://2001-2009.state.gov/secretary/rm/2006/66235.htm (accesso del 29 settembre 2009).

[13] “Confirmation of Gene A. Cretz as U.S. Ambassador to Libya,” Ufficio del portavoce del Dipartimento di Stato americano, 28 novembre, 2009, http://www.america.gov/st/texttransenglish/2008/November/20081128140821EAifaS0.3752405.html (accesso del 12 agosto 2009).

[14] Cfr. Dana Moss e Simon Henderson, “Rebuilding U.S.-Libyan Relations Twenty Years after Lockerbie”,  The Washington Institute for Near East Policy, in Policy Watch n.1435, 25 novembre 2008,  http://www.washingtoninstitute.org/templateC05.php?CID=2968 (accesso del 29 settembre 2009).

[15] Human Rights Watch et alia, Off the Record: U.S. Responsibility for Enforced Disappearances in the “War On Terror,” 7 giugno 2007, http://www.hrw.org/legacy/backgrounder/usa/ct0607/ct0607web.pdf, pp. 10, 14, 16, 17.

[16] “UK signs memorandum of understanding with Libya”, comunicato stampa dell’Ufficio degli Esteri e del Commonwealth, 17 ottobre 2005,

http://www.fco.gov.uk/resources/en/press-release/2005/10/fco_npr_181005_libyamou (accesso del 29 settembre 2009).

[17] “UK.: Torture a Risk in Libya Deportation Accord,” comunicato stampa di Human Rights Watch, 17 ottobre 2005, http://www.hrw.org/en/news/2005/10/17/uk-torture-risk-libya-deportation-accord (accesso del 17 luglio 2009).

[18]AS& DD (Libia) v. Segretario di Stato del Dipartimento degli interni, Corte Suprema della Corte d’appello della magistratura, 9 aprile 2008, EWCA Civ 289, Caso n. T1/2007/0504, http://www.judiciary.gov.uk/docs/judgments_guidance/judgment_as_dd_libya_090408.pdf (accesso del 17 luglio 2009). Cfr. anche “UK: Appeals Court Blocks National Security Deportation”, comunicato stampa di Human Rights Watch, 7 aprile 2008, http://www.hrw.org/en/news/2008/04/07/uk-appeals-court-blocks-national-security-deportations (accesso del 17 luglio 2009).  

[19] “EU-Libya: negotiations on future Framework Agreement start”, comunicato stampa dell’Unione Europea, 12 novembre 2008,

http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=IP/08/1687&format=HTML&aged=0&language=EN&guiLanguage=en (accesso del 29 settembre 2009).

[20] “HIV Medics Released to Bulgaria”, in BBC News Online, 24 luglio 2007, http://news.bbc.co.uk/1/hi/world/europe/6912965.stm (accesso dell’8 agosto 2009).

[21] Matthew Brunwasser ed Elaine Sciolino, “Bulgarian nurses and Palestinian doctor freed from captivity”, in New York Times, 24 luglio, 2007, disponibile su http://www.nytimes.com/2007/07/24/world/europe/24iht-nurses.5.6813495.html?pagewanted=all (accesso del 3 agosto 2009).

[22] John Ward Anderson, “Gaddafi Visit Causes Stir in France”, in Washington Post, 11 dicembre 2007, http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2007/12/10/AR2007121001689.html (accesso del 1° luglio 2009).

[23] “Gaddafi visit seals French deals”, in BBC News, 10 dicembre 2007, http://news.bbc.co.uk/2/hi/africa/7135788.stm (accesso del 1° luglio 2009).

[24] “Gaddafi, Berlusconi sign accord worth billions”,  in Reuters, 30 agosto 2008,

http://www.reuters.com/article/worldNews/idUSLU29214620080830 (accesso del 26 giugno 2009). Il Senato italiano ratificò l’accordo il 3 febbraio 2009; la Libia lo ratificò un mese dopo.  “Italy-Libya: Tripoli

Ratifies Friendship Treaty”, in ANSAmed, 2 marzo 2009, http://www.ansamed.info/en/news/ME01.@AM49114.html (accesso del 29 giugno 2009).

[25] “Gaddafi in first visit to ex-colonial power Italy”, in Reuters, 10 giugno 2009, http://uk.reuters.com/article/idUKLA99895320090610 (1° luglio 2009).

[26] Human Rights Watch, Libya/Italy: Pushed Back Pushed Around, (New York, Human Rights Watch: 21 settembre  2009) http://www.hrw.org/en/reports/2009/09/21/pushed-back-pushed-around-0 (accesso del 29 settembre 2009).

[27] “Libya Heads UN Security Council”, in CNN News Online, 3 gennaio 2008, http://www.cnn.com/2008/WORLD/africa/01/03/libya.un/index.html (accesso del 7 luglio 2009).

[28] “Kadhafi slams ICC ‘terrorism’ in Bashir case”, in AFP, 29 marzo 2009, http://www.google.com/hostednews/afp/article/ALeqM5h3uxqQ4jDSzliGZ5rM8hVvhi0rbA (accesso del 6 settembre 2009).

[29]Cfr. Human Rights Watch, Libya: Words to Deeds, Volume 18, n.1(E), (New York: Human Rights Watch, 24 gennaio 2006), http://www.hrw.org/en/reports/2006/01/24/libya-words-deeds-0, cap. VI; Amnesty International, “Libya: Time to Make Human Rights a Reality”, AI Index: MDE 19/002/2004, 26 aprile 2004, http://www.amnesty.org/en/library/asset/MDE19/002/2004/en/0f0c0416-d631-11dd-ab95-a13b602c0642/mde190022004en.pdf (accesso del 29 settembre 2009), p. 3.

[30]Il sistema politico libico prevede l’esistenza di Congressi di base del popolo in ogni articolazione amministrativa (sha`biyya). Ciascun Congresso di base del popolo elegge qualeorgano esecutivo un Comitato del popolo (lajna sha`biyya lil –mahalla), cui spetta la nomina di un rappresentante locale al Congresso generale del popolo (Mu’tamar al-Sha`b al-`Amm), l’equivalente dell’assemblea legislativa nazionale.

[31] Amnesty International, “Libya: Time to Make Human Rights a Reality”, AI Index: MDE 19/002/2004, 26 aprile 2004, http://www.amnesty.org/en/library/asset/MDE19/002/2004/en/0f0c0416-d631-11dd-ab95-a13b602c0642/mde190022004en.pdf (accesso del 29 settembre, 2009), pp. 12-13.

[32] “Latest Edition: Qaddafi calls for revision of Libyan penal code (in arabo)”, in Al Arabiya , 30 ottobre 2005, http://www.alarabiya.net/programs/2005/10/30/18170.html (accesso del 29 settembre 2009).

[33] Intervista di Human Rights Watch al dottor Abdulrahman Abu Tuta, presidente della Corte Suprema libica, Tripoli, 21 aprile 2009.

[34] Intervista di Human Rights Watch con il consigliere Mostafa Abdeljalil, Segretario alla giustizia, Tripoli, 26 aprile 2009.

[35] “Lawyers Debate New Penal Code (in arabo)”, in Libya al-Youm, 22 marzo 2008, http://www.libya-alyoum.com/look/article.tpl?IdLanguage=17&IdPublication=1&NrArticle=14853&NrIssue=1&NrSection=3 (accesso del 29 settembre 2009). 

[36] Per un approfondimento degli articoli pertinenti la nuova bozza del codice penale v. i capitoli che seguono, “Libertà di espressione” e “Libertà di associazione”.

[37] Cfr. il modulo per i reclami: http://www.almiezan.gov.ly/form/contact(2).php (accesso del 29 settembre 2009).

[38] Intervista di Human Rights Watch al generale Abdelfattah al-Obeidi, Segretario alla pubblica sicurezza, Tripoli, 25 aprile 2009.

[39] Intervista di gruppo di Human Rights Watch con alcuni avvocati, Ordine degli avvocati di Tripoli, 22 aprile 2009.

[40] Intervista di Human Rights Watch con Kamal el Dib, direttore della formazione presso il Comitato generale del popolo per la pubblica sicurezza, Tripoli, 22 aprile 2009.

[41] Discorso di Saif al-Islam Gheddafi, presidente del GICDF, “Libia…Verità per tutti”, 26 luglio 2008, http://www.gdf.org.ly/index.php?lang=en&CAT_NO=114&MAIN_CAT_NO=9&Page=105&DATA_NO=251 (accesso del 7 settembre 2009).

[42] “Qaddafi's son declares he's leaving politics”, in Associated Press, 22 agosto 2008, http://www.nytimes.com/2008/08/22/world/africa/22iht-libya.5.15563698.html?_r=1 (accesso del 7 settembre 2009).

[43] “Kadhafi Names Son Second-in-Command”, in AFP, 13 ottobre 2009, http://news.yahoo.com/s/afp/20091013/wl_africa_afp/libyakadhafipolitics (accesso del 2 novembre 2009).

[44] Intervista di Human Rights Watch con alcuni giornalisti libici, Tripoli, 21 aprile 2009.

[45] Cfr. Oea,  http://www.oealibya.com/ (accesso del 23 agosto 2009).

[46] Cfr. Quryna, http://www.quryna.com/index.php (accesso del 23 agosto 2009).

[47] Cfr. Osama al-Said, “Al Muftari Al Aam,” in Quryna, 10 febbraio 2009, disponibile su http://www.quryna.com/

[48] Mohamed Allagi, “Justice is Harmed Oea”, 3 settembre 2090, http://www.oealibya.com/oea-sections/articles-and-sections/5941-2009-09-03-01-11-26, (accesso del 5 settembre 2009).

[49] Intervista di Human Rights Watch con Fathi Ben Eissa, corrispondente di Libya Al-Youm, Tripoli, 26 aprile 2009. Per esempi di questo genere di articoli, cfr. http://www.libya-alyoum.com/look/article.tpl?IdLanguage=17&IdPublication=1&NrArticle=18851&NrIssue=1&NrSection=14 (accesso del 29 settembre, 2009).

[50] Il Libro Verde è disponibile in inglese su http://books.google.com (accesso del 29 settembre 2009). Il sito web del World Center for the Study and Research of the Green Book, un importante istituto libico, è disponibile su www.greenbookstudies.com (accesso del 29 settembre 2009).

[51] Saif al-Islam al-Gaddafi, discorso tenuto al Secondo meeting della gioventù di Bengasi, 20 agosto 2007, http://gdf.org.ly/index.php?lang=en&CAT_NO=114&MAIN_CAT_NO=9&Page=105&DATA_NO=252 (accesso del 15 agosto 2009).

[52] Intervista di Human Rights Watch con il Procuratore generale incaricato, Tripoli, 22 aprile 2009.

[53] Citazione da “Saif al-Islam Defends the Right of Libyan Citizens to Criticize Him”, in Al Jazeera, 15 novembre 2009, http://www.aljazeera.net/News/archive/archive?ArchiveId=1161467, accesso del 18 luglio 2009.

[54] Ibid.

[55] Intervista di Human Rights Watch con alcuni giornalisti libici, Tripoli, 21 aprile 2009.

[56] Intervista di Human Rights Watch con alcuni giornalisti libici, Tripoli, 21 aprile 2009.

[57] Ibid.

[58] Intervista di Human Rights Watch con un giornalista libico, Tripoli, 21 aprile 2009.

[59] Intervista di Human Rights Watch con Tarek al-Houni, Tripoli, 21 aprile 2009.

[60] Intervista di Human Rights Watch con Tarek al-Houni, Tripoli, 21 aprile 2009.

[61] “New Charges Against El Baaga”, in Libya Al Youm, 11 gennaio 2009, http://www.libya-alyoum.com/look/article.tpl?IdLanguage=17 (accesso del 3 luglio 2009).

[62] “After the Intervention of Saif al-Islam, Process Against El Baaga and Mehyar Cancelled”, in Libya Al Youm, 16 gennaio 2009, http://www.libya-alyoum.com/ (accesso del 3 luglio 2009).

[63] Intervista telefonica di Human Rights Watch con Adel Sunalla, 26 ottobre 2009.

[64] Patto internazionale sui diritti civili e politici  (ICCPR), adottato il 16 dicembre 1966, Ris. A.G. 2200A (XXI), 21 U.N. GAOR Supp. (n. 16) a 52, U.N. Doc. A/6316 (1966), 999 U.N.T.S. 171, entrato in vigore il 23 marzo 1976, ratificato dalla Libia nel 1976, art.19.

[65] Proclama costituzionale dell’11 dicembre 1969, Libia, art.13.

[66] Legge 20 (1991), sul rafforzamento della libertà, art.8.

[67] Dichiarazione dei principi relativi alla libertà di espressione in Africa, Commissione africana dei diritti umani e dei popoli, 32ª sessione, 17-23 ottobre 2002, Banjul, Gambia, Sex.X.

[68] Per maggiori informazioni su questo punto, cfr. Dirk Vanderwalle, A History of Modern Libya, Cambridge, UK, Cambridge University Press, 2006, cap.5.

[69] Per il completo dibattito del loro processo, v. cap.X, “Il Tribunale per la sicurezza di Stato”.

[70] Massimo organo legislativo del Paese, il Congresso generale del popolo presiede a tutti i congressi di base del popolo e ai Comitati generali del popolo (ministeri).

[71] “The Foundation Succeeds in Obtaining Approval to Facilitate the Return of Eighteen Libyan Citizens Residing Abroad”, comunicato stampa della Gaddafi International Charity and Development Foundation, 16 novembre 2008, http://www.gdf.org.ly/index.php?lang=en&CAT_NO=2&Page=105&DATA_NO=419 (accesso del 30 settembre 2009).

[72] “The Foundation Succeeds in Obtaining Approval to Facilitate the Return of Eighteen Libyan Citizens Residing Abroad”, comunicato stampa della Gaddafi International Charity and Development Foundation, 16 novembre 2008, http://www.gdf.org.ly/index.php?lang=en&CAT_NO=2&Page=105&DATA_NO=419 (accesso del 30 settembre 2009).

[73] V. cap.XI sotto. Per una panoramica delle attività di Waatasemu, cfr. il loro sito web, http://www.waatasemu.org/charity/ (in arabo) (accesso del 30 settembre 2009).

[74] Per maggiori informazioni sulle violazioni dei diritti dei migranti in Libia, cfr. Human Rights Watch, Libia/Italia: Scacciati, schiacciati, (New York, Human Rights Watch, 21 settembre 2009) http://www.hrw.org/en/reports/2009/09/21/pushed-back-pushed-around-0 (accesso del 29 settembre 2009).

[75] In base all’accordo, le organizzazioni sosterranno le autorità libiche “nell’individuare ed attuare strategie complete e sensibili alle garanzie di tutela del diritto d’asilo nel pieno rispetto dei principi internazioni e regionali sui rifugiati e i diritti umani”. Cfr. “UNHCR signs agreement aimed at ensuring refugee protection in Libya”, UNHCR, nuove storie, 4 luglio 2008, http://www.unhcr.org/486e48534.html (accesso del 30 luglio2009).

[76] Intervista di gruppo di Human Rights Watch con alcuni avvocati, Ordine degli avvocati di Tripoli, 22 aprile 2009.

[77] Intervista di gruppo di Human Rights Watch con alcuni avvocati, Ordine degli avvocati di Tripoli, 22 aprile 2009.

[78] “Discussion about the new penal code begins tonight – rights defenders reveal 21 articles provide for death sentence,” in Libya Al Youm, April 22, 2008, http://www.libya-alyoum.com/look/article.tpl?IdLanguage=17&IdPublication=1&NrArticle=14853&NrIssue=1&NrSection=3 (accesso del 22 settembre 2009).

[79] Intervista di gruppo di Human Rights Watch con alcuni avvocati, Ordine degli avvocati di Tripoli, 22 aprile 2009.

[80] Intervista telefonica di Human Rights Watch con Shukri Sahil, 17 marzo 2009.

[81] Intervista telefonica di Human Rights Watch con Shukri Sahil, 17 marzo 2009.

[82] Intervista di gruppo di Human Rights Watch con alcuni avvocati, Ordine degli avvocati di Tripoli, 22 aprile 2009, e Statuto del Centro per la democrazia riportato da Libya al Youm.

[83] Lettera che conferma l’approvazione della domanda, Comitato generale del popolo per le politiche sociali, riportata in “Rights Activist Dhaw al-Mansuri announces the establishment of the Centre for Democracy and Association for Justice”, in Libya Al Youm, 5 giugno 2008, http://www.libya-alyoum.com/look/article.tpl?IdLanguage=17&IdPublication=1&NrArticle=15763&NrIssue=1&NrSection=3 (accesso del 30 settembre 2009).

[84] “Founders of Centre for Democracy request registration and Nongovernmental Organizations Authority sends membership list to Internal Security”, in Libya Al Youm, 4 maggio 2008.

[85] Intervista di Human Rights Watch con il colonnello Al-Tohamy, capo della Sicurezza interna, Tripoli, 25 aprile 2009.

[86] “In an Unexpected Move the Government issues a Decision to Cancel the Centre for Democracy and Association for Justice”, in Libya Al Youm, 11 giugno 2008,http://www.libya-alyoum.com/look/article.tpl?IdLanguage=17&IdPublication=1&NrArticle=15892&NrIssue=1&NrSection=3, (accesso del 10 agosto 2009).

[87]Libya Al Youm, “His kidnappers threatened him over the Centre for Democracy – Tripoli Lawyers strongly protest the attack and call for an investigation”, 2 luglio 2008, http://www.libya-alyoum.com/look/article.tpl?IdLanguage=17&IdPublication=1&NrArticle=16323&NrIssue=1&NrSection=3  (accesso del 10 agosto 2009).

[88] Intervista di Human Rights Watch con il colonnello Al-Tohamy, capo della Sicurezza interna, Tripoli, 25 aprile 2009.

[89] Intervista di gruppo di Human Rights Watch con alcuni avvocati, Ordine degli avvocati di Tripoli, 22 aprile 2009. Per maggiori informazioni sul discorso di Saif al-Islam, v. “Contesto”.

[90] Manfred Nowak, UN Covenant on Civil and Political Rights: CCPR Commentary, Kehl am Rein, N.P. Engel, 1993, pp. 386-387.

[91] Cfr. ad es. Vladimir Petrovich Laptesevich v. Belarus, Comunicazione 780/1997 del Comitato diritti umani. Cfr. anche Richard Fries, “The Legal Environment of Civil Society”, The Global Civil Society Yearbook 2003, Centre for the Study of Global Governance, London School of Economics, 2003, cap.9.

[92] Comunicazione 101/93, Civil Liberties Organization in respect of the Nigerian Bar Association v. Nigeria, Eighth Activity Report 1994–1995, Annex VI; Documents of the African Commission, p.394.

 

[93]Hisham Matar, “I Just Want to Know What Happened to My Father” ,in The Independent, 16 luglio 2006, http://www.independent.co.uk/news/world/africa/hisham-matar-i-just-want-to-know-what-happened-to-my-father-407444.html (accesso del 6 ottobre 2009).

[94] International Centre for Prison Studies (King’s College, London),  “World Prison Brief: Libya”, modificato nel settembre 2009, http://www.kcl.ac.uk/depsta/law/research/icps/worldbrief/wpb_country.php?country=28 (accesso del 30 settembre 2009).

[95] Intervista di Human Rights Watch con il consigliere Mostafa Abdeljalil, Segretario alla giustizia, Tripoli, 26 aprile 2009.

[96] V. cap.II, “Metodologia”, riguardante le modalità con cui Human Rights Watch ha ottenuto l’accesso.

[97] Intervista di Human Rights Watch con il vice direttore dell’Agenzia per la sicurezza interna, Tripoli, 22 aprile 2009.

[98] Ibid.

[99] Intervista di Human Rights Watch con il consigliere Mostafa Abdeljalil, Segretario alla giustizia, Tripoli, 26 aprile 2009.

[100] “Oea meets Secretary for Justice Mostafa Abdeljalil for a Very Frank Interview”, in Oea, 2 novembre 2009, http://www.oealibya.com/front-page/local-news/9155-2009-11-02-22-02-43 (accesso del 3 novembre 2009).

[101] Intervista di Human Rights Watch con il vice direttore dell’Agenzia per la sicurezza interna, Tripoli, 27 aprile 2009.

[102] Intervista di Human Rights Watch con il colonnello Al-Tohamy, capo della Sicurezza interna, Tripoli, 25 aprile 2009.

[103] Lettera del Segretario alla giustizia al Segretario del Comitato generale del popolo, 26 giugno 2008.

[104] “Libyan Security Detains Prisoners acquitted by Judiciary”, in Al Jazeera, 14 giugno 2009,  http://aljazeera.net/NR/exeres/AEC4E99C-8305-430F-A265-74F8AB5B6F8F.htm (accesso del 26 giugno 2009).

[105] Intervista di Human Rights Watch con M.O., Londra, 29 giugno 2009.

[106] V. cap IX , “Il Tribunale per la sicurezza di Stato” dove è trattato il loro caso. Human Rights Watch, “Two Prisoners Freed”, 10 marzo 2009, http://www.hrw.org/en/news/2009/03/10/libya-two-political-prisoners-freed (accesso del 23 agosto 2009).

[107]Abdenacer [sic] Younes Meftah Al Rabassi v. Libyan Arab Jamahiriya, Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla detenzione arbitraria, U.N. Doc. E/CN.4/2006/7/Add.1 a 76, 10 maggio 2005.

[108] Per maggiori informazioni sul Tribunale del popolo, cfr. Human Rights Watch/Middle East, Libya  - Words to Deeds, Volume 18, n.1(E), gennaio 2006, http://www.hrw.org/en/reports/2006/01/24/libya-words-deeds, cap.V.

[109] “Reforms Welcome, But Concerns Remain”, comunicato stampa di Human Rights Watch, May 23, 2005. Cfr. anche “Libya: Abolition of People’s Court is an Important Step”, Amnesty International , dichiarazione pubblica, 13 gennaio 2005.

 

[110] Intervista di Human Rights Watch con M.I., Tripoli, 25 aprile 2009.

[111] Cfr. Fronte nazionale di salvezza della Libia, Human Rights Report, dicembre 1998, http://www.libyanfsl.com (accesso del 7 novembre 2009).

[112] Intervista telefonica di Human Rights Watch con Mohamed Milad Al Seheili, 26 maggio 2009.

[113] Intervista di Human Rights Watch con Hisham Matar, Londra, 19 giugno 2009.

[114] Hisham Matar, “I Just Want to Know What Happened to My Father”, in The Independent, 16 luglio 2006, http://www.independent.co.uk/news/world/africa/hisham-matar-i-just-want-to-know-what-happened-to-my-father-407444.html (accesso del 6 ottobre 2009).

[115] Intervista telefonica di Human Rights Watch con Youcif Almegaryef, 5 novembre 2009.

[116] Intervista di Human Rights Watch con K.I., 5 aprile 2009.

[117] Comitato diritti umani delle Nazioni Unite, Commento generale n. 31, Natura dell’obbligo generale imposto agli Stati parte alla Convenzione, 2187° sessione, 26 maggio, 2004), UN Doc. CCPR/C/Rev.1/Add.13, http://www.unhchr.ch/tbs/doc.nsf/(Symbol)/CCPR.C.21.Rev.1.Add.13.En?Opendocument (accesso del 30 settembre 2009).

[118] Principi delle Nazioni Unite sull’effettiva prevenzione e indagine delle esecuzioni extragiudiziali, arbitrarie e sommarie.

[119] Per maggiori informazioni v. cap.IV – “Contesto”.

[120] Human Rights Watch, Libya: June 1996 Killings at Abu Salim Prison, 28 giugno 2006, http://www.hrw.org/legacy/english/docs/2006/06/28/libya13636_txt.htm.

[121] Intervista di Human Rights Watch con il consigliere Mostafa Abdeljalil, Segretario alla giustizia, Tripoli, 26 aprile 2009.

[122] “Press Release on Various Cases”, Fondazione internazionale Gheddafi per la beneficenza e lo sviluppo, 10 agosto 2009,  http://www.gdf.org.ly/index.php?lang=ar&CAT_NO=4&MAIN_CAT_NO=4&Page=105&DATA_NO=553 (accesso del 17 agosto 2009).

 

[123] Intervista di Human Rights Watch con M.I., Bengasi, 24 aprile 2009.

[124] Per stabilire un crimine contro l’umanità, considerato tra i reati più gravi dalla comunità internazionale nel suo complesso, deve essere provato che l’omicidio è stato “commesso nel contesto di un attacco generale o sistematico volto a colpire in maniera indiscriminata la popolazione civile, nella consapevolezza dell’attacco”. Gli elementi che consentono di giungere a tale conclusione sono il fatto che l’atto viene commesso quale parte di un attacco nei confronti della popolazione civile, nello specifico la popolazione carceraria, e che tale atto era a tutti gli effetti o era inteso essere parte di una politica volta a colpire dei civili.

[125] La Libia non ha firmato il secondo Protocollo opzionale, che impegna i firmatari ad abolire la pena di morte. Non ha neppure firmato il Protocollo opzionale alla CAT, che consente al Comitato contro la tortura di visitare i luoghi di detenzione. Nel giugno 2004 la Libia ha firmato il primo Protocollo opzionale alla CEDAW, che consente al Comitato per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne di ricevere e prendere in esame i reclami di singoli individui o di gruppi.

[126]Decision:El Hassy v. Libya, Comitato diritti umani delle Nazioni Unite, CCPR/C/91/D/1422/2005, 24 ottobre 2007.

[127]Decision: El Awani v. Libya, Comitato diritti umani delle Nazioni Unite, CCPR/C/90/D/1295/2004, 11 luglio 2007.

[128] “Libya – Truth for All”, Saif al-Islam al-Gaddafi speech, Tripoli, 26 luglio 2008, http://gdf.org.ly/index.php?lang=en&CAT_NO=114&MAIN_CAT_NO=9&Page=105&DATA_NO=251 (accesso del 30 settembre 2009).

[129] Legge 47 (1975), art.48.

[130] “Libya: June 1996 Killings at Abu Salim Prison”, comunicato stampa di Human Rights Watch, 28 giugno 2006, http://www.hrw.org/legacy/english/docs/2006/06/28/libya13636_txt.htm.

[131] Intervista di Human Rights Watch con il generale Abdelfattah al-Obeidi, Segretario alla pubblica sicurezza, Tripoli, 26 aprile 2009.

[132] Intervista di Human Rights Watch con il consigliere Mostafa Abdeljalil, Segretario alla giustizia, Tripoli, 26 aprile 2009.

[133] “Minister of Justice: we asked security to give us the list of the dead in Abu Salim but did not receive it”, in Libya Al Youm, 24 aprile 2008.

[134] Intervista telefonica di Human Rights Watch con A.B., 9 marzo 2009.

[135] “North Benghazi Primary Court Ruling (Arabic)”, 8 giugno 2008, riportato in Akhbar Libya, http://www.akhbar-libyaonline.com/index.php?option=com_content&task=view&id=19275&Itemid=1 (accesso del 30 settembre 2009).

[136] “Secretary of the General People’s Committee for Justice on Abu Salim incident”, in Quryna, 1° dicembre 2008.

 

[137] Intervista telefonica di Human Rights Watch con A.B., 9 marzo 2009.

[138] Libya Human Rights Solidarity, “Abu Saleem Prison Massacre Libya” 28-29 giugno 1996.

[139] Intervista di Human Rights Watch con il consigliere Mostafa Abdeljalil, Segretario alla giustizia, Tripoli, 26 aprile 2006.

[140] Intervista telefonica di Human Rights Watch con M.S., 24 maggio 2009.

[141] Intervista di Human Rights Watch con Mohamed Hamil Ferjany, Stati Uniti, 13 agosto 2009.

[142] Intervista telefonica di Human Rights Watch con M.A., 20 maggio 2009.

[143] Intervista di Human Rights Watch con Fathi Terbil, Bengasi, 24 aprile 2009.

[144] “Misratah is informed of its dead in the Abu Salim massacre”, in Libya Al Mostakbal, 18 febbraio 2009, http://www.libya-almostakbal.info/News2009/Feb2009/180209_misrata_busleem_victims.html (accesso del 30 settembre 2009).

[145] Intervista di Human Rights Watch con M.I., Bengasi, 24 aprile 2009.

[146] Intervista di Human Rights Watch con M.O., Londra, 29 giugno 2009.

[147] Per maggiori informazioni sulla pena di morte in Libia, v. cap.X “La pena di morte”.

[148] Intervista di Human Rights Watch con il consigliere Mostafa Abdeljalil, Segretario alla giustizia, Tripoli, 26 aprile 2009.

[149] “Press Release on Various Cases”, Fondazione internazionale Gheddafi per la beneficenza e lo sviluppo,10 agosto 2009,  http://www.gdf.org.ly/index.php?lang=ar&CAT_NO=4&MAIN_CAT_NO=4&Page=105&DATA_NO=553 (accesso del 17 agosto 2009).

[150] Intervista telefonica di Human Rights Watch con M.S., 24 maggio 2009.

[151] “Families of lost prisoners reject compensation offer” in Al Jazeera, 23 agosto 2008. http://www.aljazeera.net/NR/exeres/D0AC3A84-BD26-4AB9-8E82-B7AF403C8F8C.htm (accesso del 4 luglio 2009).

[152] Intervista telefonica di Human Rights Watch con Mohamed Hamil Ferjany, 8 luglio 2009.

[153] Intervista telefonica di Human Rights Watch con A.B., 26 marzo 2009.

[154] Cfr. l’archivio notizie di Libya Al Youm, http://www.libya-alyoum.com/, accesso effettuato durante il 2009.

[155] Intervista telefonica di Human Rights Watch con A.B., 9 marzo 2009.

[156] Intervista di Human Rights Watch con Mohamed Hamil Ferjany, Stati Uniti, 13 agosto 2009.

[157] Intervista telefonica di Human Rights Watch con M.I., Bengasi, 24 aprile 2004.

[158] Lettere, Libya al Mostakbal, www.libya-al-mostakbal.org (accesso del 30 settembre 2009); intervista telefonica di Human Rights Watch con A.B., 26 marzo 2009.

[159] Intervista telefonica di Human Rights Watch con Mohamed Hamil Ferjany, 8 luglio 2009.

[160] “Urgent Action: Arbitrary Arrest  and Fear of Torture”, comunicato stampa di Libya Human Rights Solidarity, 26 marzo 2009.

[161] Intervista di Human Rights Watch con Fathi Terbil, Bengasi, 24 aprile 2009.

[162] Intervista di Human Rights Watch con Fathi Terbil, Bengasi, 24 aprile 2009.

[163] Video postato su Al Manara, all’indirizzo:  http://www.almanaralink.com/new/index.php?scid=4&nid=16626 (accesso del 20 giugno 2009).

[164] Muftah Abu Zaid, “In response to the demonstration by families of the Abu Salim incident, Counselor Mostafa Abdeljalil, Secretary of Justice tells Quryna ‘we have created a committee to resolve the issue in the context of reconciliation but those who do not accept its terms are free to resort to the courts”, in Quryna, 30 giugno 2009.

[165] Principi e linee guida fondamentali sul diritto all’indennizzo e al risarcimento per le vittime di gravi violazioni delle norme internazionali sui diritti umani e di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, 21 marzo 2006, adottati dalla 60ª Assemblea Generale delle Nazioni Unite, A/RES/60/147, par. 11 (c) e 24.

[166] Corpus dei principi per la protezione e promozione dei diritti umani tramite l’azione per combattere l’impunità, 2 ottobre 1997, adottati dalla Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani, E/CN.4/Sub.2/1997/20/Rev.1, principio n. 3.

[167] Il Comitato diritti umani delle Nazioni Unite ha formulato questo principio nel caso Quinteros v. Uruguay, concludendo che la madre di una persona “scomparsa” aveva i titoli per essere risarcita come vittima, per la sofferenza causata dall’incapacità dello Stato nel fornirle informazioni. Quinteros v. Uruguay, Comitato diritti umani delle Nazioni Unite, caso n.107/1981: “Il Comitato comprende l’angoscia e lo stress provocato alla madre dalla sparizione della figlia e dalla continua incertezza riguardante la sua sorte e localizzazione. La ricorrente ha il diritto di sapere che cosa è accaduto a sua figlia. Sotto questo profilo, anch’ella è una vittima delle violazioni sancite dalla Convenzione, in particolare con riferimento all’art.7.”

[168] Corpus dei principi per la protezione e promozione dei diritti umani tramite l’azione per combattere l’impunità, 2 ottobre 1997, adottati dalla Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani, E/CN.4/Sub.2/1997/20/Rev.1, principio n. 1.

[169]Trujillo Oroza v. Bolivia (Risarcimenti), giudizio del 27 febbraio 2002, par. 115, http://www.corteidh.or.cr/docs/casos/articulos/Seriec_92_ing.pdf, (accesso del 28 settembre 2009. Cfr. anche  Staselovich v. Belarus, Comunicazione del Comitato diritti umani delle Nazioni Unite, comunicazione n.887/1999, par. 9.2 (2003), http://humanrights.law.monash.edu.au/undocs/887-1999.html (accesso del 28 settembre 2009).

[170] ICCPR, art.14(1): “Ogni individuo ha diritto ad un’equa e pubblica udienza dinanzi a un tribunale competente, indipendente e imparziale stabilito dalla legge”. La Carta africana dei diritti umani e dei popoli, art.7(1) (b,d); art.7 afferma che ognuno ha “diritto alla presunzione di innocenza fino a che la sua colpevolezza sia stabilita da una corte o tribunale competente” e “diritto di essere giudicato in un tempo ragionevole da una corte o tribunale imparziale”.

[171] Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani, “Diritti civili e politici, compresa la questione relativa all’indipendenza della magistratura, l’amministrazione della giustizia, l’impunità”, rapporto del Relatore Speciale della Sottocommissione sulla promozione e protezione dei diritti umani, Emmanuel Decaux, E/CN.4/2006/58, 13 gennaio 2006, principio 9.

[172] Cfr. Human Rights Watch, Libya  Words to Deeds, Volume 18, No.1(E), New York, Human Rights Watch, 24 gennaio 2006, http://www.hrw.org/en/reports/2006/01/24/libya-words-deeds-0, cap.V.

[173] “Reforms Welcome, But Concerns Remain”, comunicato stampa di Human Rights Watch, 23 maggio 2005, http://www.hrw.org/en/news/2005/05/22/libya-reforms-welcome-concerns-remain;

“Libya: Abolition of People’s Court is an Important Step”, dichiarazione pubblica di Amnesty International, AI Index: MDE 19/001/2005, 13 gennaio 2005, http://www.amnesty.org/en/library/asset/MDE19/001/2005/en/e4b98fc8-d532-11dd-8a23-d58a49c0d652/mde190012005en.pdf (accesso del 30 settembre 2009) .

[174] Intervista di Human Rights Watch con il dottor Abdulrahman Abu Tuta, Presidente della Corte Suprema libica, Tripoli, 21 aprile 2009.

[175] Comitato diritti umani delle Nazioni Unite (HRC), Considerazione dei rapporti presentati dagli Stati parte ai sensi dell’art.40 del Patto: Patto internazionale sui diritti civili e politici : osservazioni conclusive del Comitato diritti umani:Giamahiria Araba Libica, 15 novembre 2007, CCPR/C/LBY/CO/4,  http://www.unhcr.org/refworld/docid/474aa9ea2.html (accesso del 30 settembre 2009).

[176] Intervista di Human Rights Watch con il consigliere Mostafa Abdeljalil, Segretario alla giustizia, Tripoli, 26 aprile 2009.

[177] Comitato diritti umani delle Nazioni Unite (HRC), “Considerazione dei rapporti presentati dagli Stati parte ai sensi dell’art.40 del Patto: Patto internazionale sui diritti civili e politici : osservazioni conclusive del Comitato diritti umani: Giamahiria Araba Libica”,15 novembre 2007, CCPR/C/LBY/CO/4,  http://www.unhcr.org/refworld/docid/474aa9ea2.html (accesso del 30 settembre 2009).

[178] Intervista di gruppo di Human Rights Watch con alcuni avvocati, Ordine degli avvocati di Tripoli, 22 aprile 2009.

[179] Le sua rivendicazioni combaciano con ciò che è noto riguardo al trattamento dei detenuti da parte della CIA, cfr. Human Rights Watch, Ghost Prisoner: Two Years in Secret CIA Detention, 27 febbraio 2007, http://www.hrw.org/en/reports/2007/02/26/ghost-prisoner-0 (accesso del 7 novembre 2009) e Ispettore generale della Central Intelligence Agency, Counterterrorism Detention and Interrogation Activities (September 2001 - October 2003), 7 maggio 2004.

[180] La CIA ha consegnato un numero imprecisato di detenuti a Paesi come Libia, Giordania, Egitto e Siria negli anni successivi agli attacchi dell’11 settembre. Cfr. Human Rights Watch, Double Jeopardy, 7 aprile 2008, http://www.hrw.org/en/reports/2008/04/07/double-jeopardy (accesso del 7 novembre 2009).

[181] Intervista di Human Rights Watch con Abdelhakim Al Khoweildy, carcere di Abu Salim, Tripoli, 27 aprile 2009.

[182] Intervista di Human Rights Watch con Mohamed Ahmed Al-Shoro’eyya, carcere di Abu Salim, Tripoli, 27 aprile 2009.

[183] Intervista di Human Rights Watch con Jamal el Haji, Tripoli, 29 aprile 2009.

[184] Intervista di Human Rights Watch con Idris Boufayed, Ginevra, 6 aprile 2009.

[185] Intervista di Human Rights Watch con Jamal el Haji, Tripoli, 29 aprile 2009.

[186] Intervista telefonica di Human Rights Watch con Shukri Sahil, 25 giugno 2009.

[187] Intervista di Human Rights Watch con il dottor Abdulrahman Abu Tuta, presidente della Corte Suprema libica, Tripoli, 21 aprile 2009.

[188] Intervista di Human Rights Watch con il dottor Abdulrahman Abu Tuta, presidente della Corte Suprema libica, Tripoli, 21 aprile 2009.

[189] “Egyptian-Libyan Consular Delegation Meets to discuss the Issue of Egyptians on Death Row in Libya and the Situation of Egyptian Workers in Libya (Arabic)”, in El Masry Al Youm, 11 dicembre 2008, http://www.almasry-alyoum.com/article2.aspx?ArticleID=189931&IssueID=1251 (accesso del 30 settembre 2009).

[190] “Libya executes Egyptian prisoner... Those released thank the Egyptian Foreign Ministry for its intervention on their behalf (Arabic)”, in El Masry Al Youm, 20 novembre 2008, http://www.almasry-alyoum.com/article2.aspx?ArticleID=187213 (accesso del 30 settembre 2009).

[191] “Gaddafi Wants Death Penalty Scrapped”, in Reuters, 2 novembre 2004.

[192] Comitato diritti umani delle Nazioni Unite (HRC), “Considerazione dei rapporti presentato dagli Stati parte ai sensi dell’art.40 del Patto: Patto internazionale sui diritti civili e politici: osservazioni conclusive del Comitato diritti umani: Giamahiria Araba Libica”, 15 novembre 2007, CCPR/C/LBY/CO/4,  http://www.unhcr.org/refworld/docid/474aa9ea2.html (accesso del 30 settembre 2009), par.13.

 

[193] Del calendario libico [N.d.T].

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